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Anche se può rivelarsi cosa ardua, l’igiene orale è fondamentale già nei primi anni di vita, persino prima della comparsa dei primi dentini. Mentre non è mai troppo presto per una prima visita dal dentista: è consigliabile farla già a partire da un anno.

Questi i consigli degli esperti, nell’ultimo numero di ‘A scuola di salute’, il magazine digitale realizzato dall’Istituto Bambino Gesù per la Salute del Bambino e dell’Adolescente, diretto da Alberto Ugazio.

In media la comparsa dei primi denti da latte avviene tra il sesto e l’ottavo mese di età, ma si può verificare un’eruzione prematura oppure essere caratterizzata da denti ‘in doppia fila’. Bisognerebbe iniziare a pulire le gengive dei neonati, già prima della loro comparsa, avvolgendo il dito con una garza bagnata. Mentre, dai due anni in su bisogna spazzolare tre volte al giorno per rimuovere la placca batterica, per almeno due-tre minuti, senza dimenticare la lingua, utilizzare il filo interdentale e un dentifricio al fluoro.

Non c’è bisogno, precisano gli esperti, di attendere la comparsa di un problema per decidere di portare il bimbo dal dentista. «La figura dello specialista è spesso associata alla paura di avvertire dolore. Proprio per questo la prima visita odontoiatrica andrebbe effettuata già all’età di 1 anno, in un momento senza emergenze in corso. Durante la visita il bambino prenderà confidenza con l’ambiente e il personale odontoiatrico» e «si potrà stabilire un’alleanza con i genitori, che riceveranno le prime indicazioni sulle misure di igiene orale e le corrette abitudini alimentari».

Molto frequente tra i bimbi è il verificarsi di trauma dentale: in caso di frammento, un dente staccato in tutto o in parte, evitare di pulirlo e conservarlo nella saliva, nel latte a lunga conservazione o in soluzione fisiologica, quindi eseguire il prima possibile una visita. A partire dai 3 anni si possono presentare i primi segni di malocclusioni dentali, ovvero un’alterazione dei rapporti tra le ossa del viso, che può compromettere masticazione, deglutizione e respirazione. Per l’impiego dell’apparecchio, fino a poco tempo fa si attendevano i 12-13 anni, adesso, invece, si può impiegare anche più precocemente, in modo da evitare maggiori problemi in futuro.

ANSA


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Non solo poche ore di sonno, ma anche variare ripetutamente l’ora in cui si va a dormire favorisce l’insorgenza della sindrome metabolica. E il rischio aumenta proporzionalmente al ritardo del momento di coricarsi: se questo ritardo è compreso tra i 60 e i 90 minuti, il rischio di sindrome metabolica sale del 27%

La mancanza di sonno è da tempo correlata a un’ampia gamma di cosiddette anomalie metaboliche, tra cui obesità, ipertensione, ipercolesterolemia e diabete. Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si è concentrata sull’effetto del numero medio di ore di sonno delle persone e non sulle variazioni orarie della routine del sonno.

Lo studio

Tianyi Huang e colleghi, del Brigham and Women’s Hospital e della Harvard Medical School di Boston, hanno invitato 2.003 pazienti ad analizzare a casa il proprio sonno usando dispositivi noti come attigrafi, che valutano i movimenti durante la notte e i cicli sonno-veglia. In media, queste persone dormivano 7,15 ore a notte e andavano a letto attorno alle 23:40. Quasi i due terzi presentavano più di un’ora di variazione nella durata del sonno e il 45% più di un’ora di variazione nell’orario di coricamento.

707 partecipanti, il 35%, manifestavano la cosiddetta sindrome metabolica, con aumento del rischio di cardiopatia, ipertensione, iperglicemia, eccesso di grasso attorno al girovita e livelli anormali di colesterolo o trigliceridi. Rispetto alle persone che presentavano meno di un’ora di variazione nella durata del sonno, quelle la cui durata del sonno variava da 60 a 90 minuti avevano il 27% in più delle probabilità di avere la sindrome metabolica.

L’aumento del rischio saliva al 41% nelle persone con una variazione da 90 a 120 minuti nella durata del sonno e raggiungeva il 57% nei soggetti con più di due ore di variazione. Rispetto alle persone con non più di mezz’ora di variazione nell’orario di coricamento notturno, quelle il cui orario variava tra 30 a 60 minuti presentavano un rischio analogo di sindrome metabolica. Tuttavia, il rischio era del 14% più elevato quando gli orari variavano dai 60 ai 90 minuti e il 58% più elevato quando variavano di oltre 90 minuti.

“Il motivo per cui una maggiore variabilità ha un effetto negativo sulla salute metabolica potrebbe avere a che fare con i nostri orologi biologici”, osserva Kristin Knutson, ricercatrice presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago, non coinvolta nello studio.“Abbiamo ritmi interni di 24 ore di molti processi che influiscono sul metabolismo e per una funzionalità ottimale questi ritmi dovrebbero essere sincronizzati tra loro e con l’ambiente. Se dormiamo a orari differenti e non per lo stesso numero di ore, i nostri orologi biologici possono avere difficoltà a stare sincronizzati, il che potrebbe comprometterne la funzionalità”.

Fonte: Diabetes Care


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Nella delicata fase di transizione alla menopausa, le donne potrebbero giovarsi dell’aiuto dei loro partner per affrontare i sintomi e condividere questa esperienza con loro senza soffrire in silenzio. È quanto emerge da una inchiesta USA che ha valutato il livello di conoscenza, da parte degli uomini, dei sintomi e dell’impatto della menopausa sulla salute delle donne

Se gli uomini conoscessero più a fondo i sintomi e le opzioni terapeutiche per la sindrome pre-menopausale delle proprie compagne, potrebbero offrire loro un importante supporto psicologico.

“A volte le donne soffrono in silenzio questa fase delicata della vita”, dice Sharon Parish del New York-Presbyterian Hospital di White Plains, New York, che ha condotto uno studio al riguardo.”È importante che le coppie siano allineate sul piano delle informazioni e condividano le decisioni sulle opzioni di trattamento”.

Lo studio

Parish e colleghi hanno invitato oltre 450 uomini a compilare un questionario di 35 domande per valutare la conoscenza dei sintomi menopausali e il livello di comprensione della menopausa e dei relativi trattamenti. L’indagine ha incluso anche domande sull’impatto dei sintomi della partner sull’uomo e sull’influenza che gli uomini avevano sulla gestione dei sintomi menopausali delle loro compagne. La maggior parte degli uomini che ha preso parte alla ricerca aveva tra i 50 e i 69 anni, era sposata, viveva con la propria partner nella stessa casa da più di 10 anni.

Circa la metà era consapevole dei sintomi che la loro partner manifestava regolarmente, soprattutto difficoltà a dormire e mancanza di energia. Spesso gli uomini hanno anche individuato sintomi come una scarsa libido, sbalzi d’umore, vampate di calore, irritabilità, depressione, aumento di peso e sudorazione notturna. Quando è stato loro chiesto come avrebbero descritto la menopausa ad altri uomini, il focus più comune era su stati d’animo definiti “irrazionali” o “emotivi”. Circa un uomo su sei si è concentrato sui cambiamenti ormonali, l’assenza di cicli mestruali, l’incapacità di avere bambini e il cambiamento nel desiderio sessuale.

Quasi due terzi dei partecipanti hanno dichiarato di essere stati influenzati dai sintomi menopausali della partner. La maggior parte di essi ha affermato che l’impatto è stato negativo per loro, le loro partner e la loro relazione a causa di discussioni, tensioni e ridotta intimità. Allo stesso tempo, la maggioranza degli uomini pensava che le partner stessero affrontando piuttosto bene i sintomi.

Oltre il 70% degli uomini ha segnalato di aver avuto conversazioni con la partner sui sintomi menopausali e l’84% ha riferito che la partner gli ha parlato direttamente dell’entrata in menopausa. Quasi tre quarti dei soggetti ritenevano di aver esercitato un po’ o molta influenza nella decisione della partner di cercare trattamenti o modificare lo stile di vita.

Due terzi dei partecipanti al sondaggio hanno detto di essersi sentiti a proprio agio nel parlare con le partner delle opzioni di trattamento e quattro su 10 hanno suggerito opzioni alle loro partner.

Molti hanno notato che le donne erano passate a una dieta più sana, avevano cominciato a fare esercizio fisico o avevano iniziato una terapia ormonale.

“L’idea che si tratta di qualcosa che le donne devono patire senza alcuna cura è un concetto obsoleto”, conclude Parish. “Le donne non devono vergognarsi o nascondersi e tutti dovrebbero comprendere più a fondo e discutere di questi argomenti apertamente”.

Fonte: Menopause 2019


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Mantenere costante l’orario della giornata in cui ci si allena, indipendentemente dal fatto che si tratti di mattina, pomeriggio o sera. È questo uno dei segreti per mantenere la perdita di peso secondo uno studio della Brown Alpert Medical School.

Lo studio è stato condotto su 375 adulti, che hanno mantenuto con successo la perdita di peso e che si impegnavano in attività fisica a livello moderato-intenso: la maggior parte ha riferito costanza nel momento della giornata dedicato all’esercizio fisico, con la mattina presto che risultava il momento più comunemente destinato a questo impegno.

Lo studio ha anche evidenziato che essere coerenti e costanti nei tempi dell’attività fisica era associato anche a livelli di allenamento più elevati. “I nostri risultati – spiega Dale Bond, autore senior dello studio – giustificano la ricerca sperimentale futura per determinare se promuovere la costanza nel momento della giornata in cui l’attività fisica pianificata e strutturata viene eseguita possa aiutare le persone a raggiungere e sostenere livelli più alti di allenamento. Sarà anche importante stabilire se c’è un momento della giornata specifico che è più vantaggioso per le persone che hanno iniziali bassi livelli di attività fisica perché sviluppino un’abitudine ad allenarsi”.


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Il prodotto, venduto in tutto il mondo è reclamizzato per la cura di numerose malattie, fra cui HIV, tubercolosi, malaria, epatite, cancro, autismo, dengue e chikungunya. Ma le autorità lanciano l’allarme: “Provoca vomito e diarrea persistenti, che possono portare talvolta a disidratazione, dolori addominali e bruciore alla gola. In rari casi sono stati riscontrati effetti più gravi”.

“L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) informa che il prodotto denominato “Soluzione Minerale Miracolosa”, reclamizzato per la cura di numerose malattie, fra cui HIV, tubercolosi, malaria, epatite, cancro, autismo, dengue e chikungunya e in vendita via internet anche con altri nomi (‘Supplemento Minerale Miracoloso’, ‘Soluzione di biossido di cloro’, ‘Soluzione di purificazione dell’acqua’), può provocare effetti negativi sulla salute, come vomito e diarrea persistenti, che possono portare talvolta a disidratazione, dolori addominali e bruciore alla gola. In rari casi sono stati riscontrati effetti più gravi”. Lo riporta il Ministero in una nota.

“Questi eventi – si precisa – sono stati notificati in numerosi Paesi, anche europei. Il prodotto contiene clorito di sodio al 28%, un agente ossidante che, assunto alle dosi consigliate, supera di molto la dose giornaliera tollerabile stabilita dall’OMS. È stata pertanto predisposta la circolare 27 giugno 2019, che fornisce indicazioni sul prodotto, la tossicità e il trattamento e in cui si richiama la necessità di segnalare qualsiasi evento avverso riscontrato. Si raccomanda ai cittadini di non assumere tale prodotto”.


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‘La funzione crea l’organo’, affermava il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck, ovvero un organo si sviluppa tanto più quanto maggiormente è utilizzato e si atrofizza se non viene sollecitato. Lo stesso principio potrebbe essere applicato all’uomo del terzo millennio, sempre più iperconnesso in maniera virtuale e disconnesso nelle relazioni reali. Un’azienda californiana di telecomunicazioni ha chiesto ad un gruppo di esperti di immaginare come sarà l’uomo alla fine di questo millennio. E loro hanno ‘disegnato’ Mindy

Mano destra (la sinistra per i mancini) ad artiglio, postura gobba, perdita di diversi centimetri in altezza, cranio più spesso, ma contenente un cervello più piccolo. E infine, la ciliegina sulla torta: la crescita di una terza palpebra. Dopo quella inferiore e quella superiore, ecco la palpebra ‘laterale’. Questo l’identikit dei dell’uomo di fine terzo millennio, frutto di spinte evolutive indotte dalle tecnologie digitali.

A preconizzare questi cambiamenti è la TollFreeForwarding.com una company californiana specializzata in telecomunicazioni internazionali che, in una sorta di esercizio di futurologia evolutiva, ha interpellato una serie di esperti e di graphic designer allo scopo di ‘costruire’ una ‘lei’ del quarto millennio, Mindy.

A suggerire quali parti del corpo potrebbero essere quelle più esposte a cambiamenti legati all’uso dei moderni oggetti tecnologici (già, ma chissà come evolveranno anche le tecnologie da qui a mille anni…) sono stati Caleb Bake, esperto di wellness e salute della Maple Holistics, Nikola Djordjevic di Med Alert Help, K. Daniel Riew del New York-Presbyterian Orch Spine Hospital, Adina Mahalli di Enlightened Reality, Kasun Ratnayake dell’Università di Toledo, Sal Raichbach dell’Ambrosia Treatment Center, Ellen Wermter della Charlottesville Neurology and Sleep Medicine.

Il collo. Dopo ore passate a guardare lo schermo del cellulare, il collo viene stressato da questa postura e la colonna vertebrale si disallinea rispetto alle anche; la stessa cosa succede stando seduti ore ed ore alla scrivania per lavorare al computer. Per questo, il collo e la schiena di Mindy appaiono ripiegati verso il petto.

La mano. Gli smartphone stanno già trasformando le mani dei grandi utilizzatori in una sorta di ‘artiglio’ (tecnicamente si chiama ‘sindrome del tunnel cubitale’) perché le dita risultano curvate in una posizione innaturale (per tenere in mano il cellulare) per periodi protratti di tempo.

Gomito ad angolo retto. Lo stesso motivo che induce la mano ad assumere una conformazione ad ‘artiglio’, fissa il gomito in una posizione a 90 gradi; è il cosiddetto ‘gomito da smartphone’ dovuto  alla necessità di portare il cellulare all’orecchio o di tenerlo davanti agli occhi per mandare messaggi o navigare su internet. Il nervo ulnare che decorre in un solco osseo sul versante interno del gomito ne viene stirato e compresso e questo può provocare parestesie a livello del mignolo e dell’anulare, dolori all’avambraccio e debolezza nelle mani.

‘Collo tecnologico’. Le tecnologie digitali potrebbero farci perdere diversi centimetri in altezza, in particolare a livello del collo. È il cosiddetto ‘collo tecnologico’. Quando si lavora per molte ore al computer o si sta piegati sullo schermo di un cellulare, i muscoli della parte posteriore del collo devono contrarsi per sostenere il peso della testa. Alla fine questi muscoli così stressati, diventano anche indolenziti.

Teca cranica ispessita. Una serie di ricerche effettuate sugli smartphone ha attirato l’attenzione sulla presunta pericolosità per il cervello delle radiofrequenze. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2011 ha classificato le radiazioni dei cellulari come ‘possibilmente cancerogene’ per l’uomo. Un recente studio ha suggerito che queste radiazioni possono avere un impatto sulla memoria. Non è ancora noto se abbiano un’influenza anche su altre aree cognitive. E a destare preoccupazione sono soprattutto i bambini, che assorbono fino a tre volte più radiazioni rispetto agli adulti poiché hanno uno spessore del cranio ridotto. Per questo i ‘futurologi’ hanno preconizzato che Mindy potrebbe sviluppare un ispessimento delle ossa del cranio per proteggersi dalle radiazioni.

Cervello rimpicciolito. Le tecnologie digitali potrebbero avere un impatto anche sulle dimensioni del cervello. In un film del 2006, ‘Idiocracy’, un uomo si sveglia dopo 500 anni nel futuro e scopre di essere il più intelligente del pianeta. Il cervello degli altri si è infatti ‘rattrappito’ nel corso dell’evoluzione perché grazie alla tecnologia hanno sempre meno cose di cui occuparsi. Ma a rimpicciolirsi potrebbe essere non solo il cervello ma tutto l’organismo. In futuro dunque i nostri antenati potrebbero essere più piccini, perché per sopravvivere non servirà più essere i più robusti del gruppo.

La terza palpebra. Stare troppe ore davanti ad uno schermo, sia esso un tablet, un computer, un cellulare mette a dura prova gli occhi e secondo alcune ricerche può compromettere l’acuità visiva. Una ‘soluzione’ evolutiva potrebbe essere rappresentata dunque da un qualcosa in grado di proteggere gli occhi dall’esposizione alla luce degli schermi. Come una terza palpebra a partenza dall’angolo esterno dell’occhio o un cristallino in grado di bloccare la luce azzurrina (ma non quella di altre lunghezze d’onda) degli schermi digitali.

La salute mentale. Alcuni studi recenti dimostrano che chi sta troppo su Facebook vede crollare il livello del proprio benessere e che i social media ingenerano sindrome ansioso-depressiva nei bambini. Dipendenza da internet, cyberbullismo, adescamento da parte di pedofili, compromissione della carriera sono soltanto alcuni dei problemi indotti dalla rete e dai social. Un’altra categoria di problemi riguarda i disturbi del sonno: dormire con uno schermo acceso in camera (basta quello del cellulare o del tablet, non solo quello del computer) disturba il sonno e questo può avere ricadute negative sulla produttività lavorativa e scolastica.


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L’intervento, su un paziente con insufficienza cardiaca, è stato eseguito  nell’ambito di una sperimentazione clinica internazionale.  Il microchip, che si ricarica wireless dall’esterno, consentirà di monitorare il cuore del paziente h24 e prevenire pericolosi scompensi che richiederebbero ospedalizzazione.

Eseguito con successo presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma l’impianto di un microchip wireless ultratecnologico (di fatto un microcomputer chiamato V-Lap e fornito dalla società Vectorious) nel cuore di un paziente ultrasettantenne con scompenso cardiaco, una grave condizione che riguarda in Italia dai 600 ai 750 mila individui e che dopo i 65 anni rappresenta la prima causa di ricovero. L’impianto è stato effettuato dall’équipe del professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e toraciche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma nell’ambito della sperimentazione clinica internazionale ‘Vectorious’.

Si tratta di un intervento mininvasivo della durata di neanche un’ora e il posizionamento del sensore avviene in soli 6 minuti; il paziente è stato dimesso il giorno successivo.

“Il microchip – spiega una nota del Policlinico – viene inserito nel cuore (precisamente nel ‘setto interatriale’ che separa le due camere chiamate ‘atri’) attraverso la puntura di una vena e fornisce in modo totalmente wireless informazione sull’attività cardiaca del paziente altrimenti inaccessibile in altro modo. Inoltre il microchip è dotato di una batteria ricaricabile sempre in modalità wireless attraverso una fascia indossabile dal paziente. Sempre attraverso questa fascia il paziente può inviare i dati registrati dal microcomputer direttamente all’ospedale, dove i tracciati saranno analizzati dai cardiologi”.

Al momento i paesi che partecipano alla fase di sperimentazione (i cui primi risultati sono attesi nel giro di due anni) sono la Germania, l’Italia e seguiranno l’Inghilterra e Israele. In Italia il paziente di Roma è il secondo. Il primo impianto è stato eseguito a Firenze dal Prof. Carlo Di Mario, Università degli Studi di Firenze.

“Se il trial darà risultati positivi, si tratta – spiega nella nota il professor Crea – di un potenziale balzo in avanti nell’ambito della telemedicina e della medicina personalizzata”.

Lo scompenso cardiaco (quando il cuore non è più efficiente nel pompare il sangue) è l’esito di tutte le malattie cardiache non intercettate, dall’infarto alle cardiopatie congenite. “Si stima che dopo i 65 anni una persona su 10 abbia una qualche forma di scompenso cardiaco”, spiega il Policlinico aggiungendo che “attualmente il paziente viene monitorato con visite periodiche, ma può accadere tra un controllo e l’altro che l’attività cardiaca si alteri improvvisamente portando al ricovero del paziente. L’impianto del microchip permette un monitoraggio h24 dell’attività cardiaca, scongiurando il rischio di emergenze. I cardiologi che monitorano i dati inviati dal paziente, infatti, possono modificare le sue terapie al bisogno e in tempo reale”.

“V-LAP è il primo microcomputer wireless per il monitoraggio cardiaco al mondo – conclude il professor Crea – e apre una nuova finestra di opportunità nella gestione dei pazienti scompensati; dovremo ovviamente prima dimostrarne l’efficacia e la sicurezza a lungo termine”.


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Non è solo la mamma che fuma in gravidanza a esporre il nascituro a un maggior rischio di asma. Anche i bambini esposti al fumo di sigaretta dei loro padri mentre sono ancora in grembo sono più propensi a sviluppare questa malattia.

E’ quanto dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Genetics, che ha evidenziato alcuni cambiamenti nel Dna.

I ricercatori del National Defence Medical Center di Taipei hanno seguito 756 bambini per sei anni e, di questi, quasi uno su quattro era stato esposto al fumo di sigaretta dei padri mentre erano ancora nella pancia della mamma. Quando i bimbi hanno raggiunto l’età dei 6 anni, complessivamente, il 31% di coloro i quali i padri avevano fumato durante la gravidanza hanno sviluppato l’asma, rispetto al 23% dei bambini i cui padri non fumavano. Inoltre, per i bambini i cui padri fumavano oltre 20 sigarette al giorno il rischio era più elevato rispetto ai figli di chi ne fumava meno di 20 (passava infatti dal 31% al 35%).

I ricercatori, inoltre, subito dopo la nascita, hanno estratto il Dna dei bambini dal sangue del cordone ombelicale e hanno esaminato la metilazione lungo il filamento del Dna. Hanno così osservato che più i padri fumavano durante la gravidanza, più aumentava la metilazione su tratti di tre geni specifici che svolgono un ruolo nella funzione immunitaria. Insomma, concludono gli autori dello studio, se si sta per diventare genitori, prima si smette col tabacco e meglio è, senza attendere che il piccolo venga alla luce. 


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Dormire vicino a qualsiasi fonte di luce artificiale fa ingrassare. Anche se si tratta della luce di un dispositivo elettronico.

È quanto emerge da una ricerca condotta su donne anziane e di mezza età, pubblicata online sulla rivista JAMA Internal Medicine.

Lo studio

I ricercatori – guidati da Yong-Moon Park, autore principale dello studio, Epidemiology Branch, National Institute of Environmental Health Sciences, National Institutes of Health, Research Triangle Park, North Carolina – hanno preso in esame 44.000 donne in buona salute, tra i 35 e i 74 anni. Alcune, 17.000 circa, dormivano con una luce notturna all’interno della stanza; altre, oltre 13.000, invece, lasciavano una luce accesa all’esterno della camera. Circa 5.000 dormivano con la televisione accesa o una luce nella camera da letto.

All’inizio dello studio le donne erano per la maggior parte in sovrappeso, ma non obese, e nessuna di loro svolgeva lavori notturni che interrompessero il ciclo sonno/veglia. Sono state seguite per sei anni, al temine dei quali le donne che dormivano con televisione o luce in camera presentavano il 22% di probabilità in più di essere in sovrappeso, una probabilità maggiore di un aumento dell’indice di massa corporea del 10% almeno ,e il 33% in più di probabilità di essere obese rispetto alle donne che dormivano nel buio totale.

Lo studio non dimostra se o come l’esposizione alla luce artificiale di notte possa causare direttamente l’obesità. Yong-Moon Park suggerisce comunque che “spegnere le luci al momento di coricarsi potrebbe ridurre le possibilità delle donne di prendere peso. Nello studio la correlazione tra il dormire con una luce artificiale e l’aumento di peso è stata osservata sia in donne che dormono meno di sette ore, sia in quelle che dormono tra le sette e le nove ore”.

Attenzione a tutte le fonti luminose. I ricercatori si sono affidati esclusivamente alle dichiarazioni dei soggetti studiati riguardo al peso e all’altezza; questi dati potrebbero dunque non essere accurati. Inoltre, durante il periodo di studio, le donne non hanno mai dichiarato eventuali cambiamenti di esposizione alla luce durante la notte.

Anche con tali limitazioni i risultati “rappresentano un valido argomento per considerare l’esposizione alla luce artificiale di notte un fattore di rischio per l’aumento di peso”, dice James Gangwisch, ricercatore della Columbia University di New York, che non ha partecipato allo studio.

Una volta che televisione e luci sul comodino o sul soffitto sono spente, le persone dovrebbero fare attenzione anche alle altre fonti luminose: “Anche con le luci spente, le nostre camere da letto sono spesso illuminate di notte da orologi, diodi a emissione luminosa, dispositivi elettronici e illuminazione esterna che filtra attraverso le tende”, conclude lo studioso.

Fonte: JAMA Intern Med 2019

Staff Reuters Health News


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Bastano 4.400 passi al giorno ( e non i famigerati 10 mila) per ridurre il rischio di mortalità tra le donne over 70.

Lo dimostra uno studio americano dell’Università di Harvard che non ha peraltro trovato differenze rispetto al rischio di morte, relative alla velocità con la quale viene effettuata una camminata. Insomma anche una passeggiata tranquilla aiuta a fare la differenza. Ormai non ci sono più scuse per restare sul divano…

In epoca di smartwatch o per gli amanti del vintage, di pedometri, l’attenzione al numero dei passi effettuati durante il giorno è sempre più forte e diffusa. Ma qualcuno ha fissato l’asticella dell’elisir di lunga vita dell’attività fisica a quota 10 mila passi al giorno. Che sono veramente tanti per alcuni (gli inattivi non ne fanno più di 2.000 al giorno tipicamente), mentre una passeggiata per altri. Adesso, però, un studio pubblicato su Jama Internal Medicine porta a rivedere questa soglia del benessere così manichea.

I-Min Leee colleghi del Brigham and Women’s Hospital di Boston e Harvard Medical School hanno analizzato i pattern di attività fisica di 17 mila donne di età media pari a 72 anni, poi sono andati a tenere traccia dei decessi per ogni causa nell’arco dei successivi 4 anni. Alle partecipati è stato chiesto di indossare un accelerometro (un device in grado di misurare l’accelerazione) sul fianco, durante le ore diurne, per 7 giorni. Quindi venivano rilevati il numero di passi giornalieri e la velocità della camminata (numero di passi/minuto).

Sono state oltre 500 le donne decedute nel corso del follow-up. Analizzando i dati dello studio, i ricercatori hanno evidenziato che le donne che facevano circa 4.400 passi al giorno, presentavano un rischio di mortalità ridotto del 41%, rispetto a chi si fermava a 2.700 passi al giorno. Aumentando il numero di passi, il rischio di morte continuava a diminuire fino ai 7.500 passi al giorno, al di sopra dei quali non continuava a scendere.

L’intensità della camminata invece non è risultata associata ad una riduzione della mortalità. La maggior parte delle partecipanti di fatto incedeva con intensità ‘moderata’.

“Il consiglio di camminare per 10 mila passi al giorno può scoraggiare – ammette Lee –  questo studio invece dimostra che anche un modesto aumento di attività fisica si associa ad una riduzione significativamente del rischio di mortalità tra le donne anziane e questo e questo dovrebbe essere incoraggiante. Insomma il nostro studio sottolinea ulteriormente il messaggio: cammina di più – anche un po’ di più fa la differenza’.


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