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Il Ministero della Salute ha pubblicato i dati relativi alla copertura nazionale e regionale per la vaccinazione Hpv nella popolazione femminile. La rilevazione si riferisce all’anno 2015 e mostra un decremento, anche se lieve, di questa particolare vaccinazione. Il calo risulta più drastico se si paragonano i dati relativi alle bambine che oggi hanno raggiunto l’età prevista per questa vaccinazione e quelli delle nate vent’anni fa.

Calano le adolescenti che si vaccinano contro il papilloma virus. Nel giro di 12 mesi, tra il 2014 e il 2015, il decremento è stato quasi dell’1%. Settanta giovani su cento hanno usufruito di questo tipo di vaccinazione, una percentuale molto al di sotto della soglia del 95%, prevista dal Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale. Il divario aumenta ulteriormente se si analizzano soltanto i dati relativi alla prima dose e non al ciclo completo.

Nel 2014, il 75,2% delle ragazze aveva fatto almeno la prima dose del vaccino Hpv, l’anno successivo la percentuale è calata al 73,1%. La vera diminuzione di copertura vaccinale può essere osservata andando più indietro con il tempo, paragonando i dati attuali con quelli di coloro che sono venuti alla luce quasi due decenni fa: tra le ragazze nate tra il 1997 e il 2001 circa 8 su 10 hanno infatti fatto ricorso alla vaccinazione Hpv. I dati sono stati raccolti attraverso la scheda di rilevazione delle coperture vaccinali inviata annualmente dal Ministero della Salute alle Regioni

Chi ha diritto al vaccino gratuito
Dal 2007, questo vaccino è gratuito per le bambine fino al dodicesimo anno di vita (undici anni compiuti), in tutte le Regioni italiane. In alcune Regioni è stato deciso di estendere la copertura gratuita anche in altre fasce di età. Le Regioni Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, invece, offrono il vaccino a tutti coloro, a prescindere dal sesso e dall’età, che risultino Hiv positivi. Via libera per i maschietti, sempre fino a dodici anni, in Sicilia, Puglia, Liguria, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Attualmente, a seconda dei luoghi, può variare l’anno di nascita da cui si individuano gli aventi diritto. Ad esempio, in diverse realtà, questo beneficio spetta ai bambini nati dal 2004 in poi, ma non è una regola generale.

Questa possibilità, grazie al nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 2017-2019 e i nuovi LEA – di cui è attesa la pubblicazione in Gazzetta ufficiale – potrebbero essere estesi anche a tutti i bambini di sesso maschile, di qualunque regione italiana, fino al dodicesimo anno di vita. La piena operatività di questa decisione è prevista nel corso del prossimo anno.


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L’uso di sostanze come estasy e speed accelera i processi di invecchiamento del cuore. Questo fenomeno sarebbe alla base dell’elevata incidenza di patologie cardiovascolari nelle persone che ne sono dipendenti.

Secondo quanto suggeriscono i risultati di un nuovo studio pubblicato da Heart Asia, gli adulti di mezza età che fanno uso di anfetamine come speed o ecstasy, a scopo ricreativo, possono sviluppare precocemente dei problemi cardiaci come quelli normalmente associati all’invecchiamento.

“Queste sostanze sono già state correlate a infarto, ictus, danni della parete arteriosa, anomalie del ritmo cardiaco e morte cardiaca improvvisa”, dice l’autore principale dello studio, Stuart Reece, della University of Western Australia a Crawley. “E’ plausibile dunque pensare che tutti questi diversi aspetti siano collegati da un’accelerazione dei sottostanti effetti dell’invecchiamento”.

Lo studio
Per questo studio, i ricercatori hanno misurato il flusso di sangue attraverso un’arteria principale nella parte superiore del braccio e dell’avambraccio in 713 persone tra i 30 e i 40 anni, selezionati tra i degenti di una clinica per abuso di sostanze. I pazienti sono stati divisi in quattro gruppi: non fumatori, fumatori, consumatori di anfetamine e di metadone. I ricercatori hanno utilizzato un sistema di monitoraggio della pressione arteriosa attraverso il posizionamento di un bracciale in ogni partecipante, per calcolare l’età vascolare biologica e hanno abbinato il grado di indurimento delle arterie con l’età cronologica, il sesso e l’altezza.

Quasi tutti i 55 consumatori di anfetamine inclusi nello studio avevano usato questi stimolanti durante la settimana precedente all’osservazione, e circa la metà lo avevano fatto nel giorno precedente alle misurazioni della pressione con il bracciale. Come hanno segnalato i ricercatori, si è visto che anche dopo aver considerato diversi fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, come il peso, i livelli di colesterolo e l’infiammazione, l’abuso di anfetamine era ancora associato in modo indipendente con un avanzamento dell’età cardiovascolare.

E l’invecchiamento accelerato, osservato con le anfetamine, sembrava essere ancora più pronunciato di quanto si verifica con l’uso del tabacco, ed era equivalente a circa un aumento del 25% rispetto all’età cronologica. In altre parole – concludono i ricercatori – ad un età media di 40 anni, si aggiungeva un avanzamento dell’invecchiamento di 10 anni.

Fonte: Heart Asia 2017


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Uno studio condotto sui topi ha mostrato che, grazie a un vettore di virus sintetici, è possibile introdurre nell’orecchio geni in grado di “riparare” l’udito. Sulla base di queste evidenze, un secondo team di ricerca ha ripetuto con successo l’esperimento.

La terapia genica può restituire l’udito. Al momento il successo è stato registrato nel modello animale, in particolare nei topi, ma i ricercatori sono convinti di poter applicare la scoperta anche sull’uomo. L’esperimento è stato condotto dal team guidato da Likas Landegger, della Harvard Medical School di Boston.

Un lavoro precedente di questo stesso gruppo di ricerca aveva dimostrato che la terapia genica era in grado di restituire un udito di base a topi geneticamente sordi. per il nuovo studio è stato messo a punto un vettore di virus sintetici adeno-associati Anc80L65, che va a colpire sia le cellule ciliate interne ed esterne che si trovano nella coclea. L’iniezione del vettore in questa parte dell’orecchio era ben tollerata e la funzione uditiva non rimaneva danneggiata “Anc80L65 è un vettore affidabile per il rilascio genico nell’orecchio interno – afferma Landegger – e i dati raccolti mostrano una conservazione dell’udito e della funzione vestibolare nei topi coinvolti”.

Sulla base di queste evidenze, un altro team di ricerca, guidato da Gwenaelle Geleoc del Boston Children’s Hospital, ha utilizzato Anc80L65 per rilasciare una versione corretta del gene per la sindrome di Usher di tipo 1C (Ush1c c.216G>A) nell’orecchio interno dei topi nati laboratorio con una versione difettosa del gene. Le cellule ciliate interne ed esterne nella coclea hanno iniziato a produrre livelli normali di armonina – una proteina che media la trasduzione nelle cellule ciliate – e hanno formato fasci normali che rispondevano alle onde sonore. Inoltre, i topi sordi trattati immediatamente dopo la nascita tornavano a sentire, come dimostrato dalle risposte a rumori forti in una gabbia che fa sobbalzare. Ulteriori test hanno mostrato che tali animali erano anche in grado di reagire a suoni deboli; 19 dei 25 topi sono riusciti a udire suoni al di sotto degli 80 decibel e pochi hanno captato suoni da 25 a 30 decibel, come i topi normali. In più, la terapia ha ridato equilibrio alle cavie con disfunzione vestibolare.

Fonte: Nature Biotechnology 2017


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Uno studio neozelandese apre un fronte in parte inedito nel campo della depressione in gravidanza, dimostrando che a soffrirne è anche un numero significativo di maschi, sia durante che nel post-partum. Una situazione che può passare inosservata se non ricercata proattivamente e che può avere pesanti ripercussioni sullo sviluppo cognitivo e psico-sociale del figli

La gravidanza è un periodo assai delicato nella vita di una donna che può sfociare nella depressione post-partum, ancora troppo spesso non riconosciuta e dunque non adeguatamente gestita. Ma adesso uno studio pubblicato da ricercatori neozelandesi su JAMA Psychiatry, attira l’attenzione sui rischi che una gravidanza può comportare anche per l’altro partner.

L’équipe di ricerca guidata da Lisa Underwood dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda) ha già pubblicato numerosi studi sulla depressione delle madri, ma questa è la prima volta che affronta il problema da questo diverso angolo.

Lo studio appena pubblicato ha ricercato la presenza di sintomi della depressione prima della gravidanza e nel post-partum in un gruppo di 3.523 maschi, di età media 33 anni, che hanno effettuato un’intervista con i ricercatori neozelandesi mentre la compagna si trovava al terzo trimestre di gravidanza, ripetendola poi a distanza di 9 mesi dalla nascita del bambino.

La ricerca ha portato ad appurare che il 2,3% dei padri presentavano sintomi depressivi importanti in epoca pre-concepimento e che il 4,3% presentava una sintomatologia depressiva di rilievo a 9 mesi dalla nascita.

Nel corso della gravidanza, la presenza di gravi sintomi di depressione tra i maschi era correlata con lo stress e con una condizione di salute precaria; nel post-partum la depressione dei padri era invece correlata con lo stress patito durante la gravidanza , con l’eventuale rottura della relazione con la madre, con la presenza di problemi di salute, con il fatto di essere disoccupato o di avere una storia di depressione alle spalle.

“E’ solo di recente – sottolineano gli autori dello studio – che l’influenza dei padri sui figli è stata riconosciuta vitale per lo sviluppo adattativo psico-sociale e cognitivo. Visto che la depressione paterna può avere un effetto diretto o indiretto sulla prole è importante individuarne la presenza e trattarne i sintomi da subito; e ovviamente il primo passo da fare è quello di aumentare la consapevolezza del problema tra i padri.”


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La vitamina D protegge contro raffreddori e influenza.

Lo dimostra in via definitiva un ampio studio di portata globale diretto da scienziati della Queen Mary University di Londra (QMUL) e pubblicato sul British Medical Journal.

Gli effetti protettivi indotti da un’integrazione di vitamina D sono risultati tanto maggiori quanto più un individuo è carente di questa vitamina (fino a dimezzare il rischio di infezioni delle vie respiratorie), ma gli effetti – anche se più modesti – si vedono pure su individui non carenti di vitamina D (-10% di rischio infezioni).

Complessivamente gli autori del lavoro hanno stimato che l’efficacia protettiva della vitamina D contro infezioni respiratorie acute è pari a quella del vaccino anti-influenzale. La ricerca è stata condotta attraverso l’analisi di dati relativi a circa 11.000 persone che hanno preso parte in 25 trial clinici condotti in 14 paesi (inclusa l’Italia). È emerso che effettivamente l’integrazione di questa vitamina – che il corpo riesce a produrre in autonomia solo quando ci si espone al sole – protegge da infezioni delle vie respiratorie, probabilmente stimolando la produzione di antimicrobici nei polmoni.

Lo studio è coerente col fatto che le infezioni respiratorie sono tipiche dei mesi freddi quando siamo meno esposti alla luce solare.

ANSA


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Mangiare meno aiuta a rallentare l’invecchiamento, si sa. Ma ora si è capito meglio il perché: con meno calorie rallenta l’attività dei ribosomi (gli organelli cellulari che producono le proteine necessarie al funzionamento della cellula), che hanno così il tempo di autoripararsi e lavorare meglio, mantenendo cellule e corpo ben funzionanti più a lungo, e rallentando così il processo di invecchiamento.

Lo rileva uno studio della Brigham Young University dello Utah, pubblicato sulla rivista Molecular & Cellular Proteomics.

«I ribosomi sono come un’automobile, che ha bisogno di manutenzione periodica, per sostituire velocemente le parti consumate», spiega John Price, coordinatore dello studio. Che cosa fa rallentare la produzione di proteine ai ribosomi? Nei topi si è visto che è il minor consumo di calorie. I ricercatori hanno studiato due gruppi di roditori: uno poteva mangiare senza limiti, mentre l’altro il 35% meno di calorie, ricevendo tutti i nutrienti necessari alla sopravvivenza. Non è la prima volta che si collega il taglio delle calorie alla durata della vita, ma è invece la prima volta che si dimostra che la sintesi delle proteine rallenta e si riconosce il ruolo dei ribosomi in questa azione “allunga-giovinezza”.

«I topi che hanno assunto meno calorie sono risultati più energetici, si sono ammalati meno – prosegue Price – hanno vissuto più a lungo e sono rimasti giovani più a lungo».

ANSA


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“Ogni grammo in più rispetto al fabbisogno giornaliero (circa 25 grammi) accresce di una volta e mezza il rischio di sviluppare malattie epatiche gravi”. È quanto emerso da uno studio condotto dai ricercatori dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.

Troppo zucchero rischia di trasformarsi in “veleno” per il fegato dei bambini. L’abuso sistematico del fruttosio aggiunto ai cibi e alle bevande ha gli stessi effetti pericolosi dell’alcool: ogni grammo in eccesso rispetto al fabbisogno giornaliero (circa 25 grammi) accresce di una volta e mezza il rischio di sviluppare malattie epatiche gravi”.

È quanto emerso da uno studio dei ricercatori dell’area di Malattie epato-metaboliche dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù che, per la prima volta in letteratura, rivela i danni del fruttosio sulle cellule del fegato dei più piccoli. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Hepatology.

Lo studio è stato condotto tra il 2012 e il 2016 su 271 bambini e ragazzi affetti da fegato grasso. In 1 bambino su 2 gli esami effettuati hanno rilevato livelli eccessivi di acido urico in circolo. L’acido urico è uno dei prodotti finali della sintesi del fruttosio nel fegato. Quando è prodotto in grandi quantità diventa tossico per l’organismo e concorre allo sviluppo di diverse patologie. Attraverso ulteriori indagini, incrociate con i dati emersi dal questionario alimentare somministrato ai pazienti, i ricercatori hanno dimostrato l’associazione tra gli alti livelli di acido urico e l’aggravarsi del danno al fegato, soprattutto tra i grandi consumatori di fruttosio: quanto più zucchero ingerivano con la dieta abituale, tanto maggiore era il danno riportato dalle loro cellule epatiche.

Il fruttosio aggiunto, il nemico dei bambini. Il fruttosio è uno zucchero naturale presente in diversi alimenti, soprattutto nella frutta ma anche nei vegetali e nelle farine utilizzate per pasta, pane e pizza. In una dieta bilanciata, il consumo di fruttosio naturalmente contenuto nei cibi non provoca alcun effetto negativo. Il nemico dei bambini è il fruttosio aggiunto presente negli sciroppi e nei dolcificanti largamente utilizzati dall’industria nelle varie preparazioni alimentari (marmellate, bevande, merendine, succhi di frutta, caramelle). Basti pensare che una sola lattina di bevanda zuccherata contiene il doppio della quantità giornaliera di fruttosio indicata per l’età pediatrica (circa 25 grammi). Un barattolo di marmellata confezionata ha una concentrazione di fruttosio 8 volte maggiore del fabbisogno quotidiano; una merendina ne contiene mediamente il 45% in più, mentre una bottiglietta di succo di frutta poco più della metà.

I meccanismi del danno al fegato. Il fruttosio viene metabolizzato, ovvero scomposto e trasformato, principalmente nel fegato. Questo processo di sintesi produce energia per il corpo, ma anche altri derivati come l’acido urico. Se la quantità di fruttosio ingerita sistematicamente è eccessiva, il percorso metabolico si altera e viene prodotto troppo acido urico. Quando l’organismo non riesce a smaltire le alte concentrazioni in circolo, si innescano meccanismi pericolosi per la salute: aumenta lo stress ossidativo (i vari componenti delle cellule vengono danneggiati dalla rottura dell’equilibrio cellulare) e si attivano insulino-resistenza e processi infiammatori delle cellule epatiche. Questi meccanismi sono precursori dell’insorgenza del diabete e del fegato grasso. Nei bambini con il fegato già compromesso, accelerano la progressione della malattia verso stadi più gravi (steatoepatite non alcolica, fibrosi epatica, cirrosi).

I ricercatori del Bambino Gesù hanno quindi dimostrato che i bambini con abitudini alimentari sbagliate, sottoposti a un sistematico “bombardamento” di fruttosio, corrono un rischio di sviluppare patologie del fegato aumentato di almeno una volta e mezza per ogni grammo di zucchero in eccesso ingerito quotidianamente.

“Diversi studi – ha  spiegato Valerio Nobili, responsabile di Malattie Epato-metaboliche del Bambino Gesù – hanno provato che l’elevato consumo di zucchero è associato a numerose patologie sempre più frequenti in età pediatrica come l’obesità, il diabete di tipo II e le malattie cardiovascolari. Ma poco si sapeva del suo effetto sul tessuto epatico, almeno fino ad oggi. Con la nostra ricerca abbiamo colmato la lacuna: abbiamo infatti dimostrato che un eccessivo consumo di fruttosio si associa ad alti livelli di acido urico e soprattutto a un avanzato danno epatico, tanto da favorire la precoce comparsa di fibrosi prima e cirrosi poi a carico del fegato. Ecco perché, alla luce di quanto certificato dal nostro studio, è fondamentale evitare l’abuso di cibi e bevande con un elevato contenuto di fruttosio, modificando le cattive abitudini alimentari e gli stili di vita errati dei nostri ragazzi. Per fare un esempio concreto, gli spuntini dei bambini dovranno essere solo eccezionalmente a base di succhi di frutta o merendine confezionate e non la regola quotidiana”.


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Difficoltà a mangiare e a bere, diffusissima tra gli anziani e spesso causa di malnutrizione, dovuta all’assunzione di troppi farmaci.

Uno studio mostra che ben l’87% degli anziani che risiedono in Residenze sanitarie assistite assume da 1 a 4 farmaci al giorno che potenzialmente provocano “disfagia”, ovvero la difficoltà ad ingerire cibi solidi o liquidi.

Lo studio è stato condotto per 4 mesi dall’IIstituto Nazionale di Riposo e Cura per Anziani. Gli esperti hanno valutato lo stato nutrizionale e il numero medio di farmaci assunti al giorno, risultato pari a 8 con picchi di 19 nei casi più gravi. Il 34% degli anziani risultava malnutrito, il 40% aveva registrato negli ultimi sei mesi una perdita di peso non voluta superiore al 5%.

Sono tre i meccanismi con cui i farmaci incidono negativamente sulla deglutizione, spiega Claudia Venturini, coautrice dello studio. Il primo è l’effetto collaterale di medicine che riducono la produzione di saliva, riscontrato nell’11% del campione. Poi ci sono le complicanze dovute all’azione del farmaco stesso: è il caso dei narcotici che, agendo sul sistema nervoso, riducono vigilanza e attenzione. Alcuni farmaci infine producono danni alla parete dell’esofago, come alcuni antidolorifici o gli integratori per il trattamento dell’osteoporosi o per problemi cardiaci (riscontrati nel 29% dei pazienti).

ANSA


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Cure miracolose per malattie rare, pillole per dimagrire che fanno perdere dieci chili in una settimana, creme contro la disfunzione erettile provenienti dalla tradizione di paesi lontanissimi. Sono più di 68 milioni gli annunci pubblicitari di prodotti farmaceutici non autorizzati che Google ha bloccato nel 2016. Quasi sei volte i contenuti censurati nel 2015.

E’ quanto emerge dal Rapporto sull’attività di vigilanza condotta nell’anno passato dal gruppo di Mountain View per escludere i siti illegali da indicizzazioni e ricerche. In dodici mesi, riferisce Google, sono stati bloccati 1,7 miliardi di annunci pubblicitari. Di questi, 68 milioni riguardavano prodotti per la salute vietati o illegali. Nel 2015, i contenuti dello stesso genere messi in quarantena erano stati “solo” 12,5 milioni.

La violazione delle leggi nazionali su farmaci e prodotti assimilati rappresenta la principale infrazione registrata dal motore di ricerca del gruppo americano. Sempre nel 2016, cita ancora il rapporto, sono più di 47mila i siti perseguiti per truffe su prodotti o programmi diretti alla perdita di peso.


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Yoga, meditazione, esercizio fisico. Tante sono le “armi” con cui si può combattere lo stress e alla lista è possibile aggiungere anche una dieta ricca in prebiotici, che aiuta in particolare il sonno. Da non confondere con probiotici, i prebiotici sono alcuni tipi di fibre che i batteri probiotici nutrono, come quelle presenti in diverse fonti vegetali, tra cui asparagi, avena e legumi.

È quanto emerge da una ricerca della University of Colorado a Boulder, pubblicata sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience.

Gli studiosi hanno svolto un esperimento sui topi in laboratorio, che hanno ricevuto per diverse settimane prima di un evento considerato stressante una dieta ricca in prebiotici, comparandoli con un altri inseriti in un gruppo cosiddetto di controllo, su cui non è stato effettuato questo intervento.

I risultati hanno evidenziato che i topi che avevano seguito una dieta ricca in prebiotici non solo non sperimentavano disagi indotti dallo stress sulla flora intestinale, ma recuperavano un sonno sano prima rispetto agli altri. «L’evento stressante che i topi hanno sperimentato era simile a quello che per l’uomo può essere un incidente d’auto o la morte di un caro», spiega Robert S. Thompson, l’autore principale dello studio, che evidenzia anche come ulteriori ricerche riguarderanno proprio i prebiotici e il loro effetto sull’uomo in situazioni di stress.

ANSA


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