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Col passare del tempo si può verificare una degradazione del principio attivo che oltre a inficiarne l’efficacia, può comportare rischi in termini di sicurezza. La degradazione del principio attivo o degli eccipienti contenuti nel medicinale potrebbe mettere a serio rischio la vita del paziente, ad esempio per una reazione allergica fatale, già a dosi bassissime, causata dalle impurezze. Il vademecum dell’Aifa.

La data di scadenza dei medicinali non è la mera conseguenza di considerazioni arbitrarie o di logiche di tipo commerciale, ma scaturisce da evidenze scientifiche. Lo sottolinea l’Aifa in una nota pubblicata sul suo sito web dove si sottolinea che la data di scadenza è infatti il risultato di una valutazione basata sugli studi di stabilità condotti sui farmaci. I metodi utilizzati per svolgere questi test sono standardizzati e regolati da protocolli riportati nelle linee guida internazionali ICH che vengono seguite in Europa, Stati Uniti e Giappone.

Gli studi di stabilità condotti dalle aziende farmaceutiche sono riportati in specifiche sezioni del dossier che accompagna la registrazione di un farmaco e che viene sottoposto ad Aifa per la concessione dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio. Il periodo di validità di un medicinale (che porta alla definizione della data di scadenza) è quindi autorizzato sulla base della valutazione compiuta dagli esperti dell’Agenzia sui valori (numeri e parametri ben precisi) derivanti dagli studi. Stesso discorso vale anche per le condizioni di conservazione autorizzate, che sono solo quelle per le quali esistono elementi a supporto.

Non è opportuno che sia il paziente a valutare se un farmaco scaduto sia utilizzabile o meno e quale sia la sua pericolosità considerando in autonomia il colore, l’odore o i cambiamenti nella consistenza. Col passare del tempo si può verificare infatti una degradazione del principio attivo che oltre a inficiarne l’efficacia, può comportare rischi in termini di sicurezza. La degradazione del principio attivo o degli eccipienti contenuti nel medicinale potrebbe mettere a serio rischio la vita del paziente, ad esempio per una reazione allergica fatale, già a dosi bassissime, causata dalle impurezze. Vale la pena ricordare che la data di scadenza si riferisce al farmaco conservato all’interno del suo contenitore integro e alle condizioni di temperatura e umidità standard, per cui un medicinale conservato per anni in casa, magari in maniera non corretta, si degraderà più velocemente.

La corretta conservazione dei medicinali serve a mantenerne inalterate le caratteristiche farmacologiche e terapeutiche per tutto il periodo di validità indicato sulla confezione, in quanto ne garantisce la stabilità, requisito essenziale perché possano esplicare a pieno l’attività terapeutica attesa. È bene conservare i farmaci in un luogo fresco e asciutto della casa (non nel bagno), lontano da fonti di calore, nei contenitori originali etichettati. Spesso gli effetti negativi di luce, aria e sbalzi di temperatura, dovuti alle ripetute aperture della confezione, possono deteriorare il principio attivo; in questi casi è buona norma annotare sulla confezione la data di prima apertura. È sempre di fondamentale importanza seguire le informazioni sulla conservazione riportate nel foglio illustrativo di ciascun medicinale.

Fonte: Aifa


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Non solo malattie respiratorie: se i genitori fumano i bambini hanno un maggior rischio cardiovascolare.

Fumare sul terrazzo o areare non basta, perché ad essere “incriminato” è anche il fumo di “terza mano”, che si deposita sui vestiti, sulle pareti, sui mobili, e che, a contatto con i gas dell’aria, sprigiona sostanze tossiche che rimangono negli ambienti anche per mesi, inalate o assorbite anche attraverso il contatto con la pelle.

Se ne è discusso al Congresso della Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica(Siaip) a Milano, dove sono stati presentati i risultati di uno studio pubblicato su Thorax, condotto da un team di ricercatori dell’Università La Sapienza. «Stiamo parlando di effetti a lungo termine», precisa il primo autore, il professor Lorenzo Loffredo. «Avere un rischio cardiovascolare aumentato non vuol dire che il figlio di fumatori rischia un infarto, ma che potrebbe avere un rischio aumentato di eventi cardiovascolari in età adulta». Gli studiosi avevano evidenziato in precedenza che negli adulti il fumo aumenta lo stress ossidativo, attivando un enzima e diminuendo la biodisponibilità di ossido nitrico, che protegge da aterosclerosi e rischio cardiovascolare.

“Nello studio – spiega Anna Maria Zicari, professoressa aggregata di Pediatria – i figli di fumatori hanno dimostrato di avere una minore produzione di ossido nitrico e più stress ossidativo con conseguente alterazione della dilatazione arteriosa”. In Italia esistono ancora ambienti in cui si fuma, come l’automobile, luogo particolarmente a rischio.”Studi recenti hanno dimostrato che le concentrazioni tossiche possono essere più di venti volte superiori a quelle nell’ambiente domestico”, spiega ancora Loffredo.

“Ciononostante il 65% dei fumatori ha dichiarato di fumare in auto e purtroppo ancora un 21% lo fa in presenza dei bimbi”. “Il danno che possiamo procurare ai figli – conclude la Presidente Siaip Marzia Duse – è “nascosto” e silente, ma si renderà evidente quando saranno nel pieno dell’attività sociale e lavorativa”. 


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Le donne che in gravidanza fanno regolarmente un pisolino pomeridiano corrono meno rischi di dare alla luce un figlio con un basso peso alla nascita. È quanto emerge da uno studio cinese pubblicato da Sleep Medicine.

Un basso peso alla nascita, meno di 2.500 grammi, è associato a esiti negativi per la salute nell’infanzia e nell’età adulta, tra cui malattie respiratorie, diabete e ipertensione. Negli Usa circa l’8% dei bambini nasce con un peso inferiore alla media. Lulu Song e colleghi, della Huazhong University in Cina, hanno analizzato oltre 10mila donne che hanno preso parte allo studio cinese Healty Baby Cohort 2012-2014. Il gruppo comprendeva 442 donne che avevano avuto figli con basso peso alla nascita.

Dai risultati è emerso che, rispetto alle madri che non facevano il pisolino, le donne che si addormentavano un’ora, un’ora e mezza nel pomeriggio avevano circa il 29% di probabilità in meno di avere un figlio con un basso peso alla nascita. E anche la frequenza del pisolino sembrerebbe giocare un ruolo importante. Le donne che si riposavano il pomeriggio per 5-7 giorni alla settimana avevano il 22% in meno di probabilità di dare alla luce figli sottopeso.

Le conclusioni
Lo studio in realtà non dimostra direttamente che l’abitudine del pisolino in gravidanza sia in grado di influenzare il peso alla nascita dei bambini. Tuttavia, i risultati di questa ricerca “aggiungono prove al fatto che è importante conoscere le buone pratiche del sonno in gravidanza”, dice Louise O’Brien dell’Università del Michigan di Ann Arbor, non coinvolta nello studio. “Molti comportamenti del sonno sono modificabili e se il pisolino rappresenta un rischio, allora dobbiamo capire perché”, precisa l’esperta. E dunque è importante che negli studi futuri si tenga traccia della durata effettiva del sonno e non ci si basi solo sulle informazioni riportate dalle donne.

“Il basso peso alla nascita è uno dei risultati più temuti in gravidanza e una nuova comprensione dei fattori che giocano un ruolo è ben accetta”, conclude Ghada Bourjeily, della Brown University di Providence, negli Usa, anche’essa non coinvolta nello studio. “Il sonno, la sua qualità e la durata stanno emergendo come fattori di rischio per varie complicanze perinatali”.

Fonte: Sleep Medicine


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Sono sette gli errori più comuni ed evitabili quando si misura la pressione. Errori che possono portare a una lettura sbagliata, tendenzialmente più alta, con conseguenze che possono riguardare anche la somministrazione e il dosaggio dei farmaci, che magari viene aumentato senza che ce ne sia bisogno.

A identificarli e diffonderli, in occasione, negli Usa, del National High Blood Pressure Education Month proprio nel mese di maggio, e’ l’American Heart Association.

1. Avere la vescica piena. Questo può aggiungere 10-15 punti alla lettura. Si dovrebbe sempre svuotare la vescica prima di misurare la pressione.

2.Schiena o piedi non supportati. Un supporto scadente in posizione seduta può aumentare la lettura di 6-10 punti. Bisogna assicurarsi di essere su una sedia con la schiena appoggiata e i piedi sul pavimento o su uno sgabello.

3. Braccio non supportato. Se il braccio è appeso al fianco o lo si tiene alzato durante la lettura, si potrebbero osservare valori fino a 10 punti più alti di quanto dovrebbero essere. E’ importante posizionare il braccio su una sedia o un tavolo, in modo che il bracciale di misurazione sia all’altezza del cuore.

4. Avvolgere il bracciale sugli abiti. Questo errore piuttosto comune può aggiungere da 5 a 50 punti alla lettura. Meglio assicurarsi che il bracciale sia posizionato sul braccio nudo.

5. Il bracciale è troppo piccolo. Se accade la pressione potrebbe essere maggiore di 2-10 punti. Il medico può aiutare a garantire una corretta vestibilità.

6. Sedersi con le gambe incrociate. Potrebbe aumentare la lettura della pressione di 2-8 punti. È meglio disincrociare le gambe e assicurarsi che i piedi siano supportati.

7. Parlare. Rispondere alle domande, parlare al telefono, può aggiungere 10 punti. E’ importante rimanere fermi e silenziosi per garantire una misurazione accurata.

E, oltre a questi, vi ricordiamo di rispettare i seguenti suggerimenti:

A) Lontano dai pasti

B) Lontano dal caffè

C) Lontano dall’ultima sigaretta

D) Sempre lo stesso braccio

E) Dopo alcuni minuti di riposo

F) Sempre alla stessa ora

ed altri ancora, che vi spiegheremo meglio in farmacia


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Uno studio condotto in Gran Bretagna ha fatto emergere come, nel mantenimento di un buon vocabolario nella terza età, l’attività fisica quotidiana costituisca un fattore chiave

Essere fisicamente in forma aiuta gli anziani ad avere un linguaggio più appropriato rispetto ai coetanei che non svolgono regolare attività fisica. È quanto emerge da uno studio pubblicato da Scientific Reports e coordinato da Katrien Segaert, dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito.

Lo studio
I ricercatori hanno esaminato i risultati ottenuti in diversi esercizi mentali effettuati da 28 volontari a cavallo tra i 60 e i 70 anni di età. I partecipanti dovevano eseguire giochi di parole al computer e facevano anche attività sportiva con la cyclette. Per confrontare i dati ottenuti da questo gruppo, Segaert e colleghi hanno preso in considerazione giovani di 20 anni che completavano solo le valutazioni delle capacità linguistiche. Tra i giochi di parole, ai partecipanti è stato chiesto di nominare personaggi famosi come attori e politici sulla base di 20 domande. Inoltre, sono state fornite le definizioni di 20 parole usate raramente nella conversazione quotidiane e 20 parole molto comuni, per capire se gli intervistati conoscessero o meno le relative definizioni.

I risultati
Rispetto ai giovani, gli anziani hanno avuto più esitazioni sulle parole, pensando di sapere la risposta, anche se non erano in grado di darla. In questo gruppo, però, coloro che mantenevano una migliore forma fisica con la cyclette si mostravano meno titubanti. Secondo i ricercatori, la funzionalità cognitiva e le abilità linguistiche spesso diminuiscono con l’età anche tra gli anziani più sani. L’esercizio fisico, invece, sarebbe collegato a migliori capacità cognitive, come una migliore velocità di elaborazione e memoria. Poco si sa, però, del collegamento tra attività fisica e abilità linguistiche.

“Il linguaggio è un aspetto cruciale della cognizione, necessario a mantenere l’indipendenza, la comunicazione e l’interazione sociale in età avanzata”, commenta Segaert. La difficoltà nel trovare le parole è comune tra gli anziani, per questo, almeno secondo Philip Gorelick, della Michigan State University di East Lansing, indagare il potenziale dell’esercizio fisico in questo contesto è importante. “I risultati di questo studio non sono sorprendenti – ha dichiarato l’esperto, che non era coinvolto nella ricerca -, ma aggiungono dati a studi precedenti che collegano positivamente l’esercizio aerobico a vari domini cognitivi”.

Fonte: Scientific Reports


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Somministrare la musica come un ansiolitico o un analgesico; questo il suggerimento scaturito da una serie di studi, che dimostrano come ascoltare musica prima di un intervento e al risveglio dall’anestesia, sia di grande aiuto nel ridurre lo stato d’ansia che precede l’ingresso in sala operatoria e nel contenere il dolore post-operatorio.

La musica riduce ansia e dolore nei pazienti sottoposti ad interventi chirurgici. Lo rivela un riesame dei 92 trial randomizzati e controllati (per un totale di 7.385 pazienti) condotti finora sull’argomento a partire dal 1980. L’analisi, pubblicata su British Journal of Surgery, ha evidenziato che, su una scala analogica visiva graduata in 100 mm l’impiego della musica è in grado di ridurre sia lo stato ansioso (- 21 mm) che il dolore (- 10 mm), rispetto ai controlli.

Altro dato emerso da questa analisi è che la musica funziona sempre a prescindere dal sesso, dall’età, dal genere musicale e dal tipo di anestesia.

“Questi risultati – commenta il primo autore dello studio, Rosalie Kühlmann, Erasmus MC-Sophia Children’s Hospital (Olanda) – sono tali da far pensare che i tempi siano maturi per creare delle linee guida per implementare l’impiego della musica nel periodo peri-procedurale, in corrispondenza di un intervento chirurgico”.

Ogni anno vengono effettuati nel mondo qualcosa come 266-360 milioni di interventi chirurgici (fonte: WHO). Molti di questi pazienti riferiscono un forte stato d’ansia prima dell’intervento (il 75% secondo dati recenti)  e dolore nel post-operatorio (il 40-65% dei pazienti lamentano dolore di intensità moderato-grave dopo l’intervento chirurgico, nonostante la terapia del dolore). Lo stato ansioso come è noto può contribuire ad aumentare la percezione del dolore post-operatorio.


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giovedì 24

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Studiare apre la mente ma aiuta anche a conservarla in forma più a lungo negli anni. Più è alto il livello di istruzione, infatti, e più tarda a manifestarsi il declino cognitivo, ovvero la perdita della memoria e di facoltà come apprendimento, attenzione e linguaggio.

La conferma del legame tra i livello di istruzione e la salute del cervello in vecchiaia arriva da uno studio guidato dalla University of Southern California. Pubblicata sul Journals of Gerontology, l’indagine ha usato i dati sulle abilità cognitive di un campione di 10.374 americani nel 2000 e 9.995 nel 2010, che avevano 65 anni o più (età media circa 75 anni).

Il campione è stato diviso in quattro categorie in base al livello di istruzione: persone che hanno frequentato solo le elementari, persone con un diploma di scuola superiore, laureati e persone che avevano più lauree.

Ne è emerso che, tra il 2000 e il 2010, l’aspettativa di vita senza demenza è aumentata, ma è aumentata molto di più per le persone più istruite: tra gli over 65 laureati è aumentata in media di 1,51 anni per gli uomini e 1,79 anni per le donne. L’aumento degli anni di vita trascorsi senza problemi cognitivi era molto più basso tra chi aveva minore istruzione e pari a 0,66 anni per gli uomini e 0,27 anni per le donne. In media, le persone che non avevano completato la scuola superiore avevano una buona cognizione fino ai 70 anni. Coloro che avevano un’istruzione universitaria invece tendevano ad averla anche dopo gli 80 anni.


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