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Il 17 marzo è la Giornata Mondiale del Sonno. L’obesità già nel bambino e poi nell’adulto e una serie di malattie croniche che insorgono nell’età adulta come l’insulino-resistenza, il diabete mellito di tipo 2 e i disturbi cardiovascolari, sono alcune delle patologie che si rischiano quando fin da bambini si dorme troppo poco

L’obesità già nel bambino e poi nell’adulto e una serie di malattie croniche che insorgono nell’età adulta come l’insulino-resistenza, il diabete mellito di tipo 2 e i disturbi cardiovascolari, sono alcune delle patologie che si rischiano quando fin da bambini si dorme troppo poco.

La Giornata Mondiale del Sonno (che viene convenzionalmente fissata ogni anno il venerdì prima dell’equinozio di primavera) ha il compito di porre in  luce l’importanza del dormire in modo corretto per la salute dell’individuo.

La Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) ha effettuato un’indagine sulle abitudini nell’età compresa tra 1 e 14 anni. I risultati di questo progetto, chiamato “Ci piace sognare”, hanno evidenziano che solo il 68,4 per cento dei bambini dorme in modo adeguato.

“Una riduzione sistematica e prolungata del sonno, oltre alle classiche conseguenze come sbalzi di umore, irritabilità e difficoltà di concentrazione – sottolinea Paolo Brambilla, Coordinatore Gruppo di lavoro della Sipps “Obesità e stili di vita” – sembra essere associata allo sviluppo di patologie croniche: non solo obesità e insulino-resistenza, ma anche diabete mellito di tipo 2, disturbi cardiovascolari. L’analisi degli studi pediatrici mostra poi come per ogni ora di sonno in più il rischio di sovrappeso e obesità risulti ridotto in media del 9%. Studi epidemiologici suggeriscono infatti che soggetti, sia adulti che bambini, tendono ad avere un maggiore indice di massa corporea (Bmi), una maggiore percentuale di grasso corporeo e una maggiore circonferenza della vita nei confronti di chi rispetta le ore di sonno raccomandate. Anche la regolarità, e non solo la durata media, del sonno sarebbe importante a fini preventivi”.

Nell’associazione tra diminuzione delle ore di sonno e aumentato rischio di obesità si innescano diversi meccanismi: aumento dell’appetito, dovuto ad un’alterazione dei neuropeptidi coinvolti nella regolazione dell’appetito stesso; aumento del tempo disponibile per assumere alimenti ricchi di calorie durante la giornata; stanchezza e riduzione dell’attività fisica.

I pediatri consigliano alcune linee guida variabili a seconda dell’età: i bambini fino a 12 mesi hanno bisogno di dormire 14-18 ore durante il giorno e la notte; i bambini dopo l’anno e per tutta l’età prescolare hanno bisogno di dormire 12-14 ore distribuite nelle 24 ore; i bambini che frequentano la scuola primaria hanno bisogno di dormire 10-12 ore al giorno.

Oltre alla durata, conta anche la qualità del sonno, e qui l’indagine ha mostrato che solo il 47% dei bambini di età compresa tra 1 e 2 anni si addormenta nel proprio letto. Questa percentuale sale progressivamente con l’età, arrivando all’87% a 10-13 anni. I bambini che si addormentano nel lettone (ben il 39% a 1-2 anni) si riducono con il crescere dell’età, ma sono comunque ancora il 26% a 5-6 anni e il 20% a 7-9 anni. Un 10% circa di bambini ad ogni età si addormenta in un’altra stanza (ad esempio sul divano in salotto). Inoltre il 13,1% dei bambini cambia letto durante la notte (dal proprio a quello dei genitori).

“Il sonno – spiega Elvira Verduci, componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) – è un processo fondamentale nella vita di ogni individuo e in età pediatrica contribuisce alla salute e alla crescita del bimbo. E’ recente l’ipotesi di una possibile associazione tra ridotta durata del sonno ed obesità. I cambiamenti dello stile di vita, con impegni legati soprattutto agli orari di lavoro, hanno reso comune l’abitudine di dormire meno”.

“Importante compito del pediatra e dei genitori –  conclude Giuseppe Di Mauro, Presidente Sipps – è quindi quello di educare fin dai primi anni di vita non solo a corrette scelte alimentari ma anche a corretti stili di vita quali un’adeguata attività fisica ed un’abitudine regolare al sonno sia in termini di qualità che di quantità. Le indicazioni riguardo una corretta igiene del sonno sono solo un aspetto di quello che è un più ampio discorso su un corretto stile di vita: considerare nella valutazione anamnestica di un bambino anche la tipologia di sonno è fondamentale nell’inquadramento generale del piccolo”.


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Si tratta di una bambina di due anni e mezzo, nata con un solo rene, il sinistro, perché il destro non si è mai sviluppato. Purtroppo anche il rene sinistro presentava un’anomalia congenita all’uretere, il condotto che unisce e trasporta l’urina dal  rene alla vescica. Ora l’urina passa regolarmente dal rene alla vescica attraverso l’appendice. L’intervento rivoluzionario è stato effettuato presso l’Urologia pediatrica dell’ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute

Per la prima volta è stato sostituito l’uretere con l’appendice ad una piccola bimba nata con un rene solo, per di più affetto da una grave e rarissima anomalia congenita. Ora l’urina passa regolarmente dal rene alla vescica attraverso l’appendice. L’intervento rivoluzionario è stato effettuato presso l’Urologia pediatrica dell’ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute di Torino.

Si tratta di una bambina di due anni e mezzo, nata con un solo rene, il sinistro, perché il destro non si è mai sviluppato. Purtroppo anche il rene sinistro presentava un’anomalia congenita all’uretere, il condotto che unisce e trasporta l’urina dal  rene alla vescica. Per questo motivo la bambina è stata sottoposta ripetutamente in un altro ospedale italiano ad interventi per correggere questa anomalia.  Gli interventi non hanno avuto successo e l’uretere è andato incontro ad un processo di atresia completa, cioè si è ridotto ad un sottile cordone fibroso.

Quando la bambina è giunta all’ospedale Infantile Regina Margherita di Torino, il suo unico rene era drenato da un tubo che portava l’urina all’esterno del corpo e da cui dipendeva la sopravvivenza della bambina. Una ostruzione del tubo o, peggio ancora, una sua accidentale dislocazione o rimozione, avrebbero avuto come conseguenza immediata lo sviluppo di una insufficienza renale acuta.

Il problema era quindi di sostituire l’uretere mancante. Ma in questo caso l’uretere mancante era a sinistra, rendendo più difficile pensare di sostituirlo con un viscere localizzato sul lato destro. I precedenti tentativi di sostituzione dell’uretere sinistro con l’appendice non sono più di due o tre al mondo e si tratta, comunque, di casi di sostituzione parziale.

Nel corso dell’intervento, effettuato da Emilio Merlini (Direttore di Urologia Pediatrica della dell’ospedale Regina Margherita di Torino), è stato possibile isolare l’appendice insieme ad un piccolo tratto di parete dell’intestino cieco e trasportarla dal lato destro, facendola passare al di sotto del mesentere del colon discendente sino al lato sinistro della bambina. L’appendice, fortunatamente, era lunga e dritta, per cui si è riusciti a collegarla al bacinetto del rene da un lato ed ad attaccarla alla vescica, in basso, coprendo la distanza tra il rene e la vescica e sostituendo, così, tutto l’uretere mancante. Il postoperatorio è stato privo di complicanze ed il controllo radiografico predimissioni ha consentito di visualizzare un normale passaggio dell’urina dal rene alla vescica.

La bambina è ritornata a casa, dove si sta riabituando ad una vita normale, senza l’incubo di essere collegata al tubo esterno che ne garantiva la sopravvivenza.


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Il glaucoma nel mondo colpisce oltre 60 milioni di persone, di cui 1 milione in Italia, ed è causa del 12% di tutti i casi di cecità.

Dal 12 al 18 marzo si celebra la settimana mondiale dedicata a questa patologia, già descritta nelle opere di Omero ed Ippocrate, che provoca danni progressivi al nervo ottico, e si stima crescerà nei prossimi anni.

La forma più comune di glaucoma, spesso associata all’aumento della pressione all’interno dell’occhio, può svilupparsi senza sintomi e provocare la perdita permanente della vista. I pazienti si accorgono solo tardivamente ma, se diagnosticata in tempo, la malattia può essere controllata e se ne può rallentare la progressione. Oltre all’aumento della pressione oculare, ci sono altri fattori di rischio, come l’età, la razza, la familiarità, la patologia cardiovascolare e l’uso indiscriminato di colliri cortisonici.

«Circa un milione di Italiani è affetto da glaucoma, ma molti di loro non sanno di averla», spiega Luca Mario Rossetti, direttore della Clinica Oculistica dell’Università degli Studi di Milano all’Ospedale San Paolo. Questo accade perché «la patologia è asintomatica, quindi la diagnosi è quasi sempre tardiva.

Basterebbero 15 minuti per una visita completa che consenta di controllare la pressione dell’occhio e l’aspetto del nervo ottico».

ANSA


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Molto social sul web, poco social nella vita quotidiana. La triste equazione emerge da uno studio recentemente pubblicato dall’American Journal of Preventive Medicine. Chi è molto attivo sui social media vive il contrappasso di non avere il senso di appartenenza a una comunità.

Brian Primack, direttore del Center for Research on Media, Technology and Health presso l’Università di Pittsburgh, ha condotto uno studio per valutare quanto il tempo trascorso dagli utenti dei servizi come Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, Reddit, Vite e LinkedIn potesse condizionare un eventuale isolamento sociale.

Il team di Primack ha registrato come rispetto alle persone che trascorrono non più di mezz’ora sui social media ogni giorno, coloro che dedicano almeno due ore al giorno ai social media riferiscano l’esperienza della sensazione di isolamento in una percentuale quantificabile intorno al 50%. “Questi risultati dovrebbero essere considerati come un ammonimento”- ha detto Primack – considerando che l’isolamento sociale è associato ad un peggioramento generale dello stato di salute con possibilità di esacerbazione di alcuni sintomi di malattie diverse e con rischi di riduzione della sopravvivenza”.

I ricercatori hanno esaminato 1.787 adulti di età compresa tra 19 e 32 anni nel 2014 e il loro uso delle 11 piattaforme di social media più popolari al momento: Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Snapchat, Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine e LinkedIn. Circa la metà dei partecipanti erano uomini e l’altra metà donne, selezionati sulla base dei dati demografici degli Stati Uniti. Più della metà sono stati impegnati in relazioni interpersonali. Circa il 26% dei partecipanti ha detto che trascorreva più di due ore al giorno sui social media, e circa il 23% ha detto di aver visitato i social almeno 58 volte nel corso della settimana. I visitatori più assidui, avevano circa il triplo delle probabilità di percepire isolamento sociale rispetto a coloro che si collegavano i ai social media meno di nove volte a settimana.

Le conclusioni
Lo studio non prova direttamente che i social media provochino l’isolamento, ed è possibile che, nello studio, le persone che già sentivano meno in contatto con altre nella vita reale abbiano speso più tempo sui social. E’ difficile definire esattamente le motivazioni di questi risultati e diverse sono le spiegazioni plausibili. Una è rappresentata dal fatto che le persone che trascorrono molto tempo sui social media non abbiano poi molto tempo da trascorrere per socializzare nella vita reale. E’ anche possibile che i partecipanti allo studio non avessero una precisa percezione del tempo trascorso sui media e le loro percezioni potrebbero essere diverse da quelle delle persone anziane. In conclusione Primack spera che i risultati dello studio possano aiutare tutti i frequentatori dei social media a considerare il tempo speso in maniera più critica e consapevole così da poterne trarre dei reali benefici.

Fonte: Am J Prev Med 2017 
Lisa Rapaport


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Troppe docce, poca idratazione e abuso di pomate con il cortisone: sono tra gli errori più diffusi commessi da chi soffre di dermatite atopica, soprattutto in forma grave. Una malattia per cui però presto saranno disponibili nuovi farmaci, come segnala Ketty Peris, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Dermatologia del Policlinico Gemelli di Roma, sul sito internet Prevenzione-Salute.it.

La malattia si manifesta con eruzioni cutanee e prurito, che diviene insopportabile, tanto da provocarsi graffi e lacerazioni, per poi passare al dolore. Le cause che la scatenano non sono però state ancora ben comprese. Chi ne soffre commette spesso errori nel trattamento, come «sottoporsi a frequenti docce – commenta Peris – Ci si lava in maniera eccessiva, senza considerare che l’acqua secca molto la pelle, e quindi può avere un effetto negativo. Dopo ogni doccia sarebbe bene idratarsi in maniera adeguata». Alcuni pazienti, aggiunge il medico, non usano una giusta quantità di crema o spesso usano prodotti dannosi, non di qualità. E anche un uso eccessivo di creme può essere un errore. Ci sono molti farmaci nuovi in arrivo che si somministreranno sotto cute, conclude, ”che saranno presto in commercio».

ANSA


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Settantacinque anni fa, con il primo paziente salvato dalla penicillina, iniziava l'”era degli antibiotici”. A ricevere il farmaco il 14 marzo del 1942 fu Anne Miller, un’infermiera del Connecticut. La donna si presentò all’ospedale di New Haven con una febbre altissima da diversi giorni per un’infezione da streptococco.

Pur essendo stata scoperta nel 1928 da Fleming, la penicillina era stata usata solo in test su uomini e animali soprattutto in Gran Bretagna, dando risultati non soddisfacenti.

I medici che curavano Miller, dopo aver provato con trasfusioni di sangue e interventi chirurgici, riuscirono a ottenerne un cucchiaio dal governo, metà della scorta presente negli Usa in quel momento, e videro un miglioramento netto già nella notte.

«Pur avendo tutti questi anni di attività la penicillina si usa ancora per alcune malattie – sottolinea Massimo Andreoni, docente di Malattie Infettive dell’università di Tor Vergata di Roma -, anche se con il tempo i germi hanno “imparato” come difendersi. In realtà già all’epoca era chiaro che ciò si sarebbe verificato e sarebbe stato necessario studiare nuove armi».

ANSA


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Nel pomeriggio, dalle ore 16,00 alle ore 20,00, sarà presente un’esperta estetista che, oltre a truccare gratuitamente, potrà suggerire tecniche e segreti per un make-up strepitoso.

Nell’occasione, sarà riservato un particolare sconto sull’acquisto dei prodotti per il trucco delle Linee La Roche Posay, Vichy, EuPhidra (non cumulabile con altre promozioni in corso).

Prenota la tua seduta trucco gratuita, rivolgendoti alla responsabile del Reparto DermoCosmetico, la dott.ssa Valentina.


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Cicoria, carciofi, aglio crudo, porri e cipolle. Questi alcuni cibi che possono essere “amici” del sonno e che smorzano gli effetti dello stress.

Questi alimenti contengono infatti i prebiotici (da non confondere con i più noti probiotici) che fanno da “cibo” per i batteri buoni dell’intestino e favoriscono un buon riposo e una migliore reazione alle situazioni stressanti.

A evidenziarlo uno studio della University of Colorado a Boulder, pubblicato sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience. La ricerca è stata svolta su dei topi in laboratorio. I ratti, di tre settimane, sono stati nutriti con cibi semplici o ricchi di prebiotici. I ricercatori hanno poi monitorato la temperatura corporea, i batteri intestinali e i cicli sonno-veglia, con un esame apposito, l’elettroencefalografia.

Dai risultati è emerso che i topi alimentati con una dieta a base di prebiotici trascorrevano più tempo nella fase Rem del sonno, quella considerata più ristoratrice. Anche sottoposti a stress, i topi nutriti con prebiotici continuavano a mantenere questo beneficio, oltre a conservare un microbiota sano, cioè una composizione equilibrata dei batteri a livello intestinale, e normali fluttuazioni nella temperatura corporea.

Secondo l’autrice principale dello studio, Monika Fleshner, è prematuro raccomandare supplementi di prebiotici come aiuto per un buon sonno, ma nulla vieta di assumere questi elementi dai cibi. Non fa male e anzi può essere un aiuto.

ANSA


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Salgono a due milioni le dichiarazioni di volontà registrate nel Sistema informativo trapianti e rilasciate dai cittadini attraverso le Asl, l’Aido e i Comuni.

Sono quest’ultimi ad aver avuto un ruolo fondamentale nell’incentivare gli italiani ad esprimersi sulla donazione e a rilasciare il proprio volere: negli oltre 1.600 Comuni che hanno attivato la procedura di registrazione della dichiarazione di volontà in occasione del rinnovo della carta d’identità sono state, infatti, più di 500mila le persone che hanno scelto di dire la propria sulla donazione. E nell’88% dei casi si è trattato di un “sì”.

Dei due milioni di manifestazioni di volontà custodite nel Sistema Informativo Trapianti il 26% è stato trasmesso dagli uffici anagrafe dei Comuni mentre la maggior parte delle dichiarazioni (66%) proviene dagli atti olografi rilasciati all’Aido, la principale associazione di settore che da decenni lavora al fianco delle istituzioni per sensibilizzare i cittadini sui temi della donazione e del trapianto. L’8% delle espressioni di volontà è stato rilasciato presso le Asl.

Ma la mappa dei Comuni che hanno avviato questo servizio è ancora a macchia di leopardo. “Nel 21% delle amministrazioni comunali di tutta Italia – ha affermato Alessandro Nanni Costa, Direttore del Centro Nazionale Trapianti – è possibile fare una scelta importante quando si rinnova il documento di identità. Il nostro auspicio è di arrivare presto ad una copertura nazionale, anche grazie all’introduzione della Carta d’Identità Elettronica già adottata in via sperimentale da circa 200 Comuni, tra cui Firenze e Napoli”.

I dati raccolti sono più che incoraggianti, ha aggiunto, e dicono che questo meccanismo funziona perché “mette in circolo una comunicazione costante e diretta con i cittadini. E per Costa ci sono “margini di miglioramento notevoli soprattutto nell’incrementare il rapporto esistente tra carte d’identità emesse e dichiarazioni rese, oggi fermo al 10-15%”.

Le Regioni e le città più virtuose
La Provincia Autonoma di Bolzano, l’Umbria, la Toscana e l’Emilia Romagna sono le Regioni che presentano il numero più elevato di Comuni che hanno attivato questa procedura. Tra i Comuni con oltre 50mila abitanti e che hanno raccolto almeno 5mila dichiarazioni di volontà, Terni, Cesena e Genova sono le città con il maggior numero di consensi alla donazione (rispettivamente: 98.8%, 98.5% e 96.9%).


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Tv accesa e pasti non preparati a casa. Un binomio da evitare se si vuole mantenere la linea.

Gli adulti che non guardano la tv durante i pasti e mangiano cibo per lo più cucinato in casa, hanno molte meno probabilità di altri di essere obesi. La conferma arriva da un recente studio condotto negli USA. Già diversi studi avevano messo in evidenza come il consumo dei pasti in famiglia siano correlati a un rischio minore di obesità. I 12.000 partecipanti a quest’ultimo studio, tutti residenti in Ohio, hanno fatto registrare l’importanza di un altro aspetto nella riduzione rischio di obesità, a prescindere dalla consumazione o meno del pasto in famiglia: la televisione spenta.

Il team di ricerca ha analizzato i dati di 12.842 adulti che avevano consumato almeno un pasto in famiglia la settimana precedente lo studio. Circa un terzo aveva un indice di massa corporea di 30 o più. I partecipanti hanno poi risposto a domande sulle loro abitudini: quanto spesso consumassero i pasti a casa con la propria famiglia, quanto spesso guardassero la tv durante i pasti e se i pasti stessi fossero stati preparati in casa. Nel complesso, il 52% degli intervistati aveva mangiato pasti in famiglia per sei o sette giorni alla settimana, il 35% lo aveva fatto un giorno sì e uno no e il 13% solo uno o due giorni.

Circa un terzo degli adulti aveva guardato la tv durante la maggior parte dei pasti in famiglia, mentre un altro 36% non lo aveva fatto. Per il 62% degli adulti tutti i pasti consumati in famiglia erano cucinati in casa. I ricercatori hanno rilevato che il numero di pasti consumati con la loro famiglia non era correlato alla probabilità di essere obesi.

Gli adulti che cucinavano e consumavano in casa tutti i loro pasti avevano tuttavia il 26% di probabilità in meno di essere obesi rispetto a chi faceva diversamente.

Le persone che guardavano la televisione durante i pasti presentavano una probabilità inferiore del 37%  di essere obesi rispetto a quelli che guardavano sempre la TV.


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