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Il nuovo approccio terapeutico per correggere il difetto ereditario è stato sperimentato con successo in tre neonati affetti da patologie genetiche. Ha permesso di ritardare il trapianto di fegato di almeno un anno in tutti i pazienti trattati, ponendo le basi scientifiche per la possibile correzione definitiva di diverse malattie genetico-metaboliche con procedura mini-invasiva.
Successo tutto italiano alla Città della salute di Torino. Per la prima volta al mondo sono sperimentate con risultati positivi, cellule staminali epatiche in neonati affetti da gravissime malattie metaboliche ereditarie.
Il nuovo approccio terapeutico è stato sperimentato in tre neonati affetti da patologie genetiche che determinano coma neonatale e necessitano di trapianto di fegato nei primi mesi di vita e ha consentito di iniettare cellule staminali epatiche sane direttamente nel fegato dei piccoli pazienti poco dopo la nascita con lo scopo di correggere il difetto ereditario. La procedura innovativa ha permesso di ritardare il trapianto d’organo di almeno un anno in tutti i pazienti trattati, ponendo le basi scientifiche per la possibile correzione definitiva di diverse malattie genetico-metaboliche con procedura mini-invasiva.
Lo studio appena pubblicato sulla rivista internazionale Stem Cell Reviews and Reports è frutto della proficua collaborazione tra alcuni Centri di eccellenza dell’ospedale Regina Margherita e dell’ospedale Molinette afferenti alla Città della Salute di Torino, il Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino (MBC) e l’azienda biomedicale Unicyte AG.
La sperimentazione clinica è stata condotta al Regina Margherita da Marco Spada (Direttore della Pediatria e del Centro Regionale per la cura delle malattie metaboliche del Regina Margherita), coadiuvato da Francesco Porta, Renato Romagnoli (Direttore del Centro Trapianti di Fegato delle Molinette) e Dorico Righi (Direttore della Radiologia dell’ospedale Molinette) hanno avuto ruolo clinico primario in qualità di co-sperimentatori in questo studio pionieristico.
Essenziali per questo successo scientifico-terapeutico anche l’apporto del Laboratorio del Centro Trapianti di Cellule staminali e Terapia Cellulare del Regina Margherita (diretto da Franca Fagioli) e del Centro di Coordinamento Trapianti (diretto da Antonio Amoroso).
La nuova terapia sperimentale è stata possibile grazie alle ricerche sulle cellule staminali epatiche condotte dal gruppo di Giovanni Camussi del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino con il Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino (Lorenzo Silengo e Fiorella Altruda). Il processo scientifico tutto torinese che, partendo dalla ricerca di base, ha consentito lo sviluppo e l’applicazione clinica sui piccoli pazienti di una nuova strategia terapeutica per gravi malattie genetiche del bambino pone la Città della Salute di Torino e l’Università di Torino tra le eccellenze mondiali in campo medico.
La raccomandazione contenuta nel nuovo Report dell’European Heart Network è per un’attività regolare di almeno 150 minuti a settimana di intensità moderata o 75 minuti a settimana di attività fisica ad intensità vigorosa o una combinazione equivalente. Secondo lo studio oltre il 40% degli italiani svolge un’attività fisica insufficiente.
L’inattività fisica aumenta di oltre il 20% il rischio di malattie cardiovascolari. A dirlo è l’European Heart Network, in collaborazione con l’Ufficio europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili dell’Oms, in un rapporto sulle politiche di attività fisica per la salute cardiovascolare. Ogni anno, le malattie cardiovascolari causano 3,9 milioni di morti in Europa e oltre 1,8 milioni di morti nell’Unione Europea. Tuttavia, in Europa, si stima che il 25% delle donne e il 22% degli uomini siano fisicamente inattivi. E gli italiani sono tra i più ‘pigri’ con oltre il 40% della popolazione che svolge un’insufficiente attività fisica.
Il rapporto mostra che impegnarsi in attività fisica è benefico per le persone sane e per le persone che vivono con malattie cardiovascolari. Dimostra il sottoutilizzo di misure politiche per promuovere l’attività fisica a livello di popolazione per prevenire le malattie cardiovascolari. La raccomandazione è per un’attività regolare di almeno 150 minuti a settimana di intensità moderata o 75 minuti a settimana di attività fisica ad intensità vigorosa o una combinazione equivalente.
Nello studio si dimostra inoltre l’efficacia dell’attività fisica nei pazienti, evidenziando la necessità di programmi flessibili, personalizzati e basati su menu, adattati alle circostanze e alle esigenze dei singoli pazienti nell’ambito della riabilitazione cardiovascolare.
Aneddoti storici ed esperienze personali suggeriscono che lo stress possa accelerare l’imbiancamento dei capelli. Dei ricercatori di Harvard hanno rivelato per la prima volta attraverso quale meccanismo lo stress fisico agisce sull’organismo dei topi e priva i loro peli del colore in modo irreversibile
“Egli era molto pallido, e tremava leggermente. I suoi capelli, grigi al momento dell’arrivo ad Arras, erano ormai completamente bianchi. Erano sbiancati in un’ora”. Forse i capelli non incanutiscono in un’ora, come è successo a Jean Valjean, protagonista de I Miserabili di Victor Hugo. È vero però, che lo stress, la tensione, l’ansia, possono provocare l’imbiancamento dei capelli, e un gruppo di ricercatori di Harvard potrebbe aver scoperto come: provocando la riduzione, al livello dei follicoli piliferi, del numero di cellule staminali responsabili della rigenerazione dei melanociti, le cellule che producono melatonina e pigmentano pelle e capelli.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, mostra come lo stress possa avere un effetto diretto sulle cellule del corpo.
Alla base dei capelli, a livello del follicolo pilifero ci sono delle cellule staminali del follicolo e delle cellule staminali dei melanociti, di solito quiescenti, che, nelle fasi di crescita del capello, si moltiplicano e si differenziano nelle cellule mature per rigenerare il capello colorato. Per scoprire l’effetto dello stress su questo sistema, i ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti su dei topi dal pelo nero.
La prima cosa da fare era assicurarsi che ci fosse un legame tra stress e colore del pelo, gli animali sono stati quindi sottoposti a vari tipi di stress, che hanno provocato la classica risposta allo stress che consiste nella liberazione di cortisone e noradrenalina, e anche incanutimento precoce dei peli. L’imbiancamento dei peli era dovuto, hanno scoperto gli autori, ad una riduzione molto significativa o addirittura alla scomparsa, delle cellule staminali dei melanociti. Senza queste cellule non c’era nulla che potesse conferire una colorazione al pelo.
Cosa provoca questa riduzione? I possibili colpevoli presi in considerazione dai ricercatori sono stati proprio cortisolo e noradrenalina, secreti in gran quantità in risposta allo stress. Dagli esperimenti è risultato che la liberazione eccessiva della noradrenalina, e non del cortisolo, da parte dei neuroni del sistema nervoso simpatico, fosse la causa della diminuzione del numero delle staminali. Il sistema nervoso centrale provoca la famosa risposta lotta o fuggi in risposta ad un pericolo, reazione considerata positiva per la sopravvivenza. “In questo caso, però, lo stress acuto provoca l’esaurimento permanente delle cellule staminali”, ha spiegato Bing Zhang, autore principale di lo studio.
I ricercatori hanno osservato al microscopio che le terminazioni nervose del sistema simpatico raggiungono quasi i bulbi piliferi. In questa sede rilasciano noradrenalina, la quale, hanno scoperto, stimola una proliferazione a dir poco eccessiva dei melanociti staminali, i quali si differenziano in cellule mature e migrano, proprio come avviene nei momenti di crescita del capello. In questo caso però, la percentuale di cellule che migra è così importante che il numero di staminali si riduce notevolmente o del tutto. E il processo è irreversibile.
“Dopo pochi giorni, tutte le cellule staminali che rigenerano i pigmenti sono perse. Una volta sparite, non è più possibile rigenerare il pigmento. Il danno è permanente.” Ha commentato Ya-Chieh Hsu, Professore associato di Stem Cell and Regenerative Biology ad Harvard e autore senjor dello studio.
Non ci sono ancora prove sufficienti del fatto che questi meccanismi siano gli stessi che agiscono negli uomini, d’altra parte i processi coinvolti nei topi (la produzione di pigmenti da parte delle cellule staminali e l’azione dei nervi del sistema simpatico), sono molto simili a quelli osservati negli uomini. I ricercatori hanno anche mostrato che la noradrenalina provoca la proliferazione eccessiva delle cellule staminali dei melanociti umani coltivate in laboratorio, proprio come è stato osservato negli animali.
“Comprendendo esattamente come lo stress influenza le cellule staminali che rigenerano il pigmento, abbiamo posto le basi per capire come lo stress influisce su altri tessuti e organi del corpo”, ha sottolineato Hsu. E questo “è il primo passo critico verso la messa a punto di un eventuale trattamento che possa arrestare o invertire, l’impatto negativo dello stress. Abbiamo ancora molto da imparare in questo settore”.
Nel panico generale il ragazzo corre e applica le regole del primo soccorso, guidato per telefono dagli operatori 118: all’arrivo i complimenti degli operatori.
Ci fosse ancora De Amicis, ne farebbe uno dei racconti mensili del suo Cuore, insieme alla Piccola Vedetta Lombarda e al Piccolo Scrivano fiorentino. Storie di appendice accanto alle quali merita di stare quella del diciassettenne aretino che ha salvato il nonno colpito da un infarto con il massaggio cardiaco che aveva imparato a scuola in un corso di salvataggio.Un corollario drammatico, ma al tempo stesso coronato da successo, del pranzo domenicale.
A Capolona, cintura industriale di Arezzo. Succede tutto con la famiglia riunita a tavola. Il nonno, 78 anni, si sente male mentre sta mangiando: gli manca il fiato, il cuore dà segni di cedimento. Tutto attorno è il panico: che fare di fronte a una vita che se ne sta andando nel pieno del dì di festa? L’unico che ha la freddezza e anche il coraggio di intervenire è il nipote. Sia l’affetto verso una figura più che paterna, sia la disperazione di chi si vede sparire davanti agli occhi una persona cara, lo studente trova la forza per far sdraiare il nonno, poi gli allenta la camicia e comincia a praticargli il messaggio cardiaco. Intanto, in casa, qualcuno ha chiamato il 118. E lì c’è un operatore che, mentre fa partire un’ambulanza per i soccorsi, guida il ragazzo nelle sue manovre sul petto dell’anziano.
Non ce n’è neppure troppo bisogno, perché il diciassettenne sa già da solo come fare. Ma una voce amica, uno che ti spiega come comportarti, è sempre un conforto in una situazione terribile come questa, attimi nei quali si decide della vita e della morte, momenti in cui si cerca di strappare un uomo all’ineluttabile. Non deve essere durato molto lo sforzo disperato del nipote per salvare il nonno: cinque-dieci minuti al massimo, il tempo perché l’ambulanza col medico arrivi fino a casa. Quanto basta però per evitare che l’arresto cardiaco diventi una sentenza senza appello, perché il cuore conservi quel minimo di funzionalità che consentirà poi ai soccorritori professionali di prendere in mano la situazione prima che tutto sia compromesso. Loro trovano il diciassettenne che ancora preme con forza sul petto del nonno, nel movimento tipico del massaggio cardiaco. Adesso tocca a quelli del mestiere intervenire e stabilizzare il paziente. Ma se riescono a farlo è appunto perché il ragazzo non ha mai mollato nel lasso di tempo che avrebbe potuto consentire all’infarto di finire la sua opera di devastazione. I complimenti per il nipote a questo punto vengono spontanei: hai salvato tuo nonno. Lui si schermisce: non ho fatto altro che applicare quanto mi avevano insegnato a scuola, un istituto superiore del capoluogo. La fase più critica è superata, il settantottenne viene caricato in ambulanza e trasportato all’ospedale San Donato di Arezzo. E’ tuttora in condizioni gravi, ma se non fosse stato per il nipote la sua battaglia per la vita sarebbe stata persa prima ancora di cominciare.
E visto che siamo all’imbocco del Casentino dantesco, viene da pensare a una scena della Divina Commedia, quella nella quale un angelo e un demone si contendono l’anima di Bonconte da Montefeltro, nella piana di Campaldino, qualche chilometro più a nord di Capolona. Anche allora vinse l’angelo, solo che stavolta aveva le sembianze di un nipote adolescente. Un posto fra i personaggi di De Amicis se lo merita tutto.
La procedura si è svolta in due tempi: il paziente ha eseguito qualche settimana prima dell’intervento un esame TC della caviglia, in posizione eretta. Da questo esame, un’attenta ricostruzione 3D ha permesso di ricavare un modello tridimensionale. Chirurghi ortopedici e ingegneri biomedici hanno simulato l’intervento chirurgico al computer. Raggiunto e verificato il risultato più soddisfacente la protesi vera e propria per l’impianto finale è stata infine stampata in una lega di Cromo-Cobalto-Molibdeno con la tecnologia Ebm.
Una tecnica innovativa di personalizzazione dell’intera procedura di sostituzione protesica di caviglia, che partendo dall’anatomia di ogni singolo paziente permette di costruire un impianto su misura in stampa 3D, è stata messa a punto grazie alla collaborazione tra chirurghi ortopedici e ingegneri dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e dell’Università di Bologna.
Cesare Faldini, direttore della Clinica Ortopedica I, ha coordinato l’equipe che ha eseguito l’impianto su un paziente di 57 anni, che aveva perso la funzionalità articolare in seguito a un incidente stradale. Era finora considerato non operabile a causa della severa alterazione anatomica della sua caviglia; oggi cammina, grazie all’intervento eseguito al Rizzoli il 9 ottobre scorso.
Le fratture che distruggono la caviglia, dette destruenti in termici medici, non sono rare e sono causate principalmente da incidenti stradali (in moto, in bici o investimenti) e da infortuni sul lavoro (cadute dall’alto). A subirle sono tipicamente pazienti giovani, che salvano il piede ma non la sua funzionalità, e spesso, alla fine di un lungo e problematico percorso di cura, rimangono con gravi danni all’articolazione della caviglia: la mancanza di movimento e il dolore determinano così una severa zoppia e la necessità di calzature ortopediche o di plantari, che limitano gravemente la vita di relazione e la capacità lavorativa.
L’applicazione di una protesi articolare in situazioni come queste fino ad oggi era resa complessa dal fatto che le componenti protesiche standard sono progettate per articolazioni anatomicamente regolari, con danni artrosici solo a livello della cartilagine. Gli esiti di gravi traumi e di fratture, modificando notevolmente la forma articolare, rendono l’intervento di sostituzione protesica classica possibile solo in pochi casi, lasciando gli altri pazienti privi dell’articolazione a causa delle alterazioni dell’anatomia determinate dal trauma. Unica soluzione in questi casi per ridurre il dolore è l’artrodesi, che consiste però nella fusione dei due capi articolari con la conseguente perdita totale di movimento e sovraccarico alle altre articolazioni del piede.
“L’intervento eseguito al Rizzoli – spiega il professor Faldini – rappresenta un’innovazione assoluta a livello mondiale perché è la prima volta che un impianto protesico per la caviglia a conservazione dell’isometria legamentosa viene costruito in stampa tridimensionale e impiantato con una tecnica a guide di taglio personalizzate che permettono di risparmiare tempo chirurgico e tessuto osseo in un paziente affetto da una distruzione articolare post traumatica.”
La procedura si è svolta in due tempi: il paziente ha eseguito qualche settimana prima dell’intervento un esame TC della caviglia, in posizione eretta. Da questo esame, un’attenta ricostruzione 3D ha permesso di ricavare un modello tridimensionale della gamba e del piede del paziente, tramite software e procedure sviluppati al Laboratorio di Analisi del Movimento del Rizzoli dal gruppo di ricerca di Alberto Leardini.
Chirurghi ortopedici e ingegneri biomedici hanno simulato l’intervento chirurgico al computer, lavorando su forma e dimensione di ogni componente protesica per venire incontro alle caratteristiche anatomiche specifiche del paziente, fino a trovare la combinazione ottimale delle componenti di astragalo e tibia, le due ossa che compongono la caviglia.
Una volta stabilita la geometria della protesi e il suo posizionamento ideale, è stato prodotto un corrispondente modello osseo e protesico in stampa 3D in materiale plastico, per le prove manuali finali. Raggiunto e verificato il risultato più soddisfacente sia per il chirurgo che per l’ingegnere, la protesi vera e propria per l’impianto finale è stata infine stampata in una lega di Cromo-Cobalto-Molibdeno con la tecnologia Ebm (un fascio di elettroni fonde strato per strato la polvere metallica in base al file fornito dal Rizzoli).
Ultima fase del percorso, il ricovero del paziente: l’intervento chirurgico, nonostante la complessità legata alla presenza di una grave alterazione dell’anatomia, è stato reso meno invasivo dall’utilizzo di guide personalizzate, costruite sempre in stampa 3D e progettate a stampo sull’osso virtuale del paziente, che hanno permesso di rimuovere solo la esatta parte di cartilagine e osso accessori, risparmiando il tessuto osseo necessario per ospitare le componenti protesiche.
Sia la tibia che l’astragalo, così preparati, hanno potuto “ricevere” ottimamente l’impianto protesico su misura: già a fine intervento, in sala operatoria, è stato possibile valutare il perfetto posizionamento e l’ottimo recupero dell’arco di movimento dell’articolazione della caviglia. Anche il protocollo post operatorio è stato personalizzato: riportare in movimento continuo un’articolazione bloccata da anni è complesso e ha richiesto un’intensa collaborazione con l’Unità di Medicina Fisica e Riabilitativa del Rizzoli diretta da Maria Grazia Benedetti.
“Questa strategia, pensata per pazienti resi disabili da gravi incidenti che hanno compromesso irrimediabilmente la funzione articolare della caviglia – commenta il direttore generale del Rizzoli Mario Cavalli – è anche frutto della collaborazione tra il Rizzoli, con i suoi chirurghi ortopedici, gli ingegneri, i fisiatri, e gli Istituti di Anatomia e di Ingegneria dell’Università di Bologna. La valorizzazione delle diverse competenze in ambito tecnologico, ingegneristico e medico, coordinate in un IRCCS, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, quale il Rizzoli, ha permesso di dare una risposta clinica di altissima innovazione a pazienti per i quali fino ad oggi la chirurgia non poteva nulla per migliorare la loro disabilità.”
Oltre 100 anni prima che la scienza descrivesse la meccanica del sistema circolatorio e quindi anche della vena giugulare, Michelangelo la scolpì correttamente nelle sue opere, in particolare nel David.
Un dettaglio che conferma il genio del grande scultore, pittore, architetto e poeta italiano in grado, con ‘occhio clinico’ e spirito di osservazione, di anticipare le scoperte della medicina.
A rilevarlo è un articolo di Daniel Gelfman, del Marian University College of Osteopathic Medicine di Indianapolis, su Jama Cardiology.
Se nelle sculture, e nella fisiologia quotidiana, la giugulare che va dalla parte superiore del busto attraverso il collo non è visibile, infatti, nel capolavoro del Rinascimento è “distesa” ed evidente sopra la clavicola del David. Il medico americano che ha visto la statua quest’anno a Firenze è stato il primo a notare il dettaglio. La distensione della giugulare può verificarsi anche per “elevate pressioni intracardiache e possibili disfunzioni”, ma il David è giovane e in ottime condizioni fisiche, quindi in lui è visibile per lo stato di eccitazione temporanea. “All’epoca della creazione del David – osserva Gelfman – nel 1504, William Harvey non aveva ancora descritto la vera meccanica del sistema circolatorio. Non avvenne fino al 1628”.
Alzarsi presto al mattino e praticare una leggera attività aerobica. Disintossicare il fegato con una dieta pesco-vegetariana. Riequilibrare la flora intestinale con fermenti probiotici. Idratarsi con acqua e tè verde bancha bevanda ricchissima di antiossidanti nemica giurata dei radicali liberi.
Sono le quattro regole auree suggerite dalla nutrizionista e ricercatrice del Crea, Stefania Ruggeri per rimettersi in riga subito dopo le feste con un regime equilibrato e sopratutto non punitivo. Un compito non facile, sopratutto dopo lo sfalsamento dei ritmi sonno-veglia tipici dei giorni di vacanza.
La parola d’ordine, secondo la nutrizionista, è prediligere alimenti e bevande in grado di disintossicare l’organismo eliminando le scorie che causano infiammazioni, gonfiore e spossatezza. “Basta una settimana di cattiva alimentazione con surplus calorico”, fa sapere la ricercatrice, basandosi su diversi studi scientifici, “per modificare il ‘microbiota’ intestinale e portarci ad una disbiosi, vale a dire l’aumento dei cosiddetti batteri ‘cattivi’ responsabile di un male assorbimento dei nutrienti e del rischio di sovrappeso”.
ANSA
Grazie a un accordo con le farmacie convenzionate, tutti i dispositivi medici necessari per la terapia del diabete, dell’incontinenza, dei pazienti stomizzati, i prodotti per medicazioni, gli integratori e prodotti dietetici per le malattie rare, saranno accessibili capillarmente su tutto il territorio della Toscana.
La Regione Toscana prosegue nel percorso di avvicinare l’assistenza ai pazienti, facilitando l’accesso alle terapie. Grazie a un accordo con le farmacie convenzionate pubbliche e private, tutti i dispositivi medici necessari per la terapia del diabete, dell’incontinenza (ad eccezione dei pannoloni, che vengono già erogati a domicilio degli aventi diritto), dei pazienti stomizzati, i prodotti per medicazioni, gli integratori e prodotti dietetici per le malattie rare, saranno accessibili capillarmente su tutto il territorio della Toscana.
“Sono molto contenta di questo accordo davvero importante con il sistema delle farmacie pubbliche e private – ha detto l’assessore Saccardi – Ha avuto una gestazione lunga, oggi ci consente di dire che andiamo a rafforzare la rete delle farmacie sul territorio, per la distribuzione dei presidi di cui i cittadini hanno bisogno più di frequente. Le farmacie sono un riferimento importante per i cittadini sul territorio, e hanno un ruolo, non solo di distribuzione di farmaci e dispositivi, ma hanno un valore aggiunto in termini di consigli e assistenza”.
“Questo accordo è nato dopo un anno e più di lavoro, non sempre semplice – ha ricordato Roberto Banfi – E’ importante per il paziente cronico andare nel punto di riferimento più vicino, che è la farmacia; la facilità di accesso è fondamentale. In zone disagiate, l’unica presenza di tipo sanitario è proprio la farmacia”.
“L’aspetto innovativo di questo accordo – ha sottolineato Marco Nocentini Mungai – è che è unico per tutto il territorio regionale, con un’unica modalità di distribuzione e presa in carico del paziente. Coinvolge tutte le 1.300 farmacie pubbliche e private della regione. Una volta a regime, i pazienti avranno grandi benefici”.
“L’obiettivo prioritario – chiarisce Alessio Poli – è ridurre il costo sociale a carico dei pazienti, non più costretti a recarsi presso le farmacie ospedaliere, con gli spostamenti e i disagi conseguenti. Il tutto senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale, in quanto la remunerazione del servizio alle farmacie verrà compensato dai risparmi ottenuti sugli acquisti centralizzati. Un accordo realizzato grazie al clima di collaborazione instaurato con la Regione, in un momento in cui l’ottimizzazione delle risorse è processo imprescindibile per garantire il mantenimento dell’assistenza sanitaria ai cittadini e la prossimità nell’accesso alle cure”.
Questo accordo porterà a un migliore accesso da parte dei pazienti a questi importanti prodotti, fino ad oggi erogati tramite le strutture del SSR (farmacie ospedaliere), che sicuramente hanno una minore diffusione territoriale.
Con questo accordo prosegue inoltre il percorso per concentrare nelle farmacie convenzionate (pubbliche e private) delicate funzioni assistenziali e di servizio al cittadino. Ricordiamo infatti che sono già attivi sia la Distribuzione per conto del Ssr di numerosi e importanti farmaci, che la prenotazione CUP. Con l’accordo siglato stamani si affida alle farmacie convenzionate la presa in carico di numerosi pazienti (pensiamo al diabete), con il vantaggio per questi ultimi di migliorare l’accessibilità alle cure anche nei piccoli centri della nostra regione.
Inoltre il paziente troverà un professionista preparato e consapevole dell’importanza del proprio contributo per il raggiungimento del risultato terapeutico, aiutato spesso anche dalla “vicinanza” e quindi conoscenza del paziente stesso.
Si tratta di una ulteriore tappa in un percorso che la Regione intende proseguire mediante futuri accordi che interesseranno anche ulteriori funzioni da trasferire alle farmacie convenzionate, quali diagnostica e accessi domiciliari ai pazienti particolarmente fragili per arrivare a un elevato grado di vicinanza dei servizi ai pazienti.
Il piccolo paziente, affetto da broncomalacia, è tornato a respirare autonomamente. Il suo bronco era schiacciato tra l’arteria polmonare sinistra e l’aorta toracica discendente. “I dispositivi 3D realizzati con materiale riassorbibile, destinati a scomparire e ad assolvere la loro funzione in maniera poco traumatica, rappresentano la nuova frontiera della chirurgia delle vie aree in età pediatrica” spiega il cardiochirurgo che l’ha operato, Adriano Carotti.
Un “bronco” riassorbibile stampato in 3D per restituire il respiro a un bambino di 5 anni. È stato impiantato all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, con un intervento sperimentale, su un paziente affetto da broncomalacia, un cedimento della parete bronchiale che impediva il normale flusso di aria nel polmone sinistro. È la prima operazione di questo genere in Europa.
Il dispositivo, realizzato grazie a un lavoro d’équipe durato oltre 6 mesi, ha consentito al bambino di respirare autonomamente. Il “bronco” 3D è stato interamente progettato al Bambino Gesù con sofisticate tecniche di imaging e bioingegneria. È stato stampato con materiale bio-riassorbibile che verrà progressivamente eliminato dall’organismo dopo aver accompagnato la crescita dell’apparato respiratorio del bambino e restituito al bronco la sua funzionalità. A poco meno di un mese dall’intervento, il bimbo è potuto tornare a casa.
“Il “bronco” 3D – spiega l’ospedale pediatrico in una nota – nasce da un progetto del Bambino Gesù basato su uno studio dell’Università del Michigan, negli Stati Uniti, dove sono stati eseguiti i primi 15 impianti del genere. Il dispositivo personalizzato è stato disegnato sull’anatomia del piccolo paziente partendo dalle immagini bidimensionali (TAC) realizzate nel Dipartimento di Diagnostica per Immagini dal dott. Aurelio Secinaro e poi rielaborate con sofisticate tecniche di bioingegneria dal dott. Luca Borro dell’Unità di Innovazione e Percorsi Clinici. Il modello tridimensionale, una “gabbietta” cilindrica che riproduce la struttura del bronco, è stato stampato con policaprolattone e idrossiapatite, composto bio-riassorbibile che viene eliminato dall’organismo nell’arco di circa 2 anni.”
La stampa 3D è stata affidata, nell’ambito di un progetto di ricerca, al centro di stampa 3D Prosilas che ha reperito e adattato il materiale alle proprie tecnologie. Prima dell’impianto, il “bronco” è stato sottoposto a processi di sterilizzazione a bassa temperatura per non alterarne struttura e caratteristiche. Per i test di resistenza meccanica l’Ospedale si è avvalso della collaborazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Con l’autorizzazione all’uso compassionevole del dispositivo sperimentale concessa dal Ministero della Salute, il team di chirurghi ha potuto procedere con l’operazione. L’intero procedimento, dalla progettazione all’intervento, ha richiesto oltre 6 mesi di intenso lavoro di squadra.
Il delicato intervento sul paziente di 5 anni, durato 8 ore, è stato eseguito il 14 ottobre 2019 dal dott. Adriano Carotti, responsabile dell’Unità di Funzione di Cardiochirurgia Complessa con Tecniche Innovative, in collaborazione con i chirurghi delle vie aeree del Laryngo-Tracheal Team, diretto dal dott. Sergio Bottero.
Il bronco del bambino era schiacciato tra l’arteria polmonare sinistra e l’aorta toracica discendente. Questa compressione, di lunga data, aveva generato il restringimento del condotto respiratorio e il cedimento degli anelli di cartilagine che sostengono la parete del bronco. A causa delle difficoltà respiratorie, nelle ore notturne il piccolo aveva bisogno del supporto dei macchinari per la ventilazione non invasiva.
Nel corso dell’intervento, eseguito in circolazione extracorporea, i cardiochirurghi hanno spostato le arterie polmonari che causavano lo schiacciamento bronchiale, quindi hanno eseguito l’impianto. Il dispositivo è stato posizionato all’esterno del bronco malato ancorando il tessuto indebolito alla gabbietta 3D con delle suture. I chirurghi delle vie aeree hanno effettuato il monitoraggio pre, intra e post operatorio. A poco meno di un mese di distanza dall’operazione il bambino è tornato a casa con la sua famiglia. Ora è in grado di respirare normalmente.
“La malacia dei bronchi, ovvero la perdita della funzione di supporto da parte degli anelli di cartilagine che compongono le vie aeree, è una lesione relativamente rara che produce una limitazione del normale flusso gassoso attraverso la via aerea e può condurre all’insufficienza respiratoria”, spiega ancora la nota. “La cartilagine indebolita, infatti, tende a collassare principalmente durante la fase espiratoria, di cui ne prolunga la durata. Inoltre, tende ad impedire l’espettorazione, provocando l’intrappolamento delle secrezioni e favorendo le infezioni polmonari”.
La broncomalacia è legata a diverse cause: può avere un’origine genetica; può associarsi a determinate forme di prematurità; può manifestarsi in seguito a traumi e infiammazioni croniche o essere causata dalla compressione esercitata da vasi sanguigni anomali. La maggior parte dei casi di compressione vascolare si risolve con la rimozione della causa (ad esempio riposizionando i vasi sanguigni responsabili). Nelle situazioni più complesse, quando la compressione di lunga durata produce “cedimento” della parete bronchiale, eliminare la causa della broncomalacia non è sufficiente ed è necessario ricorrere anche all’impianto di una struttura di sostegno.
“I dispositivi 3D realizzati con materiale riassorbibile, destinati a scomparire e ad assolvere la loro funzione in maniera poco traumatica, rappresentano la nuova frontiera della chirurgia delle vie aree in età pediatrica” spiega il cardiochirurgo Adriano Carotti. ”Presto potranno sostituire completamente gli stent di silicone, facilmente dislocabili, e gli stent metallici che, una volta inglobati nella parete della via aerea, non sono più rimovibili e possono interferire con la crescita dell’apparato respiratorio del bambino. Il “bronco” 3D impiantato sul nostro piccolo paziente, invece, scomparirà dall’organismo nel giro di un paio d’anni. È ragionevole pensare che, nel frattempo, avrà indotto la generazione di una reazione fibrosa peribronchiale che in qualche modo “sostituirà” la funzione della cartilagine rovinata: il bronco sarà così in grado di sostenersi da solo e avrà la possibilità di svilupparsi e di continuare a crescere”.