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Dal fumo alla dieta. Uno studio pubblicato dal Journal American College Cardiology ha valutato il rapporto tra il conseguimento di sette obiettivi di salute cardiovascolare e l’effettiva riduzione dei rischi, nonché dell’allungamento della vita. È emerso che il raggiungimento anche di un solo obiettivo è efficace a qualsiasi età.

Sono sette gli obiettivi di salute cardiovascolare individuati dall’American Heart Association, il cui raggiungimento – totale o parziale – sarebbe associato a una vita più lunga e a minori eventi cardiovascolari, indipendentemente dall’età. Infatti in un gruppo di pazienti anziani partecipanti allo studio “i vantaggi di una salute cardiovascolare ideale nel ridurre la mortalità e gli eventi vascolari (infarto, ictus) è stato paragonabile a quello che si osserva nelle fasce di popolazione più giovane – ha detto Bamba Gaye, dell’Università Paris Descartes, autrice principale dello studio – Questa è una buona notizia, in quanto suggerisce che non è mai troppo tardi per impedire lo sviluppo di fattori di rischio per la malattia cardiovascolare”.

Lo studio
Gaye e colleghi hanno preso in esame oltre 7 mila persone per vedere come il conseguimento dei sette obiettivi ideali o ‘Life’s Simple 7’, avrebbe potuto influenzare il rischio di morte o di avere un ictus o un attacco cardiaco nel corso dello studio.

I sette obiettivi includevano:
– Indice di massa corporea (BMI) inferiore al valore del sovrappeso
– Svolgimento di un’attività fisica vigorosa per 75 minuti a settimana o di una moderata attività fisica, almeno per 150 minuti a settimana
– Non fumare o aver smesso almeno da 12 mesi
– Seguire una dieta sana che includa verdure e frutta fresca ogni giorno, pesce due volte o più a settimana e meno di 450 calorie a settimana di zuccheri
– Avere una pressione sanguigna sotto i 120/80, senza farmaci
– Mantenere un livello di colesterolo normale, senza farmaci
– Mantenere un normale livello di zuccheri nel sangue, senza farmaci

Dei 7371 partecipanti , la cui età media era di 74 anni, solo un individuo è riuscito a raggiungere i sette goals e solo il 5% dei partecipanti ne ha raggiunti almeno 5. I risultati sono stati pubblicati dai ricercatori sul Journal of the American College of Cardiology. Per tutti gli obiettivi, ad eccezione dell’attività fisica e del colesterolo totale, le donne avevano maggiori probabilità rispetto agli uomini di essere ad un livello ideale.

Gli altri risultati
Il gruppo di ricerca ha seguito i soggetti arruolati nello studio per monitorare la loro salute; metà dei partecipanti è stata seguita per più di nove anni. Rispetto ai soggetti che non raggiungevano più di due obiettivi, per quelli che hanno raggiunto tre o quattro target il rischio di morte durante lo studio si era ridotto del 16% mentre il raggiungimento di cinque-sette target aveva ridotto il rischio del 29%.

Infatti, il rischio di morte è diminuito del 10% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. Ugualmente, il rischio di malattie cardiache coronariche e ictus si è ridotto del 22% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. “Il goal ideale sarebbe quello di non avere alcun fattore di rischio per malattia cardiovascolare – ha osservato Gaye – Tuttavia, il nostro studio dimostra anche un beneficio per gradi sulla base del numero di fattori di rischio portati a livello ottimale. Quindi un approccio forse più realistico potrebbe essere quello di consigliare ai soggetti anziani di avere almeno un fattore di rischio a livello ottimale e di raggiungere progressivamente livelli ottimali degli altri fattori di rischio”.

“L’obiettivo di un invecchiamento di successo non è l’immortalità, ma il tempo trascorso con malattia e disabilità – ha scritto in un editoriale sullo studio, Karen P. Alexander della School of Medicine della Duke University di Durham – Questo studio ci ricorda che i fattori di rischio e le modifiche dello stile di vita non hanno data di scadenza e continuano a produrre benefici per una vecchiaia sana, ben oltre i 70 anni. Gli anziani dovrebbero concentrarsi non tanto sul perfetto raggiungimento del ‘Life’s Simple 7’ quanto piuttosto sul percorso di lavoro necessario per raggiungere questi obiettivi”.

Fonte: Journal American College Cardiology


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Si è chiuso a Roma il seminario “Donne e Droghe: dalla politica alla buona pratica”. Per l’occasione anche la Federazione Italiana Medici Pediatri, la Fimp, ha dato il suo contributo. Il consumo di droghe tra i giovanissimi sta crescendo e per rispondere a questo fenomeno la Fimp ha proposto di organizzare programmi di formazione nelle scuole: “spesso si inizia in età pre-adolescenziale – ha detto il presidente Giampietro Chiamenti  – Bisogna fornire alle famiglie gli strumenti per intervenire precocemente”.

“La Federazione Italiana Medici Pediatri, la Fimp, è pronta a dare il suo contributo per contrastare il preoccupante fenomeno del sempre maggiore consumo di sostanze stupefacenti nel nostro Paese. Bisogna puntare su programmi integrati di informazione e formazione già in età scolare fornendo alle famiglie gli strumenti per riconoscere i campanelli d’allarme ed intervenire precocemente”. E’ il messaggio lanciato dalla stessa Federazione in occasione della seconda giornata di lavori del seminario Donne e Droghe: dalla politica alla buona pratica, organizzato dal Dipartimento Politiche Antidroga del Governo e dal Gruppo Pompidou.

L’iniziativa fa parte della Giornata Mondiale contro la Droga e vede per la prima volta la partecipazione anche dei rappresentanti dei pediatri di famiglia. “I dati italiani sono davvero preoccupanti – ha detto Giampietro Chiamenti, presidente della Fimp -. Gli adolescenti residenti nel nostro Paese sono ai primi posti in Europa per consumo di alcol, droghe, sigarette, tranquillanti e sedativi. La sostanza illegale più sperimentata, almeno una volta nella vita, è la cannabis. La provano il 21% dei giovani mentre la media europea si attesta al 17%. L’inizio precoce avviene di solito intorno ai 14 anni, ma è in aumento l’utilizzo anche tra i pre-adolescenti. E’ quindi una fascia d’età chiaramente di interesse pediatrico”.

“Questo fenomeno può avere conseguenze negative anche da un punto di vista neuropsicologico – ha spiegato Stefania Russo, Responsabile Nazionale di progetto Fimp per i rapporti col Dipartimento Antidroga e col Miur -. Lo sviluppo plastico dell’encefalo si completa solo intorno ai 20 anni e quindi ogni sostanza d’abuso, assunta prima, può interferire nel normale processo di maturazione neuronale e dare il via a tutta una serie di effetti avversi come danni sulla memoria breve e riduzione della concentrazione. Esistono poi problemi sulla capacità di problem solving, sul controllo motorio e sul tempo di reazione”.

“È dimostrato inoltre che l’uso precoce e frequente di droghe può aumentare l’insorgenza di disturbi dell’umore, come ansia e depressione, e favorire il rischio di dipendenza in età adulta. Infine – ha concluso Russo – non va dimenticato il ricorso alla droga dello stupro che, mescolata alle bevande alcoliche, può essere responsabile di numerosi casi di violenza sessuale. E’ quindi necessario l’impegno di tutti, istituzioni, ricercatori, medici, operatori sanitari, per combattere questa piaga sempre più in crescita”.


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Un decreto dei ministri della Salute e dello Sport dà le ultime indicazioni per l’obbligo dei defibrillatori – e delle persone formate a utilizzarli – negli impianti sportivi in gare non agonistiche. Previste alcune esclusioni per attività non a rischio cardiocircolatorio che vanno dal tiro a segno alla pesca con la canna

Dal1° luglio – e dopo tre rinvii che lo hanno fatto slittare di oltre un anno – entra in vigore l’obbligo anche per le società sportive dilettantistiche del defibrillatore semiautomatico.

E gli ultimi chiarimenti per l’applicazione definitiva della legge 189/2012 (la legge Balduzzi) li detta il decreto interministeriale Salute-Sport del 21 giugno su “Linee guida sulla dotazione e l’utilizzo di defibrillatori semiautomatici e di eventuali altri dispositivi salvavita da parte delle associazioni e delle società sportive dilettantistiche”.

Il decreto chiarisce alcuni passaggi ancora controversi del decreto 24 aprile 2013 “Disciplina della certificazione dell’attività’ sportiva non agonistica e amatoriale e linee guida sulla dotazione e l’utilizzo di defibrillatori semiautomatici e di eventuali altri dispositivi salvavita” e prevede che l’obbligo di dotazione e impiego del defibrillatore semiautomatico è  da parte delle società sportive dilettantistiche se utilizzano un impianto sportivo che sia dotato di defibrillatore semiautomatico o a tecnologia più avanzata e  sia presente una persona formata al suo utilizzo durante  le gare inserite nei calendari delle Federazioni sportive nazionali, durante lo svolgimento di attività sportive competitive e ‘attività agonistiche di prestazione’ organizzate dagli Enti di promozione sportiva e da altre società dilettantistiche.

Queste dovranno accertarsi sia della presenza dei defibrillatori all’interno dell’impianto sportivo prima dell’inizio delle gare, sia della presenza del loro eventuale utilizzatore, altrimenti si determina “l’impossibilità di svolgere le attività sportive”.

Dall’obbligo sono esenti una serie di attività a ridotto impegno cardiocircolatorio e quelle svolte al di fuori degli impianti sportivi per la impossibilità di garantire la presenza del defibrillatore durante il loro svolgimento.

Queste attività sono elencate in un allegato al decreto e vanno al tiro a segno con armi sportive da caccia e archi al biliardo, dalle bocce al bridge, dalla dama alle freccette, dalla lippa, morra, birilli e piastrelle al minigolf. Sono esenti anche motonautica e vela, ma quelle radiocomandate, si intende e poi l’aeromodellismo, il tiro a segno, la pesca con la canna, il tiro al volo e attività di questo tipo.


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La presenza attiva del papa all’interno del nucleo familiare incide positivamente sulla forma del bambino. Ogni attività di cura verso i figli – dalle scelte alimentari all’attività all’aria aperto – corrisponde a una riduzione del 33% delle possibilità che il bambino diventi obeso.

Bimbi in forma? Merito (anche) dei papà che trascorrono con loro molto tempo. Il rapporto tra obesità infantile e cura paterna sembra, dunque, essere inversamente proporzionale. A questa conclusione è giunto uno studio osservazionale USA pubblicato da Obesity. Per lo studio, i ricercatori hanno esaminato quanto spesso i padri hanno partecipato ad attività come la cura, la preparazione dei pasti e lo svago all’aria aperta dei loro bambini.

Gli scienziati hanno anche valutato il peso delle decisioni paterne relative alla nutrizione, alla salute e alla disciplina quando i loro figli erano in un’età compresa tra i 2 e i 4 anni. All’età di 4 anni, i bambini avevano meno probabilità di essere obesi se i loro padri avevano trascorso molto tempo con loro in passeggiate e giochi, rispetto a quelli i cui papà rimanevano con le mani in mano o addirittura passavano poco tempo con i loro piccoli tra il secondo e il quarto anno di vita. Ogni altra cura quotidiana, come l’aiuto per vestirsi, fare il bagno, lavarsi i denti, è stata associata ad una ulteriore riduzione del 33% delle probabilità del bambino di diventare obeso. “Quando anche i padri sono coinvolti, aumenta la quantità di tempo che i due genitori dedicano alla cura dei bambini “, osserva Michelle Wong, della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health in Baltimore, autrice principale dello studio.

Lo studio
Il team di ricerca ricercatori ha esaminato i dati di un gruppo nazionale rappresentativo di circa 10.700 bambini, nati nel 2001. I piccoli sono stati seguiti fino all’età di 6-7 anni. Tutti i padri vivevano a casa con i loro figli in famiglie con due genitori, ma non rivestivano il ruolo di caregivers primari. In media i padri avevano un’attività lavorativa di circa 46 ore alla settimana, rispetto alle circa 18 ore settimanali delle madri. La percentuale di bambini tra i 2 e i 4 anni in sovrappeso è scesa dal 14% all’8% circa. La percentuale di bambini obesi è invece diminuita da circa il 6% al 4%.Circa un quarto dei padri ha messo più tempo a disposizione dei figli per cure e gioco dopo l’inizio della scuola, mentre il 30-40% dei padri lo ha ridotto.

I commenti
“In definitiva, questo studio ci dice che, indipendentemente da quante ore ciascuno dei genitori lavori fuori casa, se i padri sono più coinvolti nella cura dei piccoli, i bambini hanno meno probabilità di diventare obesi”, dice Julie Lumeng , ricercatrice presso University of Michigan CS Mott Children’s Hospital in Ann Arbor, non coinvolta nello studio. “Il coinvolgimento dei padri può avere molti vantaggi per i bambini”, osserva Philip Morgan, ricercatore presso l’Università di Newcastle in Australia, anch’egli non coinvolto nello studio. 
”Quando i padri prendono i bambini e li portano a giocare all’aperto, entrambi sperimentano i benefici dell’attività fisica, riducendo il rischio di obesità. Infatti, muoversi all’aria aperta porta vantaggi in quanto elimina comportamenti poco salutari alternativi come sedersi davanti a uno schermo e/o mangiare alimenti di scarsa qualità”.”I genitori dovrebbero fare squadra per garantire che i bambini abbiano una corretta alimentazione e l’opportunità di muoversi all’aperto e di intraprendere attività fisica”, conclude Stephen Daniels, dell’Università di Colorado School of Medicine di Denver .“Tuttavia è importante sottolineare che un buono stile di vita può essere sviluppato anche nelle famiglie monoparentali. I papà possono essere chiaramente utili, soprattutto nell’ambito dell’attività fisica, ma questo può accadere anche in altri modi con altri adulti che svolgano questo ruolo”.

Fonte: Obesity


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I lettini solari sono responsabili di oltre 450mila casi di tumore della pelle e più di 10mila casi di melanoma ogni anno in Usa, Europa e Australia insieme: a stimarlo è un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che chiede ai paesi membri di fare di più per limitarne l’uso.

Negli ultimi 30 anni l’esposizione a radiazioni ultraviolente (uvr) a scopi cosmetici ha fatto lievitare l’incidenza dei tumori della cute e abbassare l’età in cui si manifestano. La maggior parte degli utenti sono donne, soprattutto adolescenti e giovani.

Diversi studi hanno dimostrato che chi ha usato i lettini solari almeno una volta nella vita ha un 20% in più di rischio di avere il melanoma rispetto a chi non li ha mai usati, e del 59% in più se vi si ricorre prima dei 35 anni.

«I lettini abbronzanti sono pericolosi per la salute. I Paesi devono considerare se bandire o limitarne l’uso, e informare dei possibili rischi» sottolinea Maria Neira dell’Oms. Nel 2009 lo Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, aveva classificato l’esposizione ai raggi uv di apparecchi come carcinogena per l’uomo. Più di 40 autorità nazionali e provinciali nel mondo hanno implementato bandi o restrizioni all’uso dei lettini solari, ma molto deve essere ancora fatto per limitarli, secondo l’Oms. In Italia invece è stato richiesto ai proprietari dei lettini di proibirne l’uso alle persone con pelle chiara e alle donne incinte. I raggi uvr emessi da lettini e lampade solari sono intensi quanto quelli della luce tropicale di mezzogiorno e aumentano il rischio di tumori della pelle, melanoma e non, oltre che di invecchiamento cutaneo e di infiammazione degli occhi.

ANSA


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I benefici della preghiera possono andare ben oltre quelli della medicina. È il messaggio di uno studio americano pubblicato su Journal of Aging and Healthche individua l’attaccamento ad un Dio amorevole e caritatevole come un elemento in grado di conferire benessere e senso di protezione soprattutto alle persone sul viale del tramonto; in particolare a quelle sole, con problemi finanziari o con una salute precaria.

Essere vicini a Dio con la preghiera, aumenta il senso di benessere delle persone anziane e più si prega più questa sensazione cresce. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Journal of Aging and Health che ha preso in esame tre parametri: l’ottimismo, l’auto-stima e la soddisfazione nella vita. Per tutte e tre queste dimensioni è emersa chiara una correlazione positiva con l’attaccamento a Dio e la preghiera.

“La preghiera – commenta Blake Kent, un candidato al dottorato in sociologia – può risultare associata ad una sensazione di benessere più o meno grande, a seconda di come si ‘percepisce’ Dio. In altre parole, i benefici psicologici della preghiera sembrano dipendere dalla qualità della relazione con Dio sperimentata da una persona”.

Da questo studio emerge che, nel caso delle persone più religiose, più queste pregano, maggiore è la sensazione di benessere. Anche nei soggetti mediamente legati a Dio, la preghiera determina un certo aumento della sensazione di benessere, inferiore ai primi. Infine per chi mostra uno scarso attaccamento a Dio, lo studio mette in evidenza una riduzione del benessere in generale.

Il concetto di Dio può avere varie accezioni; può essere percepito come un essere amorevole e vicino agli uomini o al contrario distante e severo. Chi percepisce Dio come un’entità che dà sicurezza, ottiene degli effetti benefici dalla preghiera. Ma se Dio viene visto come distaccato o addirittura come un’entità nella quale non si può riporre fiducia, le cose cambiano.

“Se non ti puoi fidare di Dio – commenta Matt Bradshaw, professore associato di sociologia del College of Arts & Sciences, Baylor University (USA) – la preghiera non si associa alla fiducia nella sua protezione, ma all’incertezza e uno stato d’ansia. Si tende in genere a pensare che la preghiera sia automaticamente una cosa buona per il nostro benessere. Ma non è così per tutti. L’esperienza di molti infatti non è quella di  un Dio sempre pronto ad aiutare e nel quale riporre fiducia”.

Gli autori dello studio hanno analizzato i dati della survey nazionale Religion, Aging and Health, condotta su 1.024 persone over-65, suddivisi in tre gruppi: cristiani praticanti, cristiani in passato ma non religiosi al momento, atei.

“I soggetti che hanno affermato di pregare regolarmente un Dio da loro percepito come protettivo e che dà conforto possono trovare sollievo nella preghiera e scegliere dei comportamenti salutari consistenti con le pratiche religiose o le intuizioni che sviluppano durante la preghiera”. Per contro, chi si rapporta con un Dio non sentito presente nel momento del bisogno può avere una sensazione di estraniamento o addirittura mostrare un declino nella salute mentale.

La percezione di un Dio amorevole può risultare particolarmente importante per gli anziani con una salute precaria o discriminati per la loro età o che stiano sperimentando un allontanamento delle amicizie e magari delle perdite finanziarie dovute al pensionamento. Vari aspetti della vita religiosa, compresa la sensazione di intimità con Dio, sono già da tempo conosciuti come ‘cuscinetti’ anti- stress.

“Un Dio amorevole e di supporto – concludono gli autori – che sia anche onnipotente, onnipresente e onnisciente può essere di gran conforto e offrire sicurezza e resilienza ai credenti che si avvicinano alla fine della loro esistenza”.


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Un paziente di 79 anni, affetto da un grave aneurisma dell’arco dell’aorta, è stato operato e gli è stata impiantata una nuovissima endoprotesi costruita su modello di arco aortico stampato in 3D, che ha consentito di poter eseguire un eccezionale intervento senza ricorrere all’apertura del torace, alla circolazione extra-corporea ed all’ipotermia profonda. L’intervento è stato eseguito da una équipe multidisciplinare dell’ospedale Mauriziano di Torino, composta da chirurghi vascolari, cardiologi emodinamisti, cardiochirurgi ed anestesisti cardio-vascolari.

“La patologia che presentava il paziente – spiega la Città della Salute di Torino in una nota  – avrebbe richiesto un complesso intervento tradizionale con apertura del torace, impianto della circolazione extracorporea, raffreddamento a 16 gradi ed arresto della circolazione per 30-40 minuti per consentire il reimpianto delle arterie che portano sangue al cervello dopo avere sostituito il tratto di aorta malato. Grazie a questa protesi su misura di nuovissima concezione, inserita in modo non invasivo attraverso una arteria periferica della gamba e due piccoli accessi chirurgici a livello del collo, è stato invece possibile impiantare una prima protesi endovascolare nel tratto dell’aorta dilatato a livello dell’arco ed in rapida sequenza, dal collo, delle protesi endovascolari di calibro più piccolo che sono state inserite in apposite fessure sulla prima protesi”.

Con questa tecnica innovativa è stato quindi possibile sostituire con successo e con una invasività molto ridotta una patologia estremamente complessa e delicata in un tratto dell’aorta che fino a ieri sembrava impossibile poter trattare diversamente.

La chirurgia della aorta in tutto il suo decorso e particolarmente nel tratto dell’arco, del torace e dell’addome è da sempre uno dei fiori all’occhiello della Chirurgia Cardio-Vascolare dell’ospedale Mauriziano. Le competenze e la collaborazione attiva che da quasi 20 anni c’è tra la Chirurgia Vascolare del dottor Franco Nessi e del dottor Michelangelo Ferri, la Cardiochirurgia del dottor Stefano Del Ponte, l’Anestesia Cardio-vascolare della dottoressa Gabriella Buono e la Cardiologia della dottoressa Maria Rosa Conte ha permesso di realizzare nella Sala Operatoria Ibrida di cui è dotato il Mauriziano questa eccezionale operazione.

La preparazione all’intervento ha richiesto un training presso la sede dell’azienda a Barcellona che ha realizzato la protesi: il dottor Michelangelo Ferri, chirurgo vascolare e coordinatore dell’équipe, si è recato nei laboratori dell’azienda produttrice, dove insieme ad ingegneri e colleghi internazionali di grande esperienza ha seguito una formazione ad hoc. Il dottor Marco Comis, anestesista cardio-vascolare, ha seguito il training riguardante la gestione del paziente e la preparazione degli strumenti di sala operatoria partecipando, a Parigi, all’impianto di una di queste protesi innovative.

All’interno della moderna “sala ibrida” (una sala operatoria attrezzata con le più avanzate tecnologie radiologiche) del blocco operatorio cardio-vascolare, per la prima volta una équipe multidisciplinare (dottor Innocenzo Scrocca, cardiologia, dottor Andrea Viazzo e dottor Giuseppe Berardi, chirurgia vascolare e dottor Stefano Del Ponte, cardiochirurgia) ha eseguito l’impianto di questo dispositivo.

L’intervento è stato eseguito secondo i piani previsti ed è tecnicamente riuscito. Il paziente è stato svegliato poche ore dopo la fine dell’intervento e trasferito in un reparto di degenza ordinaria già in prima giornata post-operatoria, potendo riprendere rapidamente tutte le normali attività.


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Se i piatti a base di verdure hanno nomi “seduttivi” gli adulti tendono a mangiarne di più, anche se poi la pietanza servita è la stessa.

Il “trucco” per aumentare il consumo è stato scoperto da uno studio della Stanford university pubblicato da Jama Internal Medicine.

L’esperimento si è svolto in una delle caffetterie dell’università, con circa 600 clienti al giorno, durante la stagione autunnale. Ogni giorno lo stesso piatto a base di verdure veniva proposto con un nome “basic”, come ad esempio “carota”, oppure “salutare restrittivo”, come “carote con condimento al limone senza zucchero”, “salutare positivo”, come “carote e limone smart con vitamina C” o “seducente”, come “carote attorcigliate glassate al lime”.

Al termine dell’esperimento si è visto che il nome accattivante portava a un consumo maggiore del 25% rispetto a quello “basic”, maggiore del 41% rispetto a quello “salutare restrittivo” e del 35% rispetto al “salutare positivo”.

La tendenza, spiega lo studio, si è ripetuta per tutte le verdure scelte, dalle “rape dinamite” ai “fagioli frizzanti”. «Il fenomeno si spiega se si pensa alla psicologia della scelta del cibo» scrivono gli autori «gli studi mostrano che quando le persone fanno una scelta sul cibo sono motivate soprattutto dal gusto, e tendono a giudicare le opzioni più salutari come meno gustose».

ANSA


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E’ stato un gruppo di ricercatori russi a mettere a punto un algoritmo matematico basato su 4 parametri biologici, facilmente misurabili attraverso una tonometria e un ecodoppler delle carotidi, che riesce a stimare l’età biologica con grande accuratezza. Fino ad oggi era possibile ‘dare gli anni’ ad una persona solo attraverso sofisticate analisi sul DNA che non trovano applicazione nella pratica clinica perché costose e indaginose

Età anagrafica ed età biologica non necessariamente coincidono. Ma mentre per conoscere la prima è sufficiente dare un’occhiata alla carta d’identità di una persona, per valutare la seconda non esistono metodi standardizzati. Eppure secondo gli autori di una ricerca appena pubblicata su Aging, riuscire a determinare l’età biologica degli individui giocherà un ruolo importante nel campo della medicina anti-aging.

Autori dello studioappena pubblicato sono dei ricercatori dell’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt dell’Accademia Russa delle Scienze, del Centro Ricerche Cliniche per la Gerontologia, dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca e altri centri di ricerca. Lo studio invece è stato condotto presso il Centro Nazionale Ricerche per la Medicina Preventiva e presso il Centro di Gerontologia.

“Ricercatori di tutto il mondo – ricorda Alexey Moskalev, direttore del Laboratorio di Genetica dell’Invecchiamento e della Longevità presso il Centro dei Sistemi Viventi del MIPT – hanno a lungo tentato di trovare un modo per stimare l’età biologica; le tecniche attualmente più accurate sono quelle che si basano sull’analisi del DNA (‘orologio epigenetico’) e possono stimare l’età biologico dell’uomo con un errore medio di tre anni. Si tratta però di analisi costose che richiedono personale di laboratorio esperto e dedicato; e questo è il motivo per cui non vengono utilizzate nella pratica clinica quotidiana”.

Per questo studio invece i ricercatori si sono basati su informazioni relative a parametri che riflettono il funzionamento dell’apparato cardiovascolare e in particolare: lo spessore della parete carotidea, la velocità dell’onda di polso, il diametro del lume carotideo (grado di stenosi) e l’indice di augmentation (ovvero la differenza tra il secondo e il primo picco pressorio dell’onda di polso). Ognuno di questi indici rappresenta un marcatore validato di aterosclerosi, ipertensione, diabete e altre condizioni. Ma questo studio li ha messi insieme in un modello matematico finalizzato a determinare l’età biologica.

Per validare questo algoritmo sono stati arruolati 303 soggetti (199 donne e 104 uomini), di età compresa tra i 23 e i 91 anni. “Per lo studio – afferma il primo autore Alexander Fedintsev, bioinformatico presso l’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt – abbiamo utilizzato un’analisi di regressione non lineare e abbiamo attinto, per la selezione di questi parametri, ad un ampio database con una varietà di biomarcatori. Questo ci ha aiutato a mantenere un basso tasso di errore nel predire l’età biologica, nonostante il fatto che il modello utilizzato sia piuttosto semplice e compatto. Oltre ad essere discretamente accurato, questo modello fornisce anche una facile interpretazione dei risultati”.

Per validare questo modello, i ricercatori hanno confrontato le loro stime di età biologica con i dati ottenuti attraverso altre tecniche per valutare lo stato di un organismo e con altre tecniche di processamento dei dati.

“Avendo utilizzato il sistema cardiovascolare come unica fonte di informazioni – afferma Olga Tkacheva, direttore del Centro di Ricerca Clinico Russo di Gerontologia – sono necessarie ulteriori ricerche, basate su altri fattori, per raffinare le stime dell’età biologica. Tuttavia recenti ricerche hanno dimostrato che la relazione tra lo stato dei vasi sanguigni e l’età biologica è ancora più forte rispetto a quella tra lo stato dei vasi e la composizione chimica del sangue”.


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