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Una dieta di tipo mediterraneo, a base di frutta, verdura, olio d’oliva, pesce, cereali non raffinati e frutta secca è amica delle ossa.

Può ridurre infatti la perdita di densità ossea nelle persone con osteoporosi.

Lo rileva una ricerca dell’Università dell’East Anglia, che ha coinvolto anche l’Università di Bologna, pubblicata su American Journal of Clinical Nutrition.

Lo studio è stato svolto su più di 1000 persone, per la precisione 1142 reclutate in cinque centri in Italia, Regno Unito, Paesi Bassi, Polonia e Francia. Di età compresa tra 65 e 79 anni, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno ha seguito una dieta mediterranea, aumentando l’apporto di frutta, verdura, noci, cereali non raffinati, olio d’oliva e pesce, consumando piccole quantità di latticini e carne e bevendo alcol con moderazione, l’altro no.

Dopo un periodo di 12 mesi è emerso che la dieta non ha avuto un impatto visibile sui partecipanti con una densità ossea normale, ma su quelli con osteoporosi. Nelle persone del gruppo cosiddetto di controllo si è continuata ad osservare una normale diminuzione correlata all’età della densità ossea, ma in coloro che avevano seguito la dieta vi è stato un aumento della densità ossea in una parte del corpo, il collo del femore, delicata per l’osteoporosi poiché la perdita di tessuto osseo nel collo del femore è spesso la causa della frattura dell’anca, che è frequente negli anziani.


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Mangia poco e sano, non beve alcolici e non ha mai toccato una sigaretta. Più anziane di lei le giapponesi Chiyo Miyako che vanta ben 117 anni e Kane Tanaka di 115 anni.

Classe 1903. Si chiama Maria Giuseppa Robucci (ma per tutti è nonna Peppa) ed è la terza donna più anziana al mondo dopo le giapponesi Chiyo Miyako (di 117 anni) e Kane Tanaka (115 anni). Nata in provincia di Foggia ha conquistato il palma res dei supercentenari italiani dopo la scomparsa di Giuseppina Projetto morta in Toscana alla veneranda età di 116 anni.

Nonna Peppa gestiva il bar del paese insieme al marito, Nicola, morto nel 1982. Madre di cinque figli, tre maschi e due femmine: la più giovane ha 75 anni, il più anziano 89 ed è nonna di nove nipoti e 16 pronipoti. Da qualche anno si è trasferita ad Apricena, a casa della figlia di 75 anni.

Lo scorso anno, dopo essere stata operata, ha dichiarato: “Sto bene, ma sto invecchiando…”

La ricetta della sua longevità? Mangia poco e sano, non beve alcolici e non ha mai toccato una sigaretta. E poi la fede e la preghiera: “Fino a qualche anno fa andavo a piedi in chiesa per la Santa Messa”.

Ma a tallonare Nonna Peppa c’è Maria Giuseppa Robucci di tre mesi più piccola.

Maria Giuseppa nel 2015 è stata insignita del titolo di sindaco onorario di Poggio Imperiale consentendole di conquistare il titolo di sindaca più anziana d’Italia.


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I bimbi esposti al fumo di seconda mano è più facile che sviluppino l’abitudine a russare.

Lo rileva uno studio cinese, della Qingdao University, che ha revisionato le ricerche sul tema, pubblicato sulla rivista Journal of Epidemiology and Community Health.

Gli studiosi hanno esaminato 24 studi che hanno incluso quasi 88.000 bambini per giungere alla conclusione che il rischio di russare sale fino all’87% se i piccoli sono esposti regolarmente al fumo di sigaretta da parte della mamma, e più i bimbi sono piccoli più sono vulnerabili.

Mentre altre esposizioni al fumo in casa, compreso che ad avere l’abitudine siano i papà, aumentano il rischio di circa il 45%. Le probabilità aumentano di circa il 2% per ogni sigaretta fumata ogni giorno in casa.

Il rischio non riguarda solo le fasi successive alla nascita: anche i piccoli esposti al fumo già nella pancia della mamma sono risultati avere quasi il doppio delle probabilità di finire con il russare.


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Per gli adolescenti bere alcol (anche a dosi moderate) fa male: fa modificare il metabolismo e riduce il volume della materia grigia del cervello.

E’ questa la scoperta a cui sono arrivati i ricercatori dell’Università della Finlandia orientale e dell’Ospedale universitario di Kuopio.

Alcuni dei cambiamenti del metabolismo e dei metaboliti (cioè del materiale che viene assorbito dall’organismo) sono stati associati a un ridotto volume della materia grigia cerebrale, specialmente in tutte quelle giovani donne che sono forti bevitrici.

«Gli adolescenti che bevono alcolici hanno avuto un aumento delle concentrazioni di 1-metilistamina, che a sua volta era associato a un volume ridotto di materia grigia cerebrale», spiega la ricercatrice Noora Heikkinen dell’Università della Finlandia orientale. La 1-metilistamina è un composto che si forma nel cervello a causa dall’istamina prodotta dalle risposte immunitarie che si scatenano nell’organismo. «Ciò che è nuovo e significativo del nostro studio è che abbiamo osservato cambiamenti del profilo dei metaboliti anche nei giovani che consumavano alcolici a un livello socialmente accettabile. Infatti, nessuno dei partecipanti aveva una diagnosi di dipendenza da alcol», ha aggiunto.


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Bere tanto, non camminare a piedi scalzi, non prendere troppo sole e non esagerare con l’attività fisica: sono alcuni dei consigli che i diabetologi rivolgono ai malati in vista delle vacanze per evitare di avere problemi.

Tra pasti ritardati, cibo nuovo e buffet, più attività del normale e fusi orari infatti non mancano i fattori che possono disturbare la routine di una persona diabetica in vacanza.

“Il primo consiglio – spiega Giorgio Sesti, past president della Società italiana di diabetologia (Sid) – è quello di portarsi i farmaci dietro e non dimenticarli a casa, in modo da prenderli regolarmente. Non vanno dimenticate anche le strisce reattive, in modo da potersi auto-monitorare l’insulina”.

I Centers for diseases control (Cdc) americani raccomandano anche di andare dal proprio medico prima della partenza per un controllo generale, chiedendogli se le attività che si hanno in programma possono influire sul diabete, e farsi fare una prescrizione dei farmaci, in caso li si perda.

E’ poi molto importante bere molto: il diabete fa perdere liquidi, e con il caldo c’è il rischio di disidratazione – continua Sesti – e di un aumento della glicemia”.

Cercare poi di resistere alle tentazioni dei buffet negli alberghi o in crociera, cercando di mantenere la dieta costante, e non esagerare con l’attività motoria.


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Quello di mangiare di più o di meno se si è stressati, tristi o arrabbiati, è un comportamento che i bambini imparano a casa.

Il rapporto emotivo con il cibo, in altre parole, più che genetico, sarebbe conseguenza delle abitudini e dei comportamenti che i genitori adottano con i propri figli, ad esempio dandogli da mangiare il loro cibo preferito per calmarli quando sono agitati.

E’ la conclusione di uno studio dello University College di Londra pubblicato sulla rivista Pediatric Obesity. La ricerca è stata condotta su circa 400 coppie di gemelli, omo ed eterozigoti, di 4 anni di età, metà dei quali con genitori obesi, e l’altra metà con genitori dal peso sano. I genitori dovevano rispondere se i figli mangiavano di più quando arrabbiati o di meno se tristi.

I ricercatori hanno poi confrontato le risposte e hanno visto che c’erano pochissime differenze tra gemelli identici e non. Ciò indicherebbe, secondo loro, che la causa principale sarebbe l’ambiente casalingo più che l’influenza dei geni, al contrario di quanto sostenuto da precedenti studi. Quello di mangiare in modo emotivo, anche se non ereditata geneticamente, è un’abitudine che si può trasmettere da una generazione all’altra.

«Mangiare in modo emotivo indica una relazione non sana con il cibo – commenta Clare Llewellyn, coordinatrice dello studio – I genitori, anziché trovare strategie più positive per gestire le emozioni dei figli, usano il cibo». La tendenza a mangiare di più in risposta ad un’emozione negativa può essere un fattore di rischio per lo sviluppo dell’obesità, e avere un ruolo importante anche per disturbi alimentari come l’anoressia o il disturbo da binge-eating.

Il consiglio ai genitori, conclude la ricercatrice, è di non usare il cibo per calmare i figli. «Meglio farli sedere – conclude – e parlargli su come si sentono, e se sono piccoli, abbracciarli».


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L’Oms ha riconosciuto ufficialmente la dipendenza da videogame come una patologia.

Il ‘gaming disorder’ è stato infatti inserito nel capitolo sulle patologie mentali dell’International Classification of Diseases (ICD), l’elenco ufficiale delle malattie il cui aggiornamento è stato appena pubblicato. Secondo il nuovo elenco, che contiene oltre 55mila diverse malattie, la dipendenza da gioco digitale consiste in «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita».

Tra le altre caratteristiche della patologia, ha spiegato Vladimir Poznyak, del dipartimento per la salute mentale dell’Oms durante una conferenza stampa, c’è «il fatto che anche quando si manifestano le conseguenze negative dei comportamenti non si riesce a controllarli» e «il fatto che portano a problemi nella vita personale, familiare e sociale, con impatti anche fisici, dai disturbi del sonno ai problemi alimentari».

L’inserimento nell’elenco, hanno spiegato gli esperti dell’Oms, dovrebbe aiutare i medici a formulare più facilmente una diagnosi. «Abbiamo deciso di inserire questa nuova patologia – ha affermato Poznyak – sulla base degli ultimi sviluppi delle conoscenze sul tema».


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Non andare sopra i 3000 metri, scegliere escursioni non troppo faticose e portarsi sempre dietro una scorta d’acqua: sono alcuni degli accorgimenti indicati per chi pensa ad una vacanza in montagna e soffre di ipertensione.

E’ un falso mito infatti che la montagna causi problemi a chi ha la pressione alta, se si seguono delle regole semplici come quelle indicate nel decalogo del ‘Buonsenso ad Alta Quota’. Il primo consiglio è di evitare di andare oltre i 2500-3000 metri, perché la pressione arteriosa aumenta a causa dell’aria più rarefatta e dell’assenza di ossigeno, e di premunirsi contro le basse temperature, che portano ad un naturale innalzamento della pressione. Meglio limitare le attività intense, perché la fatica fa aumentare la pressione.

Quindi sì alle escursioni, ma con moderazione e in luoghi che non richiedano grandi impegni. È bene poi evitare grappe, liquori, e fumo, e se si ha un calo dell’appetito (chiamato ‘anoressia da alta quota’), causato dalla mancanza di ossigeno, si consiglia di fare più spuntini durante il giorno con cibi facilmente digeribili e in piccole quantità, evitando quelli più grassi e ricchi di sale.

Durante le passeggiate ricordarsi di portare sempre con sé almeno mezzo litro d’acqua, e anche in vacanza non dimenticarsi di prendere i propri farmaci, senza considerare il fuso orario. Se si viaggia in aereo, vanno messi in un sacchetto di plastica a parte, ricordando che sopra i 3500 metri i farmaci smettono di fare effetto.

Infine è consigliabile monitorare i propri dati sanguigni con costanza, anche a domicilio, portare con sé un foglio con le proprie generalità, eventuali allergie, malattie e medicine assunte, e un kit di sopravvivenza, con repellenti per insetti, bende elastiche, lassativi, antiinfiammatori, antibiotici, antidiarroici, antidolorifici, cerotti, sonniferi, apparecchio per la pressione, bombolette di ossigeno.


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Secondo i dati della Società italiana di pediatria, il 25% dei bambini al di sotto dei 5 anni soffre di disturbi del sonno e dopo i 6 anni e fino all’adolescenza la percentuale si attesta intorno al 10-12%.  Le cause, oltre a quelle organiche e genetiche, sono riconducibili anche ad una cattiva alimentazione, al cosleeping e non di meno ai sintomi nevrotici e/o depressive delle mamme (38%) e a sentimenti ambivalenti nei confronti dei bambini (85%).

Rispetto a cento anni fa i bambini nel mondo occidentale dormono in media 2 ore in meno. Le cause principali? I ritmi frenetici, l’aumento delle luci artificiali e l’utilizzo sempre più precoce degli strumenti elettronici hanno causato una discordanza tra quello che dovrebbe essere il ritmo sonno-veglia naturale del bambino e le esigenze sociali. I disturbi del sonno, aumentati soprattutto negli ultimi 20 -30 anni, possono avere effetti negativi sulla salute e sulla qualità della vita del bambino ma anche dei genitori. Non stupisce, quindi, che siano uno dei principali fattori di ansia per mamme e papà e uno dei motivi più frequenti di visita dal pediatra o neuropsichiatra infantile.

Ma cosa si intende per disturbi del sonno nel bambino? I più comuni sono insonnia (20-30%), parasonnie (25%), disturbi del ritmo circadiano (7%), disturbi respiratori del sonno (2-3%), disturbi del movimento legati al sonno (1-2%), ipersonnie (0,01-0,20%). “I disturbi del sonno nel bambino si possono manifestare a diverse età – sottolinea il Dr. Marco Angriman, neuropsichiatra infantile, Servizio di Neurologia e Neuroriabilitazione per l’età evolutiva, Ospedale Centrale di Bolzano – nella prima infanzia predominano difficoltà di addormentamento e risvegli frequenti, parasonnie (ad esempio pavor notturno o risvegli confusionali) o i disturbi respiratori del sonno (ad esempio sindrome delle apnee ostruttive), mentre nelle età successive possono comparire con maggiore frequenza  disturbi del ritmo circadiano e disturbi del movimento correlati al sonno, e soprattutto in adolescenza, disturbi legati alla scarsa igiene del sonno, favoriti dagli stili di vita scorretti”.

Le cause dei disturbi del sonno nel bambino possono derivare da molteplici fattori, da cause organiche a una cattiva igiene del sonno. Tra le prime hanno un ruolo importante i fattori genetici (studi sui gemelli e sulla familiarità hanno dimostrato, per esempio, una forte influenza genetica nell’insonnia) e l’ordine di nascita: alcuni studi riportano una maggiore frequenza di insonnia nei primogeniti e nei figli unici. Anche un’eventuale depressione materna può essere all’origine di una insonnia in un bambino: il 38% delle madri dei bambini che hanno difficoltà a dormire ha sintomi nevrotici e/o depressivi, l’85% sentimenti ambivalenti nei confronti del bambino.

Gli errori di comportamento dei genitori possono, invece, manifestarsi durante i risvegli, tra questi la tendenza, per esempio, ad accorrere subito e a prendere in braccio il bambino sia all’addormentamento che durante i risvegli e l’abitudine alla condivisione del letto dei genitori, il cosiddetto cosleeping. Un altro fattore molto importante è la modalità di alimentazione: i risvegli notturni a 6 e a 12 mesi sono più frequenti nei bambini allattati al seno: 52% contro 20% di quelli allattati artificialmente (verosimilmente legato all’allattamento a domanda, più frequente nei bambini allattati al seno).

Le conseguenze di un sonno insufficiente o di cattiva qualità nei bambini “sono molteplici e molto spesso misconosciute” sottolinea Oliviero Bruni, neuropsichiatra infantile, esperto di disturbi del sonno nel bambino. “Infatti, una cattiva qualità del sonno può comportare diversi disturbi che molti non attribuiscono ad una alterazione del sonno:
– ridotte performance scolastiche e problemi di apprendimento: il 28% dei bambini con insufficiente quantità di sonno si addormenta a scuola una volta a settimana; il 22% facendo compiti; il 32% è troppo stanco per fare sport;
– sonnolenza, disattenzione, ridotta memoria di lavoro, scarso controllo impulsi e disregolazione del comportamento;
– rischio traumi accidentali;
– obesità, disturbi metabolici, predisposizione al diabete;
– aumento rischio di sviluppare ADHD, disturbo oppositivo-provocatorio e disturbi depressivi;
– in adolescenza abuso di alcool, cannabis e altre droghe, depressione, intenzioni suicidarie.

Non ultimo è da considerare che il problema del sonno del bambino può avere ripercussioni su tutto l’ambito familiare determinando una scarsa salute fisica e mentale dei genitori, favorendo lo sviluppo di una depressione materna e un notevole stress familiare. E’ infine da considerare che molti casi di abuso al bambino e addirittura di infanticidio sono da attribuire alla deprivazione di sonno dei genitori”.

In occasione del 74° Congresso SIP è stato presentato il Progetto della SICuPP (Società Italiana Cure Primarie Pediatriche) Dormire bene per crescere bene. L’iniziativa è finalizzata ad aumentare le conoscenze dei Pediatri di famiglia affinché possano fornire ai genitori indicazioni utili per favorire una più corretta igiene del sonno dei bambini.

“Molto importante è la prevenzione nel primo anno di vita” – sottolinea Emanuela Malorgio, pediatra di famiglia, esperta di problemi del sonno – “perché le abitudini errate acquisite in questo periodo renderanno più difficile avere un’autonomia di addormentamento anche negli anni successivi. Le tre regole d’oro nel primo anno di vita sono: far dormire il bambino sempre nella stessa stanza adeguatamente preparata, evitando di farlo addormentare in ambienti diversi; rispettare l’orario in cui va a nanna e dai 3-4 mesi di vita (cioè da quando compare la fase di addormentamento) dissociare la fase dell’alimentazione da quella del sonno, che vuol dire staccarlo dal seno o dal biberon quando si sta per addormentare e metterlo sul lettino. Le buone abitudini vanno consolidate durante la crescita”.

Le tecniche comportamentali dovrebbero rimanere la prima linea di trattamento dell’insonnia. Si ricorre, invece, a interventi farmacologici quando queste hanno fallito o se esistono delle difficoltà oggettive per applicarle. Ad oggi non esistono farmaci approvati per l’insonnia in età pediatrica, né dall’FDA né dall’EMA, e i dati in letteratura per valutarne l’efficacia sono carenti, soprattutto per aspetti metodologici.

Le 10 regole per il sonno dei bambini e dei loro genitori

1. Rispettare l’orario della nanna tutte le sere. Abituare il piccolo sin dalla tenera età ad addormentarsi sempre alla stessa ora, adattando i ritmi della famiglia a quelli del bimbo e non viceversa. Le buone abitudini vanno mantenute e consolidate nell’arco della crescita, variandole in base all’età.

2. Far dormire il bambino sempre nello stesso ambiente adeguatamente preparato, con luci soffuse senza device accesi, ed eventualmente con una musica dolce e monotona di sottofondo. Non farlo addormentare in ambienti diversi, come sul divano in sala mentre si guarda la televisione.

3. Dissociare la fase di alimentazione da quella dell’addormentamento. Nei primi due o tre mesi di vita manca la fase di addormentamento, nel senso che non è possibile riconoscerla con precisione. Nei mesi successivi invece appena si notano alcuni segnali è bene metterlo nel lettino.

4. Rispettare l’orario dei pasti durante il giorno. Anche se il bambino va al nido cercare di mantenere gli stessi orari del pranzo, merenda e cena, adeguando i nostri orari ai suoi.

5. Mai usare il tablet o altri dispositivi elettronici dopo cena. Spegnere tutto almeno un’ora prima dell’addormentamento. La luce dei device riduce la produzione della melatonina che favorisce l’addormentamento.Mantenere tutti gli apparecchi elettronici, inclusa la televisione, il computer e il cellulare fuori dalla stanza da letto.

6. Non dare troppo cibo o acqua prima di dormire. Evitare il latte o altri liquidi compresa la camomilla durante i risvegli, preferire piuttosto l’utilizzo di un oggetto consolatorio per riaddormentarsi.

7. Regolare con attenzione l’esposizione alla luce. Per il sonnellino pomeridiano mantenere la luce dell’ambiente; ridurre l’esposizione il più possibile per la notte; potenziare la luce appena svegli. Il nostro ritmo sonno veglia, come quello dei nostri figli, è governato dall’alternanza della luce e del buio.

8. Evitare sostanze eccitanti dopo le ore 16. No a tè, solo deteinato in caso, no a bevande contenenti caffeina e no alla cioccolata.

9. Favorire un’alimentazione equilibrata. Con un adeguato introito di liquidi durante il giorno. Preferire cibi contenenti fibre e carni bianche, pesce azzurro, verdure verdi, legumi e cereali.

10. No ai bambini nel lettone. Abituarli all’autonomia vuol dire anche lasciarli dormire nel proprio ambiente. Nei casi di risveglio, riportarli sempre nel loro lettino. Un metodo che può funzionare è promettere un premio al bambino se non va nel letto dei genitori.


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