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Il bambino era stato colpito da una leucemia linfoblastica acuta che lo ha costretto a un lungo periodo di cure, lontano dalla scuola e dagli amici, e lo espone tutt’oggi al rischio di infezioni. Da qui la scelta dei compagni di immunizzarsi per proteggerlo.

Si sono vaccinati tutti contro l’influenza per proteggere il loro compagno e consentirgli di tornare a scuola. E’ l’iniziativa di una classe di seconda elementare di una scuola cesenate. Un anno fa il loro compagno Tommaso è stato colpito da una leucemia linfoblastica acuta che lo ha costretto a un lungo periodo di cure, lontano dalla scuola e dagli amici, e lo espone tutt’oggi al rischio di infezioni. Il suo sistema immunitario infatti è ancora debole e anche una semplice influenza potrebbe avere su di lui effetti gravi.

Per questo, le famiglie hanno scelto di vaccinare i propri figli, per fargli da scudo protettivo e ridurre i rischi: una trentina di bambini, tra cui sette di una classe a fianco, insieme alle insegnanti e anche a diversi genitori e fratelli dei compagni, si sono così sottoposti nei giorni scorsi alla vaccinazione antinfluenzale presso la Pediatria di Comunità. Grazie a loro e alla solerzia del dirigente scolastico, il piccolo Tommaso è potuto tornare sui banchi di scuola.

“Questi bambini e questi genitori – commenta la dottoressa Antonella Brunelli responsabile della Pediatria di Comunità di Cesena – hanno compiuto un gesto di responsabilità, di generosità e di amicizia che ci ha riempito di gioia e ci ha fatto pure commuovere. Come riconoscimento simbolico abbiamo regalato ad ogni bambino un libro donatoci dalla Libreria “Giunti al Punto” di Cesena nell’ambito del progetto Nati per Leggere, a conferma che la ‘literacy’ contribuisce a migliorare lo stato di salute dell’intera comunità”.


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Il documento fornisce indicazioni per la manipolazione delle forme farmaceutiche orali solide (e quindi per la corretta gestione della terapia farmacologica orale) nei casi in cui non sia possibile somministrarle integre.

Nuova Raccomandazione del Ministero della Salute per la manipolazione delle forme farmaceutiche orali solide. In un documento appena pubblicato, si forniscono indicazioni per la manipolazione delle forme farmaceutiche orali solide (e quindi per la corretta gestione della terapia farmacologica orale) nei casi in cui non sia possibile somministrarle integre e quando le attività di allestimento non siano effettuate dalla Farmacia. Sono esclusi dal campo di applicazione della presente Raccomandazione i farmaci antineoplastici.

La Raccomandazione considera alcuni aspetti tecnici della gestione delle preparazioni magistrali pediatriche e della manipolazione dei farmaci a domicilio del paziente, 5 argomenti che saranno approfonditi in altri documenti in tema di sicurezza delle cure, così come lo sconfezionamento primario dei medicinali al fine di utilizzare le relative dosi unitarie.

Per una corretta manipolazione delle compresse la Raccomandazione prevede le seguenti procedure:

– l’accertamento della indisponibilità di una forma farmaceutica orale alternativa che non richieda manipolazione (ad esempio, gocce orali, sciroppo, compressa effervescente, compressa oro-dispersibile, granulato per sospensione orale);

– le indicazioni da seguire nel corso della manipolazione delle forme farmaceutiche orali solide;

– le modalità per effettuare una preliminare valutazione dei rischi che tale intervento può comportare;

– gli operatori sanitari coinvolti e i livelli di responsabilità.

La Raccomandazione prevede inoltre che la procedura dovrà fornire anche ogni informazione utile a garantire la sicurezza delle cure a domicilio del paziente quando non possono essere utilizzate le forme farmaceutiche integre.

In particolare:

– porre in evidenza, tramite apposita lista e all’interno del Prontuario terapeutico (laddove presente), le forme farmaceutiche orali solide, che possono essere manipolate, con le informazioni scaturite dalle valutazioni effettuate dal Farmacista;

– ricorrere ad una preparazione magistrale allestita dalla Farmacia o ad un farmaco a dosaggio corrispondente a quello prescritto, prima di utilizzare un medicinale per il quale si renda necessaria la manipolazione;

– contattare il Farmacista se la manipolazione di forme farmaceutiche orali solide non sia stata precedentemente “validata”;

– procedere alla manipolazione subito prima della somministrazione di ogni singola dose;

– spezzare le compresse divisibili lungo la linea di divisione (dove presente) e prestare attenzione nei casi di compresse senza linea di divisione in quanto il taglio può determinare angoli vivi o facce ruvide. Al riguardo, controllare visivamente che le porzioni siano delle stesse dimensioni;

– non dividere le compresse in meno di ¼ (un quarto), se non specificato dal produttore;

– garantire l’igiene delle mani durante la manipolazione (e somministrazione della terapia) nonché l’igienizzazione degli ambienti e delle attrezzature;

– disporre di uno spazio adeguato ed isolato dove effettuare la manipolazione al fine di prevenire la contaminazione conseguente allo spargimento di polvere;

– prestare attenzione alla inalazione e/o al contatto con i principi attivi (aerosolizzazione);

– rendere disponibile un dispositivo per la manipolazione dedicato ad ogni paziente e provvedere alla sua igienizzazione dopo ogni utilizzo al fine di rimuovere eventuali tracce residue;

– riportare, nella documentazione sanitaria, l’avvenuta somministrazione del farmaco sottoposto a manipolazione annotando la data e l’ora; allegare, anche, la richiesta del Medico prescrittore;

– effettuare (secondo normativa) lo smaltimento delle compresse divise e non somministrate a meno che non vi siano specifiche indicazioni nella procedura aziendale che ne consentano la conservazione e l’utilizzo in sicurezza (aspetti igienici, corretta identificazione e conservazione).

La raccomandazione è rivolta alle Regioni e Province Autonome, alle Direzioni aziendali e agli operatori sanitari, coinvolti nel processo di cura del paziente e nella gestione dei farmaci, delle Aziende Sanitarie Locali, delle Aziende Ospedaliere, degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, delle Strutture Sanitarie private accreditate, delle Case Residenze per Anziani non autosufficienti, delle Residenze Sanitarie Assistenziali, delle Case di riposo, nonché ai Responsabili della funzione aziendale dedicata alla gestione del Rischio clinico. E’ rivolta altresì ai Medici di Medicina Generale e ai Pediatri di Libera Scelta, agli operatori sanitari del Servizio di emergenza/urgenza territoriale 118, ai Medici del servizio di continuità assistenziale, ai Farmacisti di comunità, ai pazienti e ai caregivers.


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Praticare sport protegge dalla depressione, anche le persone ad alto rischio a seguito di una predisposizione ereditaria: 35 minuti di attività fisica al giorno in media sembrano sufficienti a neutralizzare il rischio di un episodio depressivo.

È la buona notizia che arriva da uno studio condotto presso il Massachusetts General Hospital (MGH) di Boston e pubblicato sulla rivista Depression and Anxiety: la pratica sportiva può minimizzare il rischio di un nuovo episodio depressivo in chi già soffre del disturbo e sembra controbilanciare il rischio genetico di depressione, suggerendo che la malattia non è un ‘destino inalienabile’ ma si può contrastare con corretti stili di vita.

Gli esperti hanno coinvolto quasi 8000 individui che hanno preso parte alla biobanca “Partners Healthcare”, esaminando per due anni il loro stato di salute e gli stili di vita (compresi i livelli di attività fisica svolta), registrando eventuali diagnosi di disturbi depressivi e confrontandone il genoma. In base alle informazioni genetiche gli esperti hanno calcolato per ciascuno un punteggio di rischio di disturbi depressivi.

Ebbene è emerso che coloro che avevano il punteggio più alto (ad alto rischio di un episodio depressivo) ma che svolgevano regolarmente attività fisica erano protetti dal disturbo: in pratica il fatto stesso di praticare attività sportiva neutralizzava il loro rischio genetico. Invece, coloro che erano ad alto rischio genetico per la depressione e sedentari avevano una probabilità elevata di manifestare un episodio depressivo nei due anni di osservazione.

ANSA


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L’annuncio del direttore CNT Cardillo all’apertura degli Stati generali dei trapianti. È il secondo ‘scambio’ tra il nostro Paese e quello iberico. Ad oggi, grazie a 20 catene crossover, la Rete nazionale ha realizzato 55 trapianti, con il coinvolgimento di 41 coppie donatore/ricevente e 8 donatori samaritani.

Per la seconda volta Italia e Spagna si sono “scambiate” due reni per un trapianto. Lo ha annunciato il direttore generale del Centro nazionale trapianti Massimo Cardillo inaugurando a Roma gli Stati generali della Rete trapiantologica nazionale, che vedono la partecipazione di oltre 500 operatori del settore.

CROSSOVER TRA PADOVA E BARCELLONA
Dopo il primo successo dell’agosto 2018, lo scorso 22 ottobre è stata realizzata una nuova catena di donazione e trapianto “crossover”: una donna spagnola ha donato un rene a un paziente italiano, mentre la moglie di quest’ultimo, immunologicamente incompatibile con suo marito, ha “restituito” l’organo donandolo al figlio della prima donatore, in attesa di trapianto. Teatro dei due interventi il Centro trapianti di rene e pancreas dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Padova, diretto dal prof. Paolo Rigotti, e l’Unità di trapianto renale della Fondazione Puigvert dell’Università di Barcellona. L’intervento è stato realizzato dalla professoressa Lucrezia Furian. Entrambi i pazienti e i loro rispettivi donatori sono già tornati a casa.

La donazione incrociata è stata realizzata grazie alla South Alliance for Transplant (SAT), un accordo internazionale che vede coinvolti Italia, Spagna, Francia e Portogallo per individuare programmi comuni di cooperazione con l’obiettivo di incrementare le risposte ai pazienti in attesa di ricevere un trapianto.

GLI ORGANI HANNO VIAGGIATO SU UN VOLO DI LINEA
Grazie al complesso lavoro organizzativo del CNT e del Centro regionale trapianti del Veneto, diretto dal dott. Giuseppe Feltrin, per la prima volta lo scambio degli organi è avvenuto in simultanea e utilizzando un volo di linea. Il rene del donatore spagnolo è arrivato all’aeroporto di Venezia a bordo di un velivolo della compagnia Vueling, che ha ospitato il contenitore isotermico nella cabina di pilotaggio: all’atterraggio gli operatori del 118 di Padova, coordinato dal dott. Andrea Spagna, hanno preso in consegna l’organo e hanno affidato all’equipaggio il rene del donatore italiano, che è decollato mezz’ora dopo alla volta di Barcellona. Lo scambio era stato inizialmente programmato per la settimana precedente ma le manifestazioni che hanno bloccato lo scalo catalano avevano convinto il Centro nazionale trapianti e l’Organizacion nacional de trasplantes iberica a sospendere la procedura in attesa del ripristino delle migliori condizioni di sicurezza per il trasporto degli organi.

A FINE OTTOBRE ALTRE DUE CATENE IN MODALITÀ DECK
Sempre a fine ottobre, inoltre, si sono concluse con successo le prime due catene su scala nazionale di trapianti in modalità DECK, ovvero una serie di scambi crossover innescati però non da un donatore vivente ma da un deceduto. Grazie alla donazione di due reni prelevati da un uomo deceduto in Lombardia, sono stati realizzati ben sei trapianti nei centri di Padova, Milano San Raffaele, Bergamo, Brescia e Roma Tor Vergata. Il protocollo DECK è un’idea tutta italiana, nata lo scorso anno grazie a una sperimentazione del Centro trapianti di rene di Padova.

Ad oggi, grazie a 20 catene crossover, la Rete nazionale ha realizzato 55 trapianti, con il coinvolgimento di 41 coppie donatore/ricevente e 8 donatori samaritani.


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Correre allunga la vita, riduce il rischio di morte, anche se la distanza percorsa è piccola, anche se si corre pochissimo.

È la buona notizia che arriva da una maxi-revisione di dati di moltissimi studi, resa nota sul British Journal of Sports Medicine: in tutto sono stati coinvolti 232.149 partecipanti ed è emerso che correre anche poco riduce il rischio di morte per qualunque causa del 27%, indipendentemente, quindi, da quanto si corre; correre è risultato anche associato con una riduzione rispettivamente del 30% e del 23% del rischio di morte per patologie cardiovascolari e tumori.

«I nostri risultati possono motivare le persone sedentarie ad iniziare a correre e dare maggiore slancio a chi già pratica la corsa, anche se solo saltuariamente», ha dichiarato l’autore principale del lavoro Željko Pediši?, docente presso la Victoria University a Melbourne. «Un aumento di partecipazione a questo tipo di attività sportiva, indipendentemente dalla ‘dose’ di corsa effettuata, potrebbe portare a sostanziali miglioramenti nella salute e nella longevità della popolazione», hanno concluso gli autori del lavoro.

ANSA


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Al paziente di 13 anni, affetto da microtia, una malformazione congenita rara, il chirurgo plastico che lo ha operato ha potuto ricostruire l’orecchio a partire da una piccola porzione di cartilagini costali prelevate dal bambino dando loro la forma dell’orecchio grazie a modelli stampati in 3D.

La stampa 3D ha consentito ai chirurghi del Meyer di ricostruire da zero l’orecchio di un bambino. È la storia di Lapo (nome di fantasia) paziente 13enne del Meyer, toscano, affetto da microtia, una malformazione congenita rara (colpisce 5 bambini su 10.000 nati), nel suo caso bilaterale, che porta a un’assenza di sviluppo dell’orecchio esterno. Il chirurgo plastico del Meyer che lo ha operato ha potuto ricostruire l’orecchio a partire da una piccola porzione di cartilagini costali prelevate dal bambino dando loro la forma dell’orecchio grazie a modelli stampati in 3D.

Chirurghi e ingegneri in sala

Quello eseguito al Meyer è il primo intervento in Italia che si avvale di questa tecnologia ed ha visto la collaborazione del team di chirurghi del pediatrico fiorentino, guidati in sala dal dottor Flavio Facchini (specialista in Chirurgia Plastica e Ricostruttiva) insieme alla dottoressa Alessandra Martin (Chirurgo Pediatra), chirurghi dell’equipe del professor Antonino Morabito, anestesisti e infermieri. In sala erano inoltre presenti alcuni ingegneri di T3Ddy: la professoressa Monica Carfagni, responsabile del laboratorio, Yary Volpe e Elisa Mussi. Il laboratorio T3Ddy (www.t3ddy.org), sostenuto dalla Fondazione Meyer, nasce dall’incontro tra le eccellenze cliniche del Meyer e quelle dei ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Firenze e ha come obiettivo l’introduzione di tecnologie 3D altamente innovative nella pratica clinica.

La preparazione

L’intervento ha richiesto una lunga preparazione prima di arrivare in sala. Innanzitutto, la forma esatta delle cartilagini del bambino con le quali ricostruire l’orecchio è stata acquisita mediante TAC. A quel punto, grazie ad un software di ultima generazione, è stata stampata in 3D una copia delle cartilagini: da questo modello tridimensionale si è potuta vedere al millimetro la porzione di cartilagini da prelevare. Poi, per definire con la massima precisione possibile che forma avrebbe avuto un orecchio “naturale” del bambino, è stato preso a modello un orecchio della mamma del piccolo: grazie a scansioni 3D, il team ne ha riprodotto il modello tridimensionale. L’orecchio è stato stampato in tutte le sue parti e, una volta in sala, è stato fondamentale per plasmare le cartilagini ottenendo un orecchio esteticamente uguale a quello vero.

I vantaggi

Prima di arrivare in sala operatoria, grazie alle stampe 3D dell’orecchio e delle cartilagini, l’intero intervento è stato simulato più volte dal team del Meyer: questo ha consentito di affinare la tecnica. “Il vantaggio di un intervento di questo tipo, rispetto a quelli eseguiti con la precedente tecnica 2D, è l’estrema precisione, che ha consentito di ridurre al minimo le cartilagini prelevate dalle coste del bambino. Quando siamo arrivati a prelevare le cartilagini sapevamo già i frammenti da utilizzare, perché il modello che avevamo stampato le riproduceva con fedeltà assoluta”, spiega il dottor Flavio Facchini. Grazie alla stampa 3D, inoltre, si sono ridotti i tempi di esecuzione dell’intervento (6 ore) e, di conseguenza, quelli dell’anestesia.

La valenza psicologica e sociale

Lapo, tra qualche mese, verrà sottoposto ad un secondo intervento per ricostruire con la stessa tecnica anche il secondo orecchio: “Per un bambino con una malformazione che era così evidente, il recupero estetico acquista una grande valenza psicologica e sociale: lui non aveva problemi di udito ma la malformazione gli creava grande disagio”, racconta il dottor Facchini.

3D al Meyer: le prospettive

Adesso ci sono altri 6 bambini in attesa dello stesso intervento, e le prospettive sono incoraggianti: “Al Meyer si inaugura una nuova frontiera della chirurgia ricostruttiva, che apre la strada anche ad altri tipi di ricostruzione 3D: ad esempio per correggere le malformazioni del volto, alterazioni congenite del distretto testa-collo, gli esiti di traumi ed ustioni e gli esiti di interventi oncologici demolitivi”, annuncia il dottor Facchini. “La tecnica che abbiamo applicato al Meyer rappresenta il futuro della chirurgia: i modelli 3D consentono di pianificare l’intervento chirurgico e di adattare, con una precisione che era impensabile con le tecniche 2D, il modello ricostruttivo al singolo paziente”. Fino ad ora, infatti, per avere un modello di riferimento da cui partire per ricostruire l’orecchio, il chirurgo faceva tutto manualmente, disegnando i contorni anatomici su una lastra trasparente appoggiata alla parte presa a modello.

L’importanza della simulazione

La simulazione preoperatoria rappresenta inoltre un ottimo strumento per la formazione e il training dei giovani chirurghi, che in questo modo avranno una curva di apprendimento molto più rapida. Il dottor Facchini si è specializzato in tecniche ricostruttive dell’orecchio e microchirurgia nella più importante scuola mondiale del settore, l’ospedale pediatrico Necker di Parigi, e recentemente vi ha trascorso un periodo per approfondire la tecnica chirurgica grazie a una missione finanziata della Fondazione Meyer.


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L’esposizione prolungata al fumo passivo può causare, nei bambini, l’assottigliamento della coroide, uno strato nella parte posteriore degli occhi che contiene molti vasi sanguigni.

“L’esposizione al fumo passivo è un’importante minaccia per la salute pubblica, e colpisce fino al 40% dei bambini”, dice Yam dell’Università cinese di Hong Kong, coautore di uno studio che ha valutato le possibili conseguenze di questa esposizione sulla vista. Con il suo gruppo di ricerca Yam ha scoperto che più i bambini sono esposti al fumo passivo, più la coroide, uno strato nella parte posteriore degli occhi che contiene molti vasi sanguigni, è sottile. La ricerca è stata pubblicata online dalla rivista JAMA Ophthalmology.

Lo studio

Lo studio è stato condotto su 1.400 bambini di età compresa tra i 6 e gli 8 anni ed è durato 8 anni. Tra questi, 941 non erano esposti al fumo passivo. I ricercatori hanno raccolto delle informazioni demografiche, oltre a età, sesso, indice di massa corporea, peso alla nascita ed esposizione al fumo passivo. Hanno poi misurato le coroidi dei bambini con tomografia a coerenza ottica con sorgente spazzata.

Confrontando le scansioni dei bambini esposti al fumo passivo con quelle dei bambini non esposti, i ricercatori hanno scoperto che le coroidi dei primi erano più sottili di 6-8 micrometri e hanno osservato che il livello di assottigliamento dipendeva dalla quantità di fumo passivo alla quale erano stati esposti.

A partire da questi risultati, secondo Yam “i genitori che fumano dovrebbero smettere di fumare per proteggere gli occhi dei loro figli” e dovrebbero impedire ai bambini di essere esposti al fumo passivo.

Si sa che il fumo passivo è associato a problemi visivi negli adulti, ma il suo impatto sugli occhi dei bambini non era ancora noto.
I risultati dello studio “supportano prove relative ai potenziali rischi del fumo passivo per i bambini”, osserva Fernando Arevalo, della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, non coinvolto nello studio.

“Non c’è dubbio che il fumo di sigaretta sia un importante fattore di rischio per le malattie sistemiche e le malattie vascolari oculari”, conclude Arevalo. “I bambini non dovrebbero essere esposti al fumo passivo in quanto questa esposizione può portare a malattie vascolari all’inizio della vita, a degenerazione maculare correlata all’età, a cataratta, glaucoma e altre patologie”.

Fonte: JAMA Ophthalmology


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Gli interventi di cataratta contribuiscono a rendere le strade più sicure perché dimezzano incidenti stradali e situazioni a rischio incidente (i cosiddetti ‘near miss’). Lo stabilisce una ricerca australiana.

Che la chirurgia della cataratta fosse in grado di restituire ai pazienti il piacere di vedere i colori in tutto il loro splendore e di migliorare la visione notturna è cosa nota da tempo, ma che potesse avere delle ricadute sulla sicurezza stradale non era stato finora dimostrato.

La cataratta è un pegno comune da pagare all’invecchiamento: un 80enne su due presenta questo problema. I colori perdono le loro note vibranti, di notte si vede peggio perché le luci si sfrangiano in mille raggi che disturbano la visione, si fa più fatica a vedere gli oggetti da vicino. Tutto perché il cristallino, che dovrebbe essere limpido come suggerisce il suo nome, si opaca. Il rimedio c’è ed è (almeno per ora) affidato alla chirurgia: il cristallino opacato viene sostituito da una lente artificiale e si torna a vedere. Spesso anche senza occhiali.
Un intervento dai tempi contenuti, che viene effettuato quasi sempre in day hospital, in anestesia locale. Rapido e risolutivo. Ma non tutte le persone con cataratta decidono di affrontarlo.  Qualcuno ritiene che non interferendo troppo con le attività del vivere quotidiano, si possa vivere bene anche senza correggere la cataratta. Ma è davvero così?

Jonathon Ng e colleghi della University of Western Australia hanno deciso di oggettivare l’impatto della cataratta sulla qualità di vita, in un contesto particolare: guidare la macchina. A tale proposito hanno arruolato 44 pazienti candidati all’intervento di cataratta e li hanno sottoposti ad un test di guida con un simulatore che proponeva loro varie situazioni:  limiti di velocità, traffico, incroci non controllati e attraversamenti pedonali. I pazienti venivano nuovamente sottoposti al test di guida simulato dopo l’intervento di cataratta al primo occhio, poi dopo il secondo intervento (in genere viene operato prima un occhio, iniziando con quello con la cataratta più ‘densa’, poi l’altro occhio).

I risultati ottenuti si commentano da soli. Dopo il primo intervento, incidenti e situazioni al limite dell’incidente (i cosiddetti ‘near miss’) sono risultati ridotti del 35%; dopo il secondo intervento si arriva  a ridurli del 48%.

Secondo gli autori dello studio, l’acuità visiva (quella misurata con le tavole optometriche per la patente) rappresenta un importante esame per definire l’idoneità alla guida di una persona , ma dà comunque una valutazione incompleta. Un indicatore altrettanto importante è la qualità della visione. Una migliore sensibilità al contrasto e una migliore visione crepuscolare possono avere ricadute importanti sulla sicurezza alla guida.

“In Australia e in altri Paesi – commenta il dottor Ng – i pazienti spesso aspettano mesi prima di essere operati, dopo la diagnosi di cataratta. I risultati di questo studio sottolineano invece l’importanza di sottoporsi tempestivamente all’intervento, per garantire la sicurezza e l’indipendenza negli spostamenti in auto anche nei guidatori più avanti con gli anni”.


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È avvenuto al Molinette di Torino su un paziente di 47 anni affetto da una fibrosi cistica grave patologia polmonare, che ha ricevuto polmoni, fegato e pancreas. È stato trasferito da Bari a Torino con un volo di Stato in emergenza. L’intervento di trapianto, durato oltre 15 ore, è tecnicamente riuscito.

Per la prima volta in Italia ed in Europa è stato effettuato un trapianto combinato di ben quattro organi (polmoni, fegato e pancreas) su un paziente di 47 anni, presso l’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino. L’intervento è stato eseguito su un uomo trasferito qualche giorno fa dal Policlinico di Bari nella rianimazione dell’ospedale Molinette (diretta dal professor Luca Brazzi). “Il paziente di 47 anni, affetto da una fibrosi cistica, grave patologia polmonare (già inserito in lista attiva per un trapianto di polmoni), si era aggravato ed era stato necessario il supporto con la ventilazione meccanica a Bari”, riferisce una nota dell’ufficio stampa della Città della Salute di Torino.

Trasferito con un volo di Stato a Torino per eseguire un trapianto di polmone in emergenza, le condizioni cliniche sono ulteriormente peggiorate con l’evidenza di una grave disfunzione del fegato. Valutato collegialmente dal team multidisciplinare del trapianto polmone e fegato delle Molinette, si è deciso di procedere con un trapianto combinato polmoni-fegato-pancreas per trattare in maniera radicale la fibrosi cistica.

L’uomo è stato iscritto nel Programma Nazionale di Trapianto in Emergenza e dopo poche ore si sono resi disponibili gli organi di un giovane donatore deceduto per trauma cranico in Piemonte. Nella notte è iniziata una vera e propria maratona chirurgica, coordinata dal Centro Regionale Trapianti diretto dal professor Antonio Amoroso. Due équipe prelievo sono partite da Torino per il prelievo degli organi che hanno permesso l’esecuzione dell’eccezionale trapianto.

In sala operatoria si sono succedute le équipe chirurgiche ed anestesiologiche del Centro Trapianto di Polmone (diretto dal professor Mauro Rinaldi) e successivamente del Centro Trapianto di Fegato (diretto dal professor Renato Romagnoli). L’intervento è iniziato con il trapianto dei due polmoni eseguito dal professor Massimo Boffini coadiuvato dal dottor Paolo Lausi. Successivamente il professor Romagnoli (reduce da altri due trapianti di fegato effettuati poche ore prima), coadiuvato dal dottor Damiano Patrono e dal dottor Francesco Tandoi, ha eseguito il trapianto di fegato e di pancreas. L’intervento di trapianto, durato oltre 15 ore, è tecnicamente riuscito ed adesso il paziente è ricoverato nella Terapia Intensiva Cardiochirurgica per il decorso postoperatorio.

“La funzione degli organi trapiantati è ripresa regolarmente e non appena possibile il paziente verrà dimesso dalla rianimazione”, riferisce la nota della Città della Salute,  che evidenzia: “L’eccezionalità di quest’ultimo trapianto conferma l’importante vocazione trapiantologica della Città della Salute di Torino ed attesta il ruolo di leadership del Centro Trapianti di Organi Toracici e del Centro Trapianti di Fegato e Pancreas nel panorama nazionale ed internazionale”.


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Non è così vero che fumare poche sigarette al giorno non fa male. Causa comunque un danno a lungo termine ai polmoni.

Questo l’avvertimento che arriva da una ricerca del Columbia University Irving Medical Center, pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine.

I ricercatori hanno esaminato in particolare la quantità di aria che si può inspirare ed espirare in fumatori, ex-fumatori e non fumatori. La funzione polmonare diminuisce naturalmente con l’età (a partire dai 20 anni) ed è noto che il fumo accelera questo processo.

Sono stati presi in esame i dati relativi a 25352 persone, tra i 18 e i 93 anni, e proprio grazie a questo campione abbastanza ampio gli studiosi hanno potuto osservare le differenze nella funzione polmonare tra chi fumava meno di cinque sigarette al giorno e chi si attestava a più di 30.

L’analisi ha rivelato che la funzione polmonare in chi fuma seppur poco diminuisce a un ritmo molto più vicino a quello dei fumatori pesanti piuttosto che dei non fumatori. Rispetto al tasso di declino di questa funzione in un non fumatore, impostato a zero, quello aggiuntivo per i fumatori cosiddetti leggeri è di 7,65 ml/anno, mentre arriva a 11,24 ml/anno per i fumatori pesanti.

Ciò significa che un fumatore leggero potrebbe perdere circa la stessa quantità di funzionalità polmonare in un anno di un fumatore pesante in nove mesi. «Fumare un paio di sigarette al giorno – evidenzia Elizabeth Oelsner, che ha guidato lo studio – è molto più rischioso di quanto si pensi. Tutti dovrebbero essere incoraggiati a smettere, indipendentemente dal numero di sigarette al giorno fumate».

Lo studio ha anche testato un’ipotesi, basata su uno studio di 40 anni fa, secondo cui il tasso di declino della capacità polmonare “si normalizza” entro pochi anni dalla cessazione del fumo, mostrando invece che sebbene la capacità polmonare diminuisca a un tasso molto più basso negli ex fumatori rispetto a chi attualmente fuma, tale tasso non si normalizza per almeno 30 anni.

ANSA


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