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Bere un paio di bicchieri di vino al giorno, non solo riduce il rischio di malattie cardiovascolari e tumori, ma può anche aiutare a ‘ripulire la mente’, aiutando il cervello a eliminare le tossine, comprese quelle associate alla malattia di Alzheimer.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports aiuta a spiegare quanto precedenti ricerche hanno dimostrato, ovvero che una moderata assunzione di alcol è associata a un minor rischio di declino cognitivo, mentre bere pesantemente lo aumenta.

condurlo, ricercatori dell’Università di Rochester Medical Center (URMC) che in passato avevano descritto il funzionamento del sistema glinfatico, ovvero il processo di pulizia del cervello, attraverso il quale il liquido cerebrospinale viene pompato nel tessuto cerebrale e permette di eliminare tossine, comprese le proteine beta amiloide e tau, associate con l’Alzheimer. In seguito, lo stesso team aveva mostrato che il sistema glinfatico è più attivo mentre dormiamo, può essere danneggiato da ictus e traumi e migliora con l’esercizio.

Ora, con un nuovo studio condotto su topi ha esaminato l’effetto dell’alcol. Studiando il cervello di animali esposti ad alti livelli di alcol per un lungo periodo di tempo, i ricercatori hanno osservato che negli astrociti, cellule chiave nella regolazione del sistema glinfatico, presentavano alti livelli di un marcatore molecolare per l’infiammazione. E questo era collegato a ridotte capacità cognitive e motorie. In topi esposti a bassi livelli di consumo di alcol, pari a circa 2 bicchieri al giorno, invece, il sistema glinfatico era più efficiente nel rimuovere i rifiuti rispetto agli animali non esposti. Inoltre i livelli di infiammazione cerebrale erano inferiori.

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E’ la semplice ma efficace ricetta contenuta in uno studio della Mayo Clinic appena pubblicato. La battaglia contro i chili di troppo si combatte quindi anche stando più in piedi e meno seduti. Strappare alla sedia o alla poltrona sei ore al giorno consente alla fine dell’anno di perdere fino a 2,5 Kg.

Una persona di 65 chili può perdere fino a 10 Kg in 4 anni, semplicemente trascorrendo 6 ore al giorno in piedi, anziché seduto.
E’ il messaggio forte e chiaro che scaturisce da uno studio pubblicato su European Journal of Preventive Cardiology.

Tra le cause dell’epidemia di obesità che affligge il mondo occidentale e non solo, viene spesso tirata in ballo anche la sedenterietà. Che non significa solo non fare sport e attività fisica, in palestra o al parco, ma anche e soprattutto trascorrere troppe ore al giorno seduti. Si può anche essere degli sportivi, ma trascorrere troppe ore al giorno seduti è un’abitudine poco salutare. E gli europei in media passano sette ore al giorno seduti, per questioni lavorative, di studio o per pura pigrizia.

Gli autori di questo studio sono andati a vedere se il semplice stare in piedi consenta di bruciare più calorie; per farlo, hanno analizzato i risultati di 46 studi, su un totale di 1.184 partecipanti (età media 33 anni, 60% maschi, con indice di massa corporeo medio 24 e peso 65 Kg).

Stare in piedi consente di bruciare 0,15 kcal/minuto in più che stare seduti; il che, moltiplicato per 6 ore, fa 54 kcal consumate in più al giorno; questo consumo calorico, rapportato ad un anno, equivale a 2,5 Kg in meno e a 10 Kg in meno se l’abitudine di stare in piedi anziché seduti viene mantenuta con costanza per 4 anni.

“Stare in piedi – spiega Lopez-Jimenez, direttore della cardiologia preventive presso la Mayo Clinic di Rochester (USA) – non solo consente di bruciare più calorie, ma fa svolgere un’attività muscolare ulteriore che riduce il rischio di infarto, ictus, diabete; da questo punto di vista dunque, i benefici del trascorrere più ore in piedi vanno  molto al di là della semplice perdita di peso. I risultati del nostro studio potrebbero inoltre essere una sottostima, perché normalmente quando una persona sta in piedi tende a fare una serie di movimenti quale spostare il peso da una gamba all’altra, fare qualche passo avanti e indietro, fare delle brevi camminate per buttare la carta nel cestino o per andare verso un armadio.” Nello studio invece le calorie consumate venivano calcolate facendo semplicemente stare in piedi sul posto i partecipanti.

Gli autori concludono dunque che sostituire alcune delle ore trascorse seduti, con altre passate in piedi può rappresentare una valida strategia per il controllo del peso a lungo termine. Studi futuri dovranno valutare quanto questa strategia sia applicabile nella vita quotidiana e la sua efficacia in pratica. Di certo nel frattempo, “è importante evitare di stare seduti troppo a lungo – consiglia il professor Lopez-Jimenez – Stare in piedi è già un buon inizio per rompere la routine del trascorrere troppe ore seduti. E chissà che questo non involgi la gente a fare anche un po’ di più, a fare un po’ di attività fisica sul serio, che di certo avrebbe effetti ancor più benefici”.


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È un legame a doppio filo quello tra parodontite e diabete di tipo 2: molti diabetici vanno infatti incontro a questa patologia, ma vale anche il contrario. La buona notizia, però, è che migliorando la salute orale migliora anche il controllo dei livelli glicemici.

È quanto emerge da uno studio dell’Università di Barcellona, pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Periodontology.

La ricerca è stata condotta su 90 pazienti con diabete di tipo 2 che hanno ricevuto trattamenti per migliorare la salute orale per sei mesi. Durante questo periodo, sono stati sottoposti anche all’esame dell’emoglobina glicata, nonché a test per individuare la presenza di popolazioni di batteri orali che causano la parodontite, oltre che al controllo di altri parametri clinici.

“La conclusione principale – spiega uno degli autori della ricerca, José López López – è che il trattamento non chirurgico della parodontite migliora lo stato glicemico e i livelli di emoglobina glicata, e quindi lo studio dimostra la grande importanza della salute orale in questi pazienti”.

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Manipolare geneticamente le cellule del sistema immunitario per renderle capaci di riconoscere e attaccare il tumore. È quello che hanno fatto i medici e i ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma con un bambino di 4 anni, affetto da leucemia linfoblastica acuta, refrattario alle terapie convenzionali. Si tratta del primo paziente italiano curato con questo approccio rivoluzionario all’interno di uno studio accademico, promosso dal Ministero della Salute, Regione Lazio e AIRC. Ad un mese dall’infusione delle cellule riprogrammate nei laboratori del Bambino Gesù, il piccolo paziente sta bene ed è stato dimesso: nel midollo non sono più presenti cellule leucemiche.

La terapia genica a base di Car-t. La tecnica di manipolazione delle cellule del sistema immunitario del paziente rientra nell’ambito della cosiddetta terapia genica o immunoterapia, una delle strategie più innovative e promettenti nella ricerca contro il cancro. I medici e i ricercatori del Bambino Gesù hanno prelevato i linfociti T del paziente, le cellule fondamentali della risposta immunitaria, e li hanno modificati geneticamente attraverso un recettore chimerico sintetizzato in laboratorio. Questo recettore, chiamato Car (Chimeric Antigenic Receptor), potenzia i linfociti e li rende in grado – una volta reinfusi nel paziente – di riconoscere e attaccare le cellule tumorali presenti nel sangue e nel midollo, fino ad eliminarle completamente.

La terapia genica con cellule modificate Car-T è stata sperimentata per la prima volta con successo nel 2012, negli Stati Uniti, su una bambina di 7 anni con leucemia linfoblastica acuta, dai ricercatori dell’Università di Pennsylvania presso il Children Hospital di Philadelphia. Da allora sono partite numerose sperimentazioni in tutto il mondo, i cui risultati hanno portato pochi mesi la Food and Drug Administration ad approvare il primo farmaco a base di CAR-T sviluppato dall’industria farmaceutica.

Lo studio del Bambino Gesù

L’approccio adottato dai ricercatori del Bambino Gesù, guidati da Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-Ematologia Pediatrica, Terapia Cellulare e Genica, differisce parzialmente da quello nord-americano. Diversa è la piattaforma virale utilizzata per la trasduzione delle cellule, per realizzare cioè il percorso di modificazione genetica. Diversa è la sequenza genica realizzata (costrutto), che prevede anche l’inserimento della Caspasi 9 Inducibile (iC9), una sorta di gene “suicida” attivabile in caso di eventi avversi, in grado di bloccare l’azione dei linfociti modificati. È la prima volta che questo sistema, adottato grazie alla collaborazione dell’Ospedale con Bellicum Pharmaceuticals, viene impiegato in una terapia genica a base di Csar-T: una misura ulteriore di sicurezza per fronteggiare i possibili effetti collaterali che possono derivare da queste terapie innovative.

Diversa, infine, è la natura della sperimentazione. L’infusione del primo paziente al Bambino Gesù, infatti, è il frutto di quasi tre anni di lavoro di ricerca pre-clinica all’interno di un trial di tipo accademico, non industriale: uno studio tutto italiano dedicato a quest’approccio di terapia genica, finanziato dall’Associazione Italiana per la Ricerca contro il Cancro, dal Ministero della Salute e dalla Regione Lazio. Il processo di manipolazione genetica e la produzione del costrutto originale realizzato per l’infusione, un vero e proprio farmaco biologico, avvengono interamente all’interno dell’Officina Farmaceutica (Cell Factory) del Bambino Gesù a San Paolo, autorizzata per quest’attività specifica dall’Agenzia Italiana del Farmaco. Il processo di produzione dura 2 settimane, a cui vanno aggiunti circa 10 giorni per ottenere tutti i test indispensabili per garantire la sicurezza del farmaco biologico che si va ad infondere nel paziente per via endovenosa.

Il primo paziente

Il bambino di 4 anni sottoposto per la prima volta al trattamento sperimentale di terapia genica era affetto da leucemia linfoblastica acuta, di tipo B cellulare, che rappresenta il tipo più frequente di tumore dell’età pediatrica (400 nuovi casi ogni anno in Italia). Aveva già avuto 2 ricadute (recidive) di malattia, la prima dopo trattamento chemioterapico, la seconda dopo un trapianto di midollo osseo da donatore esterno (allogenico).

“Per questo bambino – spiega Locatelli – non erano più disponibili altre terapie potenzialmente in grado di determinare una guarigione definitiva. Qualsiasi altro trattamento chemioterapico avrebbe avuto solo un’efficacia transitoria o addirittura un valore palliativo. Grazie all’infusione dei linfociti T modificati, invece, il bambino oggi sta bene ed è stato dimesso. È ancora troppo presto per avere la certezza della guarigione, ma il paziente è in remissione: non ha più cellule leucemiche nel midollo. Per noi è motivo di grande gioia, oltre che di fiducia e di soddisfazione per l’efficacia della terapia. Abbiamo già altri pazienti candidati a questo trattamento sperimentale”.

L’Officina Farmaceutica del Bambino Gesù ha completato la preparazione delle cellule per un adolescente affetto dalla stessa malattia, la leucemia linfoblastica acuta, mentre è in corso la preparazione di Car-T anche per una bambina affetta da neuroblastoma, il tumore solido più frequente dell’età pediatrica. Anche in questo caso, il protocollo di manipolazione cellulare e il suo impiego clinico sono stati approvati dall’Agenzia Italiana del Farmaco.

Le prospettive

Secondo Locatelli: “L’infusione di linfociti geneticamente modificati per essere reindirizzati con precisione verso il bersaglio tumorale rappresenta un approccio innovativo alla cura delle neoplasie e carico di prospettive incoraggianti. Certamente siamo in una fase ancora preliminare, che ci obbliga ad esprimerci con cautela. A livello internazionale sono già avviate importanti sperimentazioni da parte di industrie farmaceutiche. Ci conforta poter contribuire allo sviluppo di queste terapie anche nel nostro Paese e immaginare di avere a disposizione un’arma in più da adottare a vantaggio di quei pazienti che hanno fallito i trattamenti convenzionali o che per varie ragioni non possono avere accesso ad una procedura trapiantologica”.

Per Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, si tratta di: “Una pietra miliare nel campo della medicina di precisione in ambito onco-ematologico. Le terapie cellulari con cellule geneticamente modificate ci portano nel merito della medicina personalizzata, capace di rispondere con le sue tecniche alle caratteristiche biologiche specifiche dei singoli pazienti e di correggere i difetti molecolari alla base di alcune malattie. È la nuova strategia per debellare malattie per le quali per anni non siamo riusciti a ottenere risultati soddisfacenti. Un settore di avanguardia nel quale l’Ospedale non poteva non essere impegnato. Siamo riusciti in tempi record a creare un’Officina Farmaceutica, a farla funzionare, a certificarla e ad andare in produzione. Il risultato incoraggiante di oggi in campo oncoematologico, con la riprogrammazione delle cellule del paziente orientate contro il bersaglio tumorale, ci fa essere fiduciosi di avere a breve risultati analoghi nel campo delle malattie genetiche, come la talassemia, l’atrofia muscolare spinale o la leucodistrofia”.


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La bambina aveva già subito in passato tre interventi cardiochirurgici a cuore aperto. Il team dell’ospedale Regina Margherita di Torino ha ripristinato la pervietà dell’arteria polmonare.

È stata salvata una bimba di 6 anni che viveva praticamente con un solo polmone, il destro, perché l’arteria che porta il sangue al polmone sinistro era completamente occlusa e quindi il sangue non arrivava al polmone stesso.

La piccola era nata con una rarissima e gravissima cardiopatia congenita,con trasposizione dei vasi, ovvero con l’aorta e l’arteria polmonare invertite rispetto ai ventricoli cardiaci, ed inoltre l’arteria polmonare sinistra chiusa che non portava il sangue al polmone sinistro.

Come se non bastasse aveva anche un restringimento dell’aorta. Per questo motivo era stata sottoposta a tre interventi cardiochirurgici a cuore aperto per la ricostruzione dell’aorta ascendente e dei rami polmonari: il primo alla nascita, il secondo a 2 anni ed il terzo a 4 anni.

Nonostante ciò all’età di 5 anni si è verificata l’occlusione completa dell’arteria che porta il sangue al polmone sinistro, causando una sintomatologia evidente, in quanto di fatto solo il polmone destro funzionava regolarmente.

La bimba, che si affaticava e si ammalava frequentemente, respirava quindi con un polmone solo. Per questo motivo con una delicata procedura percutanea non invasiva di circa tre ore l’arteria occlusa è stata riaperta grazie all’utilizzo di materiali molto particolari.

Partendo dall’inguine e seguendo i vasi sanguigni la cardiologa Gabriella Agnoletti (Direttore della Cardiologia dell’ospedale Infantile Regina Margherita) è arrivata fino all’arteria polmonare e con una sorta di “trapano”, che utilizza un’energia a radiofrequenza, ha aperto un passaggio che poi è stato dilatato con utilizzo di materiali abitualmente impiegati per riaprire le coronarie nell’adulto.

Infine è stato posizionato uno stent metallico nel nuovo passaggio per garantirne la pervietà futura.

Non sono mai stati riportati in passato casi come questo di pazienti né pediatrici né adulti con un’occlusione di un intero polmone che perdurava da oltre due anni. L’intervento è tecnicamente riuscito.

La bimba ora sta bene ed in futuro potrà avere una vita del tutto normale.


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Salgono a otto i casi gravi di influenza confermati in donne in gravidanza, mentre i decessi per complicanze dovute ai virus influenzali accertati da settembre a oggi sono quasi 80.

Lo segnala l’Istituto superiore di sanità (Iss) nell’ultimo aggiornamento del bollettino FluNews. Dall’inizio della sorveglianza stagionale, ovvero da settembre 2017, precisa l’Istituto, «sono 472 i casi gravi da influenza confermata in soggetti ricoverati in terapia intensiva, 78 dei quali sono deceduti».

Tutte le Regioni continuano a segnalare una attività influenzale diffusa, si legge, e anche il numero di casi gravi e severi è «elevato». «L’attività influenzale – conclude il rapporto settimanale – continuerà probabilmente ancora per diverse settimane».

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Il bilancio lo fa il primo bollettino mensile del 2018 curato dall’Istituto superiore di sanità. Nel corso del 2017 registrati 4 decessi. Nove casi su dieci in otto Regioni. Nel Lazio la regione con il tasso di incidenza più elevato seguita dal Piemonte. Il 95% dei casi era non vaccinato o vaccinato con una sola dose. Tra gli operatori sanitari registrati 322 casi.

Dall’inizio del 2013 sono stati segnalati 10.065 casi di morbillo di cui 2.258 nel 2013, 1.696 nel 2014, 258 nel 2015, 862 nel 2016 e 4.991 nel 2017, con 4 decessi accertati.

Solo nell’ultimo anno quindi abbiamo avuto quasi sei volte i casi dell’anno precedente. Una vera e propria epidemia che ha allarmato anche l’Europa e che ci ha visti secondi per numero di casi solo alla Romania.

I dati sono contenuti nel primo bollettino mensile del 2018 dell’Istituto superiore di sanità.

Nel 2017, l’incidenza di casi di morbillo a livello nazionale è stata pari a 8,2/100.000 ma il 90% dei casi è stato segnalato da otto Regioni: Lazio (n=1.699), Lombardia (n=787), Piemonte (n=629), Sicilia (n=425), Toscana (n=370), Veneto (n=288), Abruzzo (n=173) e Campania (n=108).

La regione Lazio ha riportato il tasso d’incidenza più elevato (28,8 casi/100.000 abitanti), seguita dal Piemonte (14,3/100.000) e dall’Abruzzo (13,1/100.000).

Il 79% dei casi è stato confermato in laboratorio. Il 95% dei casi era non vaccinato o vaccinato con una sola dose.

L’età mediana dei casi è stata pari a 27 anni (range: 1 giorno – 84 anni). Il 17,4% dei casi (n=870) aveva meno di cinque anni di età (incidenza 34,8 casi/100.000). Di questi, 282 erano bambini al di sotto dell’anno di età (incidenza 60,3 casi/100.000). Il 49,2 % dei casi si è verificato in soggetti di sesso maschile. L’87,5% dei casi per cui è noto lo stato vaccinale (n=4.061/4.991) era non-vaccinato e il 7,2% aveva effettuato una sola dose di vaccino. L’1,6% aveva ricevuto due dosi e il 3,7% non ricorda il numero di dosi.

Il 35,8% dei casi (1.786/4.991) ha riportato almeno una complicanza. La complicanza più frequente è stata la diarrea, riportata in 793 casi (15,9%). Sono stati segnalati 378 casi di polmonite (7,6%) e 2 casi di encefalite. Altre complicanze riportate includono casi di stomatite (730 casi), cheratocongiuntivite (496 casi) ed epatite (444 casi).

Il 44,8% dei casi è stato ricoverato e un ulteriore 22% si è rivolto ad un Pronto Soccorso. Sono stati segnalati quattro decessi, di cui tre bambini sotto i 10 anni di età (rispettivamente 1, 6 e 9 anni) e una persona di 41 anni, tutti non vaccinati. In tutti i casi erano presenti altre patologie di base e la causa del decesso è stata insufficienza respiratoria.

I focolai si sono verificati in ambito familiare, scolastico, e spesso anche in quello nosocomiale.

Sono stati segnalati 322 casi tra operatori sanitari in 18 Regioni (tutte eccetto Valle d’Aosta, Molise e P.A. Bolzano).


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Basta una sola sigaretta al giorno per mettere a rischio il cuore. Aumentano le probabilità di andare incontro a malattie coronariche e ictus più di quanto ci si aspetti.

E’ quanto emerge da uno studio dell’UCL Cancer Institute dello University College London, pubblicato su Bmj. Gli studiosi hanno analizzato 55 reports, frutto di 141 ricerche tra il 1946 e il 2015 e stimato il rischio relativo di fumare una sigaretta, cinque o venti al giorno.

Hanno scoperto che gli uomini che fumavano una sigaretta al giorno avevano circa il 48% di rischio in più di sviluppare malattia coronarica e il 25% in più di probabilità di avere un ictus rispetto a quelli che non avevano mai fumato. Per le donne, era ancora più alto: il 57% per le malattie cardiache e il 31% per l’ictus. Gli uomini che fumavano una sigaretta al giorno inoltre avevano il 53% del rischio di malattia coronarica di chi ne fumava 20 e il 64% del rischio di ictus. Le donne che fumavano una sigaretta al giorno avevano invece il 38% del rischio di malattia coronarica e il 36% del rischio di ictus di chi che ne fumava 20.

«Abbiamo dimostrato che una grande percentuale del rischio di malattia coronarica e ictus deriva dal fumare solo un paio di sigarette al giorno», affermano gli autori. «Questo probabilmente rappresenta una sorpresa per molte persone, ma esistono anche meccanismi biologici che aiutano a spiegare questo rischio inaspettatamente elevato associato a un basso livello di fumo». «Non esiste un livello sicuro di fumo per le malattie cardiovascolari – concludono – i fumatori dovrebbero smettere invece di ridurre». In un editoriale collegato, Kenneth Johnson, dell’Università di Ottawa, afferma che «solo la completa cessazione è protettiva».

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Iniziare a lavare i denti entro il primo anno di vita, no a dentifrici sbiancanti o con troppo fluoro e primo controllo dal dentista intorno ai 3 anni. La salute dei denti va curata sin da piccoli per evitare problemi da grandi.

A spiegarlo ai genitori è Luca Landi, presidente eletto della Società Italiana di Parodontologia (SIdP). E’ importante che i controlli inizino presto, più che altro sottoforma di gioco perché, suggerisce l’esperto, “portare per la prima volta dal dentista un bimbo già con mal di denti lo rende molto difficile da trattare”.

Ma quando è bene iniziare lavare i denti dei più piccoli? «Già appena nascono gli incisivi inferiori, e non più tardi del primo anno di età, bisognerebbe lavarli due volto al giorno, con spazzolini molto piccoli e morbidi adatti ai neonati. Possono iniziare a lavarli da soli intorno ai 3 anni ma sempre sotto supervisione dell’adulto».

No a colluttorio e sbiancanti, sì invece a dentifrici adatti alla loro età, con fluoro ridotto perché rischiano di ingerirlo. Sì anche, dopo i 3 anni, a spazzolini elettrici con testine molto piccole che possono aiutare il bimbo che ha una manualità inferiore. «Attenzione in qualsiasi caso alla spazzolatura: non deve essere traumatica per le gengive, perché potrebbe favorirne il ritirarsi».

Mentre l’addio al ciuccio va fatto il prima possibile, al massimo entro i 3 anni, perché «finché il bimbo lo tiene non impara a deglutire in modo corretto».

Genetica, dieta ricca di zuccheri e cattiva igiene orale sono alla base dello sviluppo delle carie, che non vanno sottovalutate se spuntano sui denti da latte.

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