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Dal salmone ai semi di lino, passando per l’avocado, l’olio d’oliva e il cioccolato fondente, sono diversi i cibi amici della pelle. Che la mantengono sana, idratata e la fanno invecchiare meno.

Il segreto sta negli omega 3 e negli omega 6, negli antiossidanti e nella vitamina E.

A fare il punto è un approfondimento sul portale Medicalnewstoday.com. Partendo dal pesce, quello grasso d’acqua fredda, come le aringhe, le sardine e il salmone, può giovare alla pelle, poiché è fonte abbondante di omega-3. Una dieta che ne è ricca può aiutare a ridurre i sintomi infiammatori e rendere la pelle meno reattiva ai raggi Uv. Il pesce grasso fornisce inoltre anche vitamina E, che protegge dall’infiammazione e dai radicali liberi. Le noci offrono più o meno gli stessi benefici: sono tra le fonti più ricche di acidi grassi insaturi sia omega-3 che omega-6, mentre le mandorle sono ricche di acidi grassi insaturi e fonte di vitamina E.

Tra i semi si a quelli di girasole, che contengono notevoli quantità di zinco e vitamina E , e si anche a quelli di lino, ricchi di un omega-3 chiamato acido alfa-linolenico. Metterli in un’insalata può essere un modo semplice per mantenere la pelle sana. Semaforo verde anche per la soia, i cui isoflavoni possono svolgere un ruolo importante nella protezione dell’epidermide, soprattutto per le donne, e per l’avocado ricco di grassi salutari e vitamina E. Tra gli oli, quello d’oliva può essere la scelta più salutare per la pelle. Si riducono in particolare gli effetti del fotoinvecchiamento sul viso. Il tè verde invece è pieno di antiossidanti chiamati catechine, che aumentano il flusso sanguigno alla pelle, cosa che assicura ossigeno e nutrienti freschi. Senza dimenticare l’acqua, la scelta migliore in assoluto. Via libera anche al cioccolato fondente, di alta qualità, e ai carotenoidi, che proteggono dai danni causati dai radicali liberi e dalla sovraesposizione al sole. Si quindi a mango, papaia, peperoni, spinaci e cavolo.


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In Italia circa un milione di persone sono affette da demenza e il loro numero è in aumento. Anche se non c’è ancora una cura, in circa un caso su tre, il declino cognitivo è evitabile. Sette i modi per scongiurarlo, secondo le ultime evidenze scientifiche.

Tieni sotto controllo il peso: il diabete e l’obesità nella mezza età possono raddoppiare le probabilità di demenza in vecchiaia. Monitorare il peso, infatti, ha un impatto sulla salute cardiovascolare e questo può ridurre notevolmente il rischio per il cervello.

Rinuncia al fumo: le persone di mezza età che fumano più di due pacchetti al giorno hanno un rischio di demenza più che doppio in età avanzata.

Resta attivo: svolgere attività fisica regolare, ad esempio camminare a passo sostenuto, può preservare le facoltà in età avanzata. Le persone anziane che svolgono un regolare programma di esercizi, hanno una migliore funzione cognitiva.

Allena la mente: le persone con più anni di istruzione scolastica e universitaria hanno, anche da anziani, una mente più elastica, ma anche intraprendere nuovi hobby e partecipare ad attività intellettuali quotidiane, come fare cruciverba, ha effetti neuroprotettivi.

Non isolarti: frequentare associazioni o fare volontariato, ha dimostrato avere un effetto protettivo sulle funzioni del cervello.

Adotta la dieta mediterranea: il maggior consumo di frutta, pesce e verdura può ridurre il rischio, probabilmente perché aiuta a prevenire l’ipertensione.

Dormi un numero di ore giuste per la tua età: non è ancora ben chiaro il motivo, ma l’insonnia cronica è stata collegata ad un aumento del declino cognitivo in età avanzata.


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Andare a lavoro a piedi o bicicletta può aiutare a prevenire il mal di schiena della zona lombare. Il fumo e l’obesità invece, sono un fattore di rischio.

A dimostrare l’importanza degli stili di vita nei confronti di uno dei dolori più diffusi nella popolazione è uno studio pubblicato sulla rivista Arthritis Care & Research.

I ricercatori dell’Istituto finlandese per la salute sul lavoro hanno utilizzato i dati l’Indagine sulla salute 2000 relativa a 7.977 adulti di età pari o superiore a 30 anni e che ne raccolto informazioni su salute, lavoro e stile di vita tramite questionari, interviste domiciliari ed esami clinici.

Dopo 11 anni hanno confrontato il follow up di 3.505 dei partecipanti iniziali tramite i risultati dell’Indagine sulla salute 2011, ponendo nello specifico domande riguardanti il dolore lombare. Ne è emerso che episodi di lombalgia per più di 30 giorni negli ultimi 12 mesi erano più importanti nelle donne che negli uomini.

L’obesità addominale, il fumo di sigaretta e il lavoro fisico faticoso aumentavano il rischio di soffrirne, mentre camminare o andare a lavoro in bicicletta erano associate a una minore probabilità di essere colpiti.

ANSA


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Il piccolo paziente, residente a Roma, è affetto da diverse patologie fin dalla nascita ed era praticamente sordo. Ora può udire grazie all’intervento chirurgico portato a termine con l’installazione di impianti cocleari, ossia l’orecchio artificiale collegato al nervo acustico in grado di ripristinare le sensazioni uditiva. Un intervento per cui il Ca’ Foncello attrae da diversi anni pazienti da tutta Italia.

La commozione del bambino e dei suoi familiari sono la conferma del successo dell’intervento chirurgico. Stiamo parlando di un bambino romano, sordo dalla nascita, seguito dal medico dr. Daniele Frezza, direttore dell’unità Chirurgia dell’Orecchio, in stretta collaborazione col professore Cosimo de Filippis, primario di Audiologia. Il ragazzo, affetto da diverse patologie fin dalla nascita e praticamente sordo, ora ci sente dopo un intervento chirurgico portato a termine con l’installazione di impianti cocleari, ossia l’orecchio artificiale collegato al nervo acustico in grado di ripristinare le sensazioni uditiva. Trattasi di un intervento per cui il nosocomio trevigiano Ca’ Foncello attrae da diversi anni pazienti da tutta Italia.

“Il bambino – spiega il dr. Frezza – mi è stato presentato un anno fa dalla dottoressa Paola Midrio, primario della Chirurgia pediatrica. Presso il suo reparto, infatti, è seguito per alcune gravi problematiche che lo accompagnano fin dalla nascita. E’ un bambino molto intelligente e sveglio; direi in una maniera sorprendente perché fin da bambino ha sofferto di grave ipoacusia, quindi ha sempre sentito estremamente poco e solo grazie alle protesi. I genitori ci hanno riferito come, altrove, abbiano trovato grande difficoltà ad essere ascoltati e compresi. Considerato il rapporto creatosi con la famiglia abbiamo avviato un percorso con tutti i monitoraggi e i controlli necessari fino all’intervento eseguito”. Intervento portato a termine con successo. “E’ stata una grandissima soddisfazione, l’apparecchio gli darà grandi chance nella crescita e si considererà se pensare per l’anno prossimo un impianto anche sull’altro lato”.

Congratulazioni ai medici per l’alleanza che hanno saputo instaurare con la famiglia del piccolo paziente in una situazione tanto delicata. Il rapporto con pazienti e familiari è importante tanto quanto il successo dell’intervento chirurgico. Entrambi hanno migliorato il futuro di un ragazzo e di tutta una famiglia.


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La playlist giusta nelle orecchie e via di slancio a fare ginnastica. L’abitudine ad ascoltare musica mentre ci si tiene in forma ha dei risvolti positivi: può aiutare infatti a sentirsi meno affaticati, merito del fatto che attiva una regione del cervello collegata proprio a una minor risposta allo sforzo.

Lo rileva una ricerca della Brunel University London, pubblicata sulla rivista International Journal of Psychophysiology. Lo studio ha preso in esame 19 adulti sani, che hanno svolto degli esercizi utilizzando un anello di presa per rinforzare le mani. Questa attività è stata scelta appositamente per consentire agli studiosi di svolgere con maggiore semplicità una scansione cerebrale su di loro.

I partecipanti hanno eseguito 30 serie di esercizi, della durata di 10 minuti ciascuno. Durante alcune di queste serie, hanno ascoltato in particolare la canzone “I Heard It Through The Grapevine”. L’autore principale Marcelo Bigliassi e i suoi colleghi hanno scoperto che la presenza della musica era associata a una maggiore energia durante l’esercizio oltre che a un aumento di pensieri che non erano direttamente collegati a ciò che i partecipanti stavano facendo.

Hanno anche osservato dei cambiamenti in una particolare regione del cervello quando gli esercizi venivano svolti con la musica: il giro frontale inferiore sinistro, che è come un ‘hub’ che raccoglie le varie sensazioni, elaborando le informazioni da fonti interne ed esterne.

«L’aumento dell’attivazione di questa regione – spiega Bigliassi – è stato negativamente correlato con le risposte allo sforzo, il che significa che più questa regione è risultata attiva meno i partecipanti hanno sperimentato affaticamento».

ANSA


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Il sonno ideale per la salute del cuore? Va dalle sei alle otto ore a notte. Di più o di meno può non fare bene.

Lo rileva uno studio presentato a Monaco al Congresso Esc 2018, il meeting annuale della Società Europea di Cardiologia. Lo studio, dell’Onassis Cardiac Surgery Centre, ad Atene, ha effettuato una metanalisi che ha incluso 11 ricerche prospettiche su oltre un milione di adulti (1.000.541) senza malattie cardiovascolari pubblicati negli ultimi cinque anni.

Due gruppi, uno con breve durata del sonno notturno (meno di sei ore) e l’altro con una lunga durata (oltre otto ore), sono stati confrontati con il gruppo di riferimento (che dormiva da sei a otto ore). Sia per chi dormiva poco che per chi dormiva tanto vi era un rischio maggiore di sviluppare una malattia delle coronarie o l’ictus o di morire a causa di queste patologie.

I partecipanti sono stati seguiti infatti per un periodo medio di 9,3 anni ed è emerso che chi dormiva meno di sei ore risultava più a rischio del 33%, chi dormiva per più di otto dell’11%. «Sono necessarie ulteriori ricerche – rileva Epameinondas Fountas, autore dello studio – ma sappiamo che il sonno influenza i processi biologici come il metabolismo del glucosio, la pressione e l’infiammazione, che hanno un impatto sulle malattie cardiovascolari».

«È improbabile che avere una notte in cui si dorme poco o troppo sia dannoso per la salute – aggiunge – ma si stanno accumulando evidenze sul fatto che la prolungata privazione del sonno notturno o il sonno eccessivo dovrebbero essere evitati. Prendere l’abitudine di dormire da sei a otto ore per notte, andando a letto e alzandosi alla stessa ora tutti i giorni, evitando alcol e caffeina prima di andare a letto, mangiando in modo sano  e facendo attività fisica è una parte importante di uno stile di vita sano».

ANSA


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La Food and Drug Administration ha approvato un farmaco biotech, cenegermin, realizzato grazie alle ricerche sul fattore di crescita nervosa (Ngf) che nel 1986 valsero il Nobel a Rita Levi Montalcini.

Il medicinale tratta e guarisce una malattia rara che danneggia gravemente la cornea portando alla cecità, la cheratite neurotrofica.

Il farmaco biotecnologico è prodotto nello stabilimento Dompé dell’Aquila, la prima officina farmaceutica che – fuori dagli Usa – ha ottenuto la certificazione Fda per la produzione di principi attivi basati sul dna ricombinante con cellule procariote come vettore di espressione.


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“Hikikomori” è un termine giapponese che significa “stare in disparte” e descrive quelle persone, principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni, che decidono di ritirarsi dalla vita sociale e di rinchiudersi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. In Giappone gli Hikikomori sarebbero più di un milione e mezzo e nel nostro Paese l’associazione Hikikomori Italia parla di almeno 100 mila casi.

Un disagio esistenziale poco conosciuto, perché nuovo, che colpisce ragazzi/adulti tra i 14 ed i 30 anni, portandoli all’isolamento da tutto e tutti. Stiamo parlando del fenomeno dell’Hikikomori. Pur essendo intelligenti, sensibili e molto spesso più maturi della loro età, non si sentono in grado di frequentare coetanei anzi si vergognano, ritirandosi a vita isolata e disinteressandosi a qualsiasi tipo di relazione. A far luce su un fenomeno così poco conosciuto è la dott.ssa Marisa Galbussera, dell’Ordine degli Psicologi del Veneto e psicoanalista a Padova. “Ne ho in cura più d’uno – ci spiega– e vi posso dire che è una piaga che sta colpendo i ragazzi giovani e che pochissimi ne parlano. Numeri precisi in Veneto ancora non ne abbiamo, ma da quest’anno ci sono dei percorsi specifici per chi soffre di questa patologia”.

A giugno di quest’anno, solo nella provincia di Verona sono state oltre 20 le madri disperate che si sono rivolte a degli specialisti. Anche se questo tipo di malattia è nuova, si può provare a tracciare con l’aiuto della dott.ssa Galbussera un profilo di chi soffre. “Sono per la maggioranza ragazzi maschi, adolescenti o giovani adulti, spesso figli unici, introversi, intelligenti e sensibili, critici e negativi nei confronti della società. I primi sintomi sono quelli di un isolamento graduale, che generalmente inizia con il rifiuto di frequentare la scuola, ma che via via si traduce in un allontanamento su tutti i fronti dalla società. Spesso, ma non sempre, usano massicciamente il web e, a volte, sono violenti con i genitori”.

Questi ragazzi non sono depressi, semmai la depressione arriva dopo un po’, e non vogliono nemmeno essere aiutati perché sono convinti di stare bene. “Non è semplice aiutarli – ci spiega la dottoressa – perché spesso si rifiutano di rivolgersi allo specialista. Occorre così intervenire sul contesto familiare per modificarne il clima, prevedendo anche degli interventi a domicilio. In altri casi è il giovane stesso che accetta di recarsi dal curante, perché si rende conto della situazione di isolamento in cui versa e di come la sua vita e il suo percorso di crescita si siano arrestati”.

In Giappone gli Hikikomori sono più di un milione e mezzo e per il governo nipponico si tratta di un vero allarme sociale. L’auspicio è che questo grave disagio non si diffonda in maniera così massiccia anche da noi. “Il percorso terapeutico – specifica la dott.ssa Galbussera – consiste nel trattare la condizione come un ‘disturbo mentale’, con sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci, oppure come problema di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne la capacità di interagire”. Il fenomeno, presente in Giappone sin dalla seconda metà degli anni ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti ed in Europa.


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Sottovalutato il pericolo del binge drinking, cioè l’abitudine dei giovani di concentrare il consumo di grande quantità di alcol in poche ma costanti occasioni, come il sabato sera. Lo rileva uno studio condotto al Gemelli di Roma

Le abbuffate alcoliche (o binge drinking) tipiche di molti giovani (che magari si limitano a bere al sabato sera e non toccano un dito di alcol durante la settimana) potrebbero portare allo sviluppo di alcol-dipendenza. Lo dimostra uno studio effettuato presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Università Cattolica e pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports del gruppo editoriale di Nature, dal team del professor Giovanni Addolorato, direttore dell’Unità Operativa Semplice di Area (UOSA) Patologie Alcol correlate all’interno della UOC di Medicina Interna e Gastroenterologia, e del professorAntonio Gasbarrini, direttore Area Gastroenterologia ed Oncologia Medica.

Il binge drinking è una modalità di assunzione di alcolici che nell’ultimo decennio si è notevolmente diffusa nel nostro Paese anche fra gli adolescenti. È caratterizzata dall’assunzione di oltre 4-5 Unità Alcoliche (drinks) in unica occasione e in breve tempo, lontano dai pasti e per avvertire gli effetti psicotropi del cosiddetto ”sballo”. Una unità alcolica, pari a circa 12,5 grammi di etanolo, corrisponde a circa 125 millilitri di vino a media gradazione – quindi un bicchiere – o 330 mL di birra – una lattina o una bottiglia – o 30 mL di super alcolici – un bicchierino da bar.

“Lo studio osservazionale coordinato dai Professori Giovanni Addolorato e Antonio Gasbarrini, dell’Istituto di Patologia Speciale Medica dell’Università Cattolica – spiega una nota del Policlinico – ha dimostrato che tale comportamento, spesso ritenuto – sottostimandone la reale pericolosità – un “normale passaggio adolescenziale” è un fattore di rischio per lo sviluppo di alcol-dipendenza”.

Finanziato dalla Fondazione Roma e dalla Fondazione Italiana per la Ricerca sulle Malattie Epatiche (FIRE), lo studio ha coinvolto 2704 giovani di età compresa tra i 13 e i 20 anni che frequentavano le scuole superiori della Capitale e di altre città del Lazio. I ragazzi hanno compilato questionari per valutare il loro consumo di bevande alcoliche, di fumo, l’uso di droghe e il quadro psicologico individuale. Circa l’80% del campione ha dichiarato di consumare bevande alcoliche (nonostante nel nostro Paese la vendita di alcolici ai minori sia vietata e nonostante la posizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità contraria al consumo di bevande alcoliche negli adolescenti).

“La maggior parte dei giovani coinvolti nell’indagine – riferisce la nota – non era mai stata informata né dai familiari né dal personale sanitario circa i rischi connessi al consumo di bevande alcoliche in considerazione, soprattutto, della giovane età. Il 6,1% dei soggetti intervistati presentava un disturbo da uso di alcol, in particolare il 4,9% presentava una diagnosi di abuso di alcol mentre il rimanente 1,2 % presentava una diagnosi di dipendenza da alcol”.

“La quota dei ragazzi con diagnosi di alcol-dipendenza era esclusivamente presente nel gruppo di giovani habitué del binge drinking – fa notare il professor Addolorato – mentre era assente in chi non era solito a questo comportamento; questo indica che il binge drinking è un fattore di rischio molto forte per lo sviluppo di dipendenza da alcol nei ragazzi”.

“Tali dati – sostiene Addolorato – in altre parole, dimostrano che le abbuffate alcoliche rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbo da uso di alcol e in particolare di dipendenza da alcol, e indicano che, verosimilmente, fra qualche anno dovremmo confrontarci con un aumento di incidenza di patologie alcol-correlate nella popolazione oggi giovanile che nel frattempo sarà diventata adulta”. Per prevenire tutto ciò, conclude la nota del Policlinico, è auspicabile che vengano incrementati programmi informativi adeguati a divulgare agli adolescenti i rischi connessi al consumo di bevande alcoliche e al binge drinking.


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