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Non è vero che si può dormire anche cinque ore per notte, o che un drink prima di andare a letto favorisce l’addormentamento o ancora che chi russa non ha problemi di salute.

Questi e altri falsi miti, scrivono i ricercatori della Langone University di New York su Sleep Health, sono molto seguiti ma risultano dannosi per la salute.

La ricerca ha analizzato i principali falsi miti sul sonno, ottenuti da un’analisi di oltre 8mila siti, mettendoli a confronto con la letteratura scientifica più recente sull’argomento per stilare una classifica di quelli più comuni e dannosi. Al primo posto c’è la convinzione che bastino meno di cinque ore di sonno.

«Ci sono prove evidenti che dormire cinque ore o meno aumenta molto il rischio di conseguenze negative per la salute – afferma Rebecca Robbins, uno degli autori -, dall’aumento dei problemi cardiovascolari alla riduzione dell’aspettativa di vita». Anche bere un ‘bicchierino’ non è d’aiuto.

«Può aiutare ad addormentarsi, ma riduce drammaticamente la qualità del sonno – spiega Robbins -. In particolare disturba la fase Rem, che è quella più importante per l’apprendimento e la memoria». Anche quello che russare è innocuo, continuano gli autori, è un falso mito. E’ vero che in qualche caso non c’è un problema di salute sottostante, ma è meglio sempre consultare un medico per escludere eventuali patologie come l’apnea notturna.

Lo studio ha trovato diverse altre bufale. Non è vero ad esempio che guardare la TV prima di addormentarsi faciliti il sonno, che ricordare i sogni è segno di buon sonno, che quei cinque minuti in più con gli occhi chiusi dopo che ha suonato la sveglia sono utili, che non importa a che ora si dorma, mentre è importante avere un ritmo regolare, e che se non si riesce a dormire è meglio restare a letto ‘a oltranza’.

«Se non ci si alza si inizia ad associare il letto all’insonnia – spiega l’esperta -. In realtà ad una persona che non ha problemi servono 15 minuti, se si impiega di più meglio uscire dal letto e fare qualcosa che non impegna la mente. Abbassate le luci e piegate i calzini».

ANSA


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Alimenti che richiedono più calorie per essere digeriti di quante non ne contengano: sono il sogno di chiunque sia a dieta, ma purtroppo secondo un nuovo studio sono soltanto un falso mito.

Se ne parla talvolta in forum, blog, libri, indicando precisamente cibi tra i quali sedano, lattuga, pompelmo, cetriolo e broccoli, ma una ricerca dell’Università dell’Alabama sui rettili smentisce che esista la possibilità di mangiare a bilancio calorico negativo.

Lo studio, pubblicato su bioRxiv, un sito che si occupa di biologia, è stato svolto su un rettile denominato drago barbuto, che è onnivoro. I ricercatori hanno scoperto che il sedano ha fornito a questi animali più energia di quella necessaria per digerirlo ed elaborarlo. In media, i rettili trattenevano circa un quarto delle calorie nei loro pasti, mentre il resto veniva utilizzato nella digestione o espulso.

«Indipendentemente dalle calorie nel cibo, si tratterrà sempre qualcosa», ha detto l’autore senior dello studio Stephen Secor. Nel caso di cibi come il sedano, «non sarà molto, ma l’alimento fornirà sempre un guadagno a livello calorico». Sebbene lo studio sia stato condotto in rettili, Secor ha dichiarato a Live Science che se fossero fatte ricerche sull’uomo, “probabilmente verrebbe fuori qualcosa di molto simile”.

La buona notizia, pero’, è che anche se questi alimenti non sono tecnicamente “a calorie negative”, mangiarli potrebbe comunque aiutare a perdere peso. Questo perché, essendo a basso contenuto di calorie, non incidono fortemente sul fabbisogno calorico giornaliero.

ANSA


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I benefici dell’attività fisica, in termini di longevità, si fanno sentire anche si inizia a fare sport dopo i 50 anni. In uno studio condotto da ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda, chi ha cominciato a fare sport tardi ha mostrato una diminuzione del rischio di morte analoga a quella degli sportivi più assidui

Anche cominciare ad allenarsi quando si ha più di 50 anni età produce benefici in termini di longevità. È quanto emerge da uno studio condotto dal National Cancer Institute di Bethesda, negli USA. Le linee guida nazionali per la forma fisica raccomandano che gli adulti facciano almeno 150 minuti di attività aerobica a intensità moderata o 75 minuti di esercizio fisico vigoroso a settimana.

I ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda hanno analizzato i dati relativi a 315.059 adulti, di età compresa tra 50 e 71 anni, che hanno partecipato a indagini sulle loro abitudini di esercizio fisico dall’adolescenza al decennio più recente. Durante un follow-up medio di quasi 14 anni, sono decedute 71.377 persone, tra cui 22.219 per cardiopatia e 16.388 per cancro.

Rispetto alle persone inattive per tutta la vita, i partecipanti che hanno segnalato livelli costantemente elevati di esercizio fisico dalla giovinezza alla mezza età avevano il 36% in meno di probabilità di morire per qualsiasi causa durante il periodo di studio. Ma il vantaggio è risultato analogo anche quando le persone inattive hanno iniziato a fare movimento tra i 40 e i 61 anni.

Quando persone precedentemente sedentarie hanno cominciato a fare attività fisica durante la mezza età, la loro probabilità di morire per tutte le cause durante lo studio era del 35% inferiore rispetto all’eventualità in cui fossero rimaste inattive.

“Siamo stati molto felici di riscontrare che i soggetti che hanno aumentato l’attività fisica soltanto più tardi nell’età adulta godessero comunque dei benefici per la salute associati all’esercizio fisico”, ha dichiarato l’autore principale dello studio, Pedro Saint-Maurice.

“Questi risultati indicano che se si è attivi nella prima età adulta bisogna continuare ad esserlo, senzanon ridurre l’attività”, ha proseguito Saint-Maurice. “Se si hanno tra i 40 e i 60 anni e si è stati a lungo inattivi, non è troppo tardi per iniziare a fare attività fisica”. Complessivamente, circa il 56% dei partecipanti allo studio si è allenato regolarmente tutta la vita.

Un altro 31% ha iniziato in maniera decisa ma poi ha ridotto nel tempo e il 13% era inattivo in gioventù ma poi ha cominciato a muoversi. Rispetto alle persone sempre inattive, i partecipanti che si sono regolarmente allenati avevano il 42% in meno delle probabilità di morire per una cardiopatia e il 14% in meno delle probabilità di decesso per tumore.

Quando i soggetti hanno iniziato da inattivi e poi hanno cominciato a muoversi, la loro probabilità di morire per cardiopatia era del 43% inferiore e quella di decedere per cancro del 16% inferiore se fossero rimasti sedentari.

Fonte: JAMA Network Open


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Il piccolo, di due mesi, poteva respirare solo dalla bocca, ma questo creava gravi difficoltà all’alimentazione, mandando il bimbo incontro a una carenza di ossigeno. Necessario il ricorso alla nutrizione artificiale per via parenterale, poi l’intervento per evitare una tracheostomia. L’operazione, coordinata dal neurochirurgo Lorenzo Genitori, ha visto per la prima volta l’applicazione di una tecnica endoscopica utilizzata negli adulti che hanno problemi di apnea nel sonno o sono “grandi russatori”.

Un intervento endoscopico a livello del basicranio, mini-invasivo, ha permesso a un neonato di due mesi, in cura all’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, di tornare a respirare in modo corretto, evitando la tracheostomia, una procedura invasiva che comporta rischi molto elevati, soprattutto in bambini così piccoli. È questo uno degli interventi con cui il pediatrico fiorentino inaugura l’attività di chirurgia dei disturbi respiratori nel sonno.

L’operazione, che per la prima volta ha previsto l’applicazione di una tecnica endoscopica utilizzata negli adulti che hanno problemi di apnea nel sonno o sono “grandi russatori”, è perfettamente riuscita e il piccolo ora sta bene e ha fatto ritorno a casa. “Un risultato importante – commenta l’ospedale in una nota – che ha visto al lavoro un’equipe di professionisti del pediatrico fiorentino, coordinati da Lorenzo Genitori,responsabile del Centro di eccellenza di Neurochirurgia: neurochirurghi, endoscopisti respiratori, otorinolaringoiatri, chirurghi maxillo-facciali, rianimatori, specialisti medici delle vie respiratorie e personale infermieristico”.

Il piccolo paziente era affetto da una gravissima malformazione cranio-facciale sindromica su base genetica. A rendere necessario il ricovero, però, è stato un grave problema di tipo respiratorio e alimentare: il piccolo non era infatti in grado di respirare attraverso il naso a causa di un problema al palato molle che, otturando le coane – i canali che collegano il naso alla laringe – gli rendeva impossibile respirare, se non attraverso la bocca. Una difficoltà che aveva avuto pesanti ripercussioni sul fronte dell’alimentazione e della respirazione: nel momento di prendere il latte, il neonato andava automaticamente incontro a una carenza di ossigeno. Si è quindi reso necessario il ricorso alla nutrizione artificiale per via parenterale.

Per evitare che il piccolo dovesse andare incontro a una tracheostomia, dopo indagini strumentali con TAC e RM, i medici hanno deciso di sottoporlo a una valutazione endoscopica delle prime vie aeree e si sono resi conto che la malformazione anatomica aveva creato un problema a livello funzionale. Ed è proprio sulla funzionalità che hanno deciso di intervenire, evitando interventi più invasivi, come l’introduzione di uno stent, che comporta il rischio di recidive, o di una tracheostomia.

La decisione di utilizzare una tecnica mini-invasiva ha funzionato: nel post operatorio il bambino ha ricominciato a succhiare e a mangiare mantenendo un corretto flusso respiratorio attraverso il naso.


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Candidata a trapianto di cuore e polmone, la bambina era stata rifiutata da 6 centri trapianto nazionali ed internazionali per l’estrema gravità e fragilità delle sue condizioni. Per prima è stata recuperata la funzionalità del cuore, in seguito quella dei polmoni, attraverso l’assistenza in ECMO e quattro interventi innovativi ad altissima complessità. Si parla di ‘autotrapianto’, spiegano dal Gaslini, in quanto non potendo fare ricorso a un trapianto di polmone classico, è stato prelevato tessuto autologo.

“Un’equipe multidisciplinare e multiprofessionale composta da rianimatori, cardiologi, cardiochirurghi, anestesisti, infermieri, tecnici perfusionisti e fisioterapisti dell’Istituto Giannina Gaslini ha salvato una bambina affetta da cardiopatia congenita e grave malformazione polmonare, realizzando – per la prima volta in letteratura su paziente pediatrico – un’autotrapianto polmonare'”. È quanto si legge in una nota dell’Istituto Gaslini di Genova.

In questo caso specifico “si parla di ‘autotrapianto’, in quanto non potendo fare ricorso a un trapianto di polmone classico, proveniente cioè da un donatore, abbiamo pensato di recuperare la funzione del polmone destro (non funzionante) connettendolo al cuore, ricostruendo un’arteria polmonare (che era assente) utilizzando tessuto polmonare autologo prelevato dal tronco e dall’arteria polmonare sinistra della bambina stessa, che erano estremamente dilatati”, ci ha spiegato al telefono il dott. Giuseppe Pomè, direttore della UOC Cardiochirurgia e del Dipartimento Integrato Chirurgia e Alta Intensità di cure. “Quindi, con questa tecnica, abbiamo recuperato la funzione di un polmone, proprio come se avessimo trapiantato quello di un donatore – ha aggiunto il cardiochirurgo”.

“Siamo veramente orgogliosi di questa modalità di lavorare in team multiprofessionale: la capacità di non arrendersi di fronte alle difficoltà e di studiare nuovi percorsi terapeutici, proporzionati e personalizzati, è una delle caratteristiche identitarie degli operatori del Gaslini. Questo si riflette nell’efficacia e nella grande complessità delle prestazioni che vengono offerte quotidianamente ai bambini che curiamo. Ed è nostro dovere impegnarci sempre più nell’offrire queste opportunità al maggior numero di pazienti possibile” commenta il dottor Paolo Petralia, direttore generale dell’Istituto Giannina Gaslini.

“G. è una bambina di 10 anni di Varese – spiega la nota -, nata prematura da una gravidanza gemellare, affetta da una grave e complessa cardiopatia congenita e da un’ipoplasia del circolo arterioso polmonare di destra”.

“Poco dopo la sua nascita – racconta il cardiologo Martino Cheli, che ha seguito la paziente dall’inizio del suo percorso terapeutico – si è manifestato un difetto interventricolare, o ‘buchino nel cuore’ ed il suo polmone destro ha perso la connessione con il cuore, non potendo di conseguenza contribuire all’ossigenazione del sangue. Il polmone di sinistra, invece, ricevendo tutto il sangue in uscita dal cuore, oltre al sovraccarico determinato dal ‘buchino’, è andato incontro a un danno irreversibile (ipertensione polmonare)”.

“Questo ha determinato un aumento di pressione del ventricolo destro – aggiunge Cheli -, con conseguente scompenso cardiaco cronico ed accrescimento ritardato. Il tentativo di chiudere il difetto – realizzato in un altro Centro a 20 mesi di vita – è stato interrotto, a causa del danno vascolare polmonare irreversibile, rendendola candidata a trapianto polmonare”.

“La malattia ha continuato a progredire e a peggiorare – prosegue la nota -, anche dopo la presa in carico presso la Cardiologia del Gaslini, avvenuta circa due anni fa, con la massimizzazione della terapia medica, incluso un farmaco in infusione sottocutanea. Di fronte ad una aspettativa di vita inferiore all’anno, si è reso necessario tentare di recuperare la funzione del polmone destro, attraverso un delicatissimo intervento in cateterismo cardiaco condotto dal dottor Maurizio Marasini direttore della Cardiologia del Gaslini e dal cardiologo Martino Cheli”.

“La paziente in pochi minuti è andata in arresto cardiaco – evento prevedibile, data la grave patologia di base – ed è stata immediatamente posta in ECMO (Extracorporeal Membrane Oxygenation, un sofisticato dispositivo in grado di vicariare la funzione del cuore e dei polmoni) dal dottor Andrea Moscatelli, direttore della UOSD Centro di Terapia Intensiva Neonatale e Pediatrica (Rianimazione). L’ECMO team – spiega la nota – è sempre mantenuto in standby durante interventi ad alto rischio, come quello effettuato su G”.

“Vista la gravità del quadro clinico, G. è stata proposta per trapianto di cuore e polmone a 2 centri di riferimento all’estero e a 4 centri in Italia. Tutti hanno ritenuto non indicato il trapianto, visto l’elevato rischio potenziale di insuccesso. La bimba è rimasta dipendente per la funzione del cuore e del polmone dall’ECMO. Dopo più di due settimane di assistenza, senza prospettive di guarigione, e nonostante le molteplici incertezze, di fronte alla prospettiva di morte certa, abbiamo cercato una soluzione alternativa che potesse dare alla bambina una prospettiva di vita soddisfacente” spiega il dottor Andrea Moscatelli, direttore della Rianimazione del Gaslini, che ha definito la strategia di supporto in ECMO, coordinando il timing degli interventi di Cardiologi e Cardiochirurghi.

L’equipe, composta dai medici della rianimazione, dai cardiologi e dai cardiochirurghi ha elaborato pertanto una procedura complessa per tentare di uscire dalla situazione di criticità. “In un delicatissimo intervento di cateterismo cardiaco durato nove ore, per prima cosa è stata creata una comunicazione tra l’atrio destro e quello sinistro, per risolvere lo scompenso cardiaco e passare dalla modalità di ECMO più invasiva (ECMO veno-arterioso, supporto di cuore e polmone) a quella meno invasiva (ECMO veno-venoso), con esclusivo supporto della funzione polmonare. A questo punto, è stato riportato il flusso dall’aorta nel polmone di destra, con inserimento di stent: in questo modo è stato recuperato il polmone destro” spiega il dottor Maurizio Marasini.

“Questo ha determinato i presupposti per poter riconnettere, attraverso un difficilissimo intervento cardiochirurgico durato quasi 13 ore il tronco dell’arteria polmonare al circolo arterioso ipoplasico del polmone destro, completando il recupero funzionale e riducendo significativamente il sovraccarico di pressione del ventricolo destro, condizione alla base della grave disfunzione cardiaca di G. Già dai primi giorni dopo l’intervento, nonostante le difficoltà legate al supporto in ECMO, il cuore destro ed i polmoni ricominciavano a recuperare la propria funzione” spiega il dottor Giuseppe Pomè.

“Di fatto, attraverso tutti questi delicati passaggi, la bambina ha potuto beneficiare di tutti gli effetti di un autotrapianto polmonare, il primo effettuato a questa età e per questa indicazione. Tutto questo ha richiesto un supporto in ECMO di 75 giorni, un record in assenza di complicanze, ed un impegno enorme a qualsiasi ora per il personale infermieristico, i tecnici perfusionisti, i fisioterapisti ed i medici. Nonostante l’arresto cardiaco, la risonanza magnetica del cervello dopo 75 giorni di ECMO è perfettamente normale, così come le funzioni neurologiche della bambina. Grazie a tutti questi sforzi congiunti, oggi è tornata a scuola ed ha la prospettiva di poter riprendere a crescere ed a vivere una vita normale”, conclude il dottor Andrea Moscatelli.


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Intervento ad elevatissima complessità quello effettuato dall’équipe di 13 professionisti che per 8 ore si sono alternati al tavolo operatorio. Per evitare il rischio di ulteriori traumi al cervello, i medici hanno ricomposto le parti anatomiche su un tavolo chirurgico indipendente.

Tredici operatori, tra chirurghi, anestesisti e infermieri, al lavoro per 8 ore, a L’Aquila, per un intervento di altissima difficoltà su un uomo 41 anni che, a causa di un trauma sportivo, aveva riportato la frattura della base cranica anteriore, della volta cranica, di entrambe le orbite e la frantumazione delle strutture centrali della faccia, con grave sconvolgimento di tutta la piramide nasale. Il complesso intervento, che ha visto impegnate il 22 marzo scorso le équipe dei reparti di maxillo facciale e della neurochirurgia dell’ospedale di L’Aquila, è “perfettamente riuscito”: “Le condizioni del paziente, attualmente nel reparto maxillo facciale, sono pienamente soddisfacenti”, fa sapere l’ufficio stampa della Asl 1 Abruzzo in una nota di oggi che dà notizia dell’intervento.

Con sofisticate ricostruzioni digitali sono stati riprodotti modelli anatomici 3D e poi, tramite una procedura ‘extracorpo’, i chirurghi hanno ricostruito le strutture cranio-facciali gravemente danneggiate. In sostanza, dopo aver asportato la regione frontale fortemente frantumata e le parti superiori delle orbite, gli specialisti le hanno ricomposte e rimodellate su un tavolo chirurgico indipendente. Questo per evitare “il rischio di ulteriori traumi al cervello”, spiega la nota.

Nel contempo venivano rimodellate la piramide nasale e le pareti mediali delle orbite. Riposizionate fronte, base cranica anteriore e orbite è stato prelevato e innestato del tessuto adiposo addominale per foderare la base cranica anteriore. Come ulteriore, delicata fase del lungo intervento, i medici hanno trattato le perdite di sostanze dei pavimenti orbitari.

“La piena riuscita di questa difficile operazione è dovuta alla programmazione chirurgica virtuale, ai dispositivi tecnologicamente avanzati per i controlli imaging intra-operatori, alla navigazione digitale e soprattutto alla professionalità e all’affiatamento tra le équipe di chirurgia maxillo-facciale e neurochirurgia. Va poi sottolineato il ruolo determinante del personale di reparto (degenza ed ambulatori chirurgici) che assiste i pazienti nel periodo post-operatorio”, afferma nella nota Tommaso Cutilli, direttore di Chirurgia maxillo-facciale, che ha guidato l’équipe per l’area di sua competenza.


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Una donna su cinque e un uomo su otto perdono ore di sonno a causa dello smartphone. Lo afferma una ricerca condotta dalla Queensland university of Technology australiana e pubblicata su Frontiers in Psychiatry, secondo cui più di una persona su dieci di entrambi i sessi ritiene che il dispositivo abbia diminuito la propria produttività.

I ricercatori hanno sottoposto a questionari 709 persone tra 18 e 83 anni, con domande sull’utilizzo e sulle sensazioni associate allo smartphone. Dallo studio è emerso che il 24% delle donne e il 14% degli uomini può essere considerato un ‘utilizzatore problematico’.

Il 14% delle donne e l’8% degli uomini cerca inoltre di nascondere il tempo passato al telefono. Circa l’8% del campione di entrambi i sessi ha affermato di avere qualche dolore o fastidio fisico dovuto allo smartphone. tutte queste percentuali, sottolineano gli autori, sono in grande aumento rispetto ad una analoga survey condotta nel 2005.

«Questo studio suggerisce che gli smartphone stanno sempre più influenzando negativamente le funzionalità di tutti i giorni – concludono – a causa della mancanza di sonno e dell’abbandono delle responsabilità».

ANSA


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La musica migliora l’effetto degli antidolorifici e potrebbe consentire un giorno di ottenere lo stesso effetto analgesico da dosi più basse dei farmaci. È la promessa che arriva da uno studio su animali pubblicato sulla rivista Frontiers in Neurology da esperti della Università dell’Utah.

Gli esperti hanno testato il ‘mix’ di musica e farmaci su topolini con due diverse forme di dolore, infiammatorio e chirurgico. Hanno usato vari farmaci tra cui l’ibuprofene e un cannabinoide in dose ridotta rispetto a quella raccomandata.

Hanno confrontato gli effetti della musica con quelli di rumore ambientale. È emerso che, accoppiato con la musica (brani di Mozart), l’ibuprofene riduce il dolore infiammatorio il 93% in più rispetto al farmaco da solo. La musica da sola, inoltre ha ridotto del 77% il dolore chirurgico.

«Sappiamo che questi farmaci funzionano senza musica, ma possono provocare tossicità ed effetti collaterali» – spiega coordinatore del lavoro. «Il Santo Graal sarebbe combinare il farmaco giusto con il nuovo paradigma dell’esposizione alla musica, per ottenere gli stessi effetti analgesici con dosi minori di farmaci».

ANSA


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Per la prima volta in Italia in uno stesso centro, l’Azienda ospedaliero universitaria Careggi di Firenze, sono stati eseguiti tre trapianti da donatori viventi, incompatibili immunologicamente con il proprio partner di riferimento, utilizzando la tecnica cross-over, cioè dell’accoppiamento incrociato.

“Per la prima volta in Italia in uno stesso centro, l’Azienda ospedaliero – universitaria Careggi di Firenze, sono stati eseguiti tre trapianti da donatori viventi, incompatibili immunologicamente con il proprio partner di riferimento, utilizzando la tecnica cross-over cioè dell’accoppiamento incrociato”. A darne notizia, un comunicato dell’Aou Careggi.

“Gli interventi – spiega il professor Sergio Serni direttore della Chirurgia urologica robotica, mini invasiva e dei trapianti renali del Dipartimento oncologico e di chirurgia a indirizzo robotico diretto dal professor Marco Carini – sono stati possibili trapiantando i tre reni prelevati dai donatori ai rispettivi riceventi compatibili che erano appartenenti ad una delle altre due coppie. I donatori sono stati tre uomini che hanno donato il rene, assegnato in base alla compatibilità al di fuori della coppia di appartenenza, in due casi alle mogli e in un caso al figlio. Tutti i reni trapiantati nei giorni scorsi -prosegue Serni – hanno ripreso a funzionare immediatamente e nessun paziente ha avuto complicanze post-operatorie”.

“Questa esperienza – dichiara la dottoressa Maria Luisa Migliaccio del Centro Regionale Allocazione Organi e Tessuti – è stata complessa dal punto di vista organizzativo per il coinvolgimento di 6 persone fra donatori e riceventi, ma dimostra non solo come sia altruistico e nobile l’atto della donazione ma come la fiducia negli altri possa ripagare, tanto da donare il proprio rene ad una persona sconosciuta, anche per questo l’impegno nella gestione del percorso di donazione è stato particolarmente intenso”.

“Importante – aggiunge Serni – è stato il lavoro di preparazione e supporto alle coppie svolto dalla dottoressa Aida Larti della Nefrologia di Careggi che ha richiesto un periodo di circa 3 mesi prima che il programma si potesse realizzare. Tutti i prelievi di rene da donatore vivente sono stati effettuati con chirurgia mininvasiva robotica e anche i trapianti in 2 casi sono stati eseguiti con chirurgia robotica. Per poter eseguire i prelievi e i relativi trapianti in successione, in certi momenti, sono stati impiegati contemporaneamente tutti e tre i robot chirurgici installati nelle sale del complesso chirurgico del padiglione San Luca di Careggi”.

“I componenti delle equipe chirurgiche che si sono succeduti nelle varie fasi di prelievo – conclude la nota -, preparazione dell’organo e trapianto sono stati: oltre al professor Sergio Serni, i dottori Graziano Vignolini, Vincenzo Li Marzi, Saverio Giancane, Simone Caroassai, Arcangelo Sebastianelli, Riccardo Campi, Francesco Sessa, con gli anestesisti coordinati dalla dottoressa Laura Paparella e con l’apporto per la consulenza vascolare del dottor Alessandro Alessi Innocenti”.


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I chili in più in età infantile possono comportare un più alto rischio di ammalarsi di sclerosi multipla da adulti.

A evidenziare un ulteriore problema collegato all’epidemia di sovrappeso che interessa anche i più giovani è uno studio pubblicato su Neurology, la rivista medica dell’American Academy of Neurology.

Alcuni studi precedenti avevano suggerito che le persone che sviluppano precocemente hanno maggiori probabilità di ammalarsi di sclerosi multipla, una malattia cronica, spesso invalidante, che colpisce il sistema nervoso centrale. Ma un nuovo studio condotto presso la McGill University di Montreal, in Canada, attribuisce questo collegamento all’indice di massa corporea (BMI).

I ricercatori hanno esaminato il genoma di 329.245 donne e 372 varianti genetiche associate all’età in cui le ragazze hanno avuto il primo ciclo mestruale. Quindi, hanno esaminato un altro studio genetico che includeva 14.802 persone con sclerosi multipla e 26.703 senza malattia, per verificare se l’età della pubertà fosse associata al rischio di ammalarsi.

Ne è emerso che «uno sviluppo precoce è associato ad un aumentato rischio di sclerosi multipla, ma questa associazione è influenzata, e non indipendente, dalla quantità di grasso corporeo al momento dello sviluppo», ha detto l’autore dello studio J. Brent Richards.

«Sono necessarie ulteriori ricerche per determinare se la riduzione dei tassi di obesità potrebbe aiutare a ridurre la prevalenza di sclerosi multipla», prosegue, «ma se così fosse, potrebbe essere un altro motivo importante per concentrare le iniziative di sanità pubblica sulla riduzione dei tassi di obesità».

ANSA


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