Please wait...

anziani-e-ginnastica-1.jpg

Non è mai tardi per iniziare a fare ginnastica. Anche quando si è avanti con l’età la capacità di costruire massa muscolare è la stessa degli atleti.

Gli studiosi hanno confrontato la capacità di potenziare la muscolatura in due gruppi di uomini over 70. Il primo gruppo, classificato come ‘atleti’, comprendeva persone tra i 70 e gli 80 anni che avevano fatto esercizio per tutta la vita e continuavano a competere ai massimi livelli nel loro sport. Il secondo era composto da individui sani di età simile, che non avevano mai partecipato a programmi di esercizi strutturati.

Ciascun partecipante si è allenato con i pesi e i ricercatori hanno effettuato biopsie muscolari 48 ore prima e subito dopo. I ricercatori si aspettavano che gli atleti avessero una maggiore capacità di aumentare la massa muscolare. Dai risultati è emersa invece la stessa risposta all’esercizio fisico in entrambe i gruppi.

«Il nostro studio – evidenzia il ricercatore capo, Leigh Breen – mostra chiaramente che non importa se non hai fatto regolarmente attività fisica per tutta la vita, si può comunque trarne beneficio ogni volta che si inizia. Ovviamente un impegno a lungo termine e l’esercizio fisico sono l’approccio migliore per raggiungere la salute complessiva, ma anche iniziare più avanti nella vita aiuterà a ritardare la fragilità legata all’età e la debolezza muscolare».

ANSA


esercizio-fisico-anziani.jpg

L’esercizio fisico aiuta a ridurre il rischio di morte prematura nei pazienti con malattie cardiovascolari, ancor più che nelle persone sane.

Le persone che fanno una maggiore attività fisica riducono il rischio di morte prematura; tuttavia l’effetto benefico dell’esercizio fisico è più evidente nelle persone con problemi cardiaci. Un gruppo di ricercatori coreani è giunto a questa conclusione valutando i livelli e l’intensità dell’esercizio fisico svolto dai partecipanti in termini di equivalente metabolico dell’attività (MET) minuti a settimana.

La salute ottimale negli adulti corrisponde a 500 minuti MET alla settimana. Nelle persone affette da malattie cardiache, per ogni 500 minuti MET alla settimana di esercizio in più, i ricercatori hanno registrato una riduzione del 14% del rischio di morte prematura. Per le persone sane invece la riduzione era del 7%.

Lo studio.

Complessivamente, i ricercatori hanno seguito 131.558 pazienti con malattie cardiovascolari e 310.240 persone sane da quando avevano circa 60 anni. A un follow-up mediano di sette anni, quelli con malattie cardiovascolari avevano più del doppio delle probabilità di morire durante lo studio rispetto agli individui sani.

“L’inattività fisica causa varie malattie non trasmissibili come la coronaropatia, il diabete e i tumori al seno e al colon, che alla fine portano a una mortalità prematura”, spiega Si-Hyuck Kang, coautore dello studio e ricercatore presso la Seoul National University. “L’attività fisica favorisce la normale crescita e il metabolismo; può inoltre contribuire al benessere, favorire il sonno e rendere più facile l’esecuzione delle attività quotidiane”.

“I benefici fisiologici dell’esercizio possono essere simili per le persone con e senza malattie cardiache, ma è possibile che i pazienti con malattie cardiache traggano maggiore beneficio dall’esercizio perché presentano molti più fattori di rischio per una morte prematura che potrebbero essere ridotti facendo più attività, ipotizza Kang. “È stato dimostrato che l’attività fisica abbassa la pressione sanguigna e il livello di zucchero e colesterolo nel sangue”.
Tra le persone con malattie cardiovascolari partecipanti, la maggior parte soffriva di cardiopatia ischemica. Le persone con malattie cardiache tendevano inoltre ad essere più anziane e avevano anche maggiori probabilità di avere altri problemi di salute come diabete, ipertensione e colesterolo elevato.

Fonte: Eur Heart J 2019

Lisa Rapaport

Versione italiana per Quotidiano Sanità/Popular Science


bevanda-gassata.jpg

Un ampio studio coreano, che ha valutato oltre 400 mila adulti, ha registrato una correlazione tra consumo di analcolici e bevande zuccherate e l’aumento del rischio di morte prematura.

Le bevande analcoliche, addolcite con zucchero o dolcificanti artificiali, possono aumentare il rischio di morte prematura. Stando a quanto riportato online il 3 settembre su JAMA Internal Medicine, in uno studio che ha seguito più di 400.000 adulti europei per oltre 16 anni il rischio di morte prematura è risultato aumentato in chi consumava due o più bicchieri al giorno di analcolici.

“I nostri risultati sulle bevande analcoliche zuccherate forniscono un ulteriore supporto alla limitazione del consumo e alla loro sostituzione con altre bevande più salutari, preferibilmente acqua”, dice il coautore dello studio Neil Murphy, ricercatore presso la International Agency for Research on Cancer. “Per gli analcolici addolciti artificialmente, abbiamo bisogno di comprendere meglio i meccanismi che potrebbero essere alla base di questo legame e si spera che ricerche come la nostra stimoleranno questi sforzi”.

“Di per sé, le bevande analcoliche potrebbero non essere alla radice dell’associazione”, precisa Murphy. “I nuovi risultati non intendono dire che gli analcolici causano il decesso precoce, perché “in questi tipi di studi (epidemiologia osservazionale) vi sono altri fattori che potrebbero celarsi dietro l’associazione osservata”, prosegue il ricercatore. “Ad esempio, un elevato consumo di analcolici potrebbe essere un indicatore di un’alimentazione non salutare nel suo complesso”.

Lo studio.

Per osservare più da vicino un possibile legame tra bevande analcoliche e mortalità prematura, Murphy e colleghi sono ricorsi ai dati della European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition, uno studio multinazionale che ha reclutato partecipanti dal 1992 al 2000. Lo studio ha valutato l’alimentazione, incluso il consumo di bevande analcoliche, all’inizio del periodo di osservazione. I partecipanti hanno anche compilato questionari con domande su fattori come livello di istruzione, fumo, consumo di alcool e attività fisica. Dopo l’esclusione di partecipanti con patologie pregresse come tumori, cardiopatie e diabete all’inizio dello studio, e di quelli che non avevano fornito dati sul consumo di analcolici, i ricercatori hanno valutato 451.743 soggetti, che hanno partecipato allo studio per una media di 16,4 anni. L’età media all’inizio era 51 anni. Durante lo studio, 41.693 partecipanti sono deceduti.

Le evidenze.

Quando i ricercatori hanno analizzato i dati, considerando i fattori in grado di aumentare il rischio di decesso, come indice di massa corporea e fumo, hanno scoperto che coloro che avevano bevuto due o più bicchieri di bevande analcoliche al giorno mostravano il 17% in più delle probabilità di morire precocemente rispetto a quelli che avevano consumato meno di un drink analcolico al mese.

Chi aveva consumato due o più bicchieri di analcolici addolciti con zucchero al giorno presentava l’8% in più delle probabilità di morire precocemente rispetto a chi aveva bevuto meno di un bicchiere al mese e chi aveva consumato due o più bicchieri di analcolici con dolcificanti artificiali aveva il 26% in più delle probabilità di morire prematuramente rispetto a chi ne aveva bevuto meno di un bicchiere al mese. I ricercatori riconoscono che vi erano differenze tra i due gruppi che andavano al di là del consumo di analcolici.

I grandi consumatori di analcolici avevano BMI più alti ed erano in gran parte fumatori”, sottolinea Murphy. “Abbiamo effettuato aggiustamenti statistici nelle nostre analisi per BMI, abitudini di fumo e altri fattori di rischio per mortalità che potrebbero aver falsato i risultati e le associazioni positive sono rimaste. Tuttavia, non possiamo escludere che questi fattori abbiano influenzato i risultati, quindi non possiamo affermare che le associazioni che osserviamo siano causali”.

Fonte: JAMA Internal Medicine 2019

Linda Carroll

Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science


108300_amiciimmaginaribambini-864x400_c.jpg

Il troppo tempo trascorso sugli schermi dei dispositivi elettronici sembra “soffocare” l’immaginazione dei bambini che non scelgono più così spesso come compagni di gioco degli amici immaginari.

A sollevare l’attenzione su questo tema è un sondaggio svolto nel Regno Unito, condotto su 1.000 operatori di scuola materna dal sito web di recensioni daynurseries.co.uk: quasi i due terzi dei professionisti dell’infanzia ritengono che l’utilizzo dei device stia rendendo i bambini meno creativi. Meno della metà (48%) degli operatori ha affermato che ci sono bambini nella scuola materna con amici immaginari e il 72% concordava sul fatto che fossero molti meno rispetto solo a cinque anni fa. Il 63% degli intervistati ha spiegato di ritenere che il troppo tempo trascorso sugli schermi sia la causa di questo declino dell’inventiva.

David Wright, proprietario del gruppo Nursery di Paint Pots a Southampton, interpellato dai media britannici sul tema, non solo concorda con i risultati, ma sottolinea anche: “penso che ai bimbi non sia più permesso di ‘annoiarsi’. Quando i piccoli hanno tempo libero per se stessi, trovano qualcosa di creativo da fare con la mente, come ideare un amico immaginario”.

Paige Davis, che insegna di psicologia alla York St John University, sostiene che è proprio il modo in cui giocano i piccoli ad essere cambiato nel tempo. “Quando non c’era la Tv o i bimbi la guardavano meno – conclude – c’era un gioco più spontaneo, mentre ora i bambini pensano ‘oh, dobbiamo giocare così’, perché questa è la struttura data dalla televisione”.

ANSA


Amazon-medicinali.jpg

Centinaia di migliaia di prodotti a rischio in vendita su Amazon. A lanciare l’allarme è il Wall Street Journal dopo una sua indagine, dalla quale emerge che vi sono 4152 prodotti vietati, etichettati in modo ingannevole o dichiarati pericolosi dalle autorità federali.

Tra questi almeno 2000, indicati come giocattoli o medicine, sono privi delle avvertenze sui rischi per la salute dei bambini. Tutte merci che i negozianti fisici al dettaglio sono costretti a togliere dai loro scaffali. Il Wsj ha identificato almeno 157 prodotti che Amazon aveva detto di aver bandito, inclusi materassi che secondo la Food and Drug Administration possono soffocare i neonati. Il giornale ha commissionato test su 10 articoli per bambini acquistati su Amazon, molti dei quali promossi come ‘Amazon’s Choice’: quattro non hanno superato i test basati su standard federali, compreso uno con livelli di piombo superiori ai limiti consentiti.

Il 46% dei 4152 prodotti individuati dal quotidiano sono elencati come forniti dai magazzini di Amazon. Dopo che il Wsj ha segnalato l’esito della sua indagine alla societa’ di Jeff Bezos, il 57% degli articoli sono stati tolti o le loro etichette sono state modificate.

“La sicurezza è una priorita’ per Amazon”, ha assicurato un portavoce, spiegando che la compagnia usa strumenti automatici che scannerizzano centinaia di milioni di oggetti ogni minuto per bloccare quelli sospetti: nel 2018 ne sono stati scoperti tre milioni”.


5ff3e8b5b7fb584226f0b61845b49a89.jpg

Contrariamente a quanto si crede, un miracolo non è solamente un fatto sensazionale, incredibile ed inspiegabile, ma implica anche una dimensione spirituale. Così, per essere qualificata come miracolosa, una guarigione deve ottemperare a due condizioni: che avvenga secondo delle modalità straordinarie e imprevedibili, e che sia vissuta in un contesto di fede Sarà perciò indispensabile che si crei un dialogo tra la scienza medica e la Chiesa.

Sono circa 3.500 gli operatori sanitari italiani, medici, infermieri, farmacisti, fisioterapisti, dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, che ogni anno, soprattutto tra luglio e settembre, si susseguono a Lourdes assicurando volontariamente servizio e turni per gli ammalati e disabili, al seguito dei pellegrinaggi che partono alla volta della grotta dei Pirenei.

Si tratta di un fenomeno straordinario che non va assolutamente trascurato, in considerazione che la quasi totalità dei professionisti interessati si reca alla Grotta di Lourdes utilizzando parte del proprio congedo ordinario. Anche se mancano statistiche ufficiali che confermano tale consuetudine, il calcolo è presto fatto.

Dati ufficiali registrano, secondo quanto affermato da padre Nicola Ventriglia, cappellano addetto al coordinamento e all’accoglienza dei pellegrini italiani al Santuario di Lourdes, che ogni anno tra pellegrini e ammalati che fanno capo alle numerose Onlus sono poco al di sotto dei centomila (nel 2018, 97.322), senza contare tutte le persone che raggiungono la Francia meridionale come turisti.

Considerando che solitamente il personale di assistenza (medici, infermieri, volontari adeguatamente formati per attendere i bisogni di persone disabili e ammalati) corrisponde più o meno al 3-4 per cento, non ci discostiamo dal numero 3.500 presumibilmente indicato. All’AMIL, Associazione Medica Internazionale di Lourdes, composta da medici, infermieri, studenti universitari delle professioni sanitarie, farmacisti, fisioterapisti, diretta da 10 anni da Alessandro De Franciscis, 62 anni, pediatra casertano, si registrano 10.000 iscritti, di cui 3.146 italiani.

Nel Bureau Medical de Constatation, così si chiama l’Ufficio Permanente dell’AMIL, di Lourdes, unico al mondo ad essere stato istituito nel 1925 in un Santuario Mariano, si elencano 70 casi in centosessant’anni, dal 1858 (anno di apparizione della Madonna a Lourdes) ad oggi, di persone che ufficialmente sono guariti per intercessione della Vergine della Grotta. I miracolati di Lourdes sono 56 francesi, 3 belgi, 8 italiani, una donna tedesca, un’austriaca e una svizzera. Il primo miracolo porta la data del 1° marzo 1858, diciassette giorni dopo la prima apparizione (11 febbraio) della Vergine Maria alla quattordicenne analfabeta Bernardette Soubirous. A guarire da una «paralisi di tipo cubitale, da stiramento traumatico del plesso-brachiale» fu la trentottenne Catherine Latapie, detta Chouat, di Loubajac, borgo a sei chilometri da Lourdes. Una voce nella notte tra il 28 febbraio e il 1° marzo le aveva ordinato: «Corri alla grotta e sarai guarita». Il penultimo miracolo porta la data del 4 maggio 1989 e riguarda Danila Castelli di Bereguardo, provincia di Pavia, guarita da un tumore all’utero che le avevano diagnosticato sette anni prima. L’ultimo, il 70°, è stato annunciato l’11 febbraio scorso, festa della Madonna di Lourdes, e riguarda suor Bernadette Moriau, francescana delle Oblate del Sacro Cuore di Gesù, guarita l’11 luglio 2008 da una grave paralisi che le impediva di camminare. «Miracoli», secondo la Chiesa. «Guarigioni inspiegate allo stato attuale delle conoscenze scientifiche», sostiene Alessandro De Franciscis.

A muovere i 3.500 operatori sanitari italiani c’è soprattutto la voglia di vivere per un breve periodo, senza regole scritte, senza decreti o circolari applicative, l’umanizzazione delle cure in sanità, donando la propria professione. Tutti i casi segnalati di probabili guarigioni senza alcun intervento medico, a Lourdes devono comunque seguire una procedura molto precisa, rigorosa ed articolata. Il termine procedura, con il suo riferimento giudiziario, non è affatto casuale, in quanto si tratta di un processo vero e proprio, finalizzato ad un giudizio definitivo, così sottolinea il prof. Franco Balzaretto, vice presidente nazionale dei Medici Cattolici italiani. In questa procedura sono interessati, da una parte, i medici e da un altro lato l’autorità Ecclesiastica, che devono interagire in sinergia.

Ed infatti, contrariamente a quanto si crede, un miracolo non è solamente un fatto sensazionale, incredibile ed inspiegabile, ma implica anche una dimensione spirituale. Così, per essere qualificata come miracolosa, una guarigione deve ottemperare a due condizioni: che avvenga secondo delle modalità straordinarie e imprevedibili, e che sia vissuta in un contesto di fede Sarà perciò indispensabile che si crei un dialogo tra la scienza medica e la Chiesa.

Successivamente la documentazione passa alla Commissione Medica Internazionale di Lourdes (CMIL) per il riconoscimento delle guarigioni inspiegabili, che viene convenzionalmente suddiviso in momenti di approfondimento conseguenziali. Innanzitutto occorre la dichiarazione (volontaria e spontanea), da parte della persona che ritiene di aver ricevuto la grazia di una guarigione. Per la constatazione di tale guarigione, cioè il riconoscimento del «passaggio da uno stato patologico accertato ad uno stato di salute», assume un ruolo essenziale il Direttore del Bureau Médical, il dott. Alessandro De Franciscis. Questi ha il compito di interrogare ed esaminare il/la paziente, e di mettersi in contatto con il medico del pellegrinaggio (se fa parte di un pellegrinaggio) o con il medico curante. Sarà raccolta tutta la documentazione necessaria per stabilire se ci siano tutti i requisiti necessari e si possa quindi constatare un’effettiva guarigione.

Se il caso è significativo, viene convocata una consulta medica, alla quale sono invitati a partecipare tutti i medici presenti a Lourdes, di qualsiasi provenienza o convinzione religiosa, per poter esaminare collegialmente la persona guarita e tutta la relativa documentazione.

E, a questo punto, si potranno quindi classificare queste guarigioni o «senza seguito», o vengono tenute «in standby (attesa)», se manca la necessaria documentazione, mentre i casi sufficientemente documentati potranno essere registrati come «guarigioni constatate» e da convalidare, per cui passeranno ad una fase successiva. Solo nei casi, in cui sia stato espresso un parere positivo, il dossier verrà poi trasmesso al Comitato Medico Internazionale di Lourdes per il parere conclusivo prima di essere trasmessi all’Autorità Ecclesiastica competente.

Domenico Della Porta
Medico iscritto AMIL Lourdes


ventilatore-caldo-e1565440917193.jpg

Un dubbio di grande attualità in questi giorni di canicola, al quale un gruppo di ricercatori australiani ha cercato di dare risposta attraverso uno studio clinico. Il verdetto è chiaro: il ventilatore è di grande aiuto per la salute e il benessere delle persone in presenza di caldo umido; può addirittura essere dannoso in condizioni ambientali di caldo secco.

Un grande classico dei dibattiti estivi – ma il ventilatore fa bene o male alla salute? – si arricchisce di un nuovo contributo, uno studio dell’università di Sidney pubblicato su Annals of Internal Medicine.

Gli autori dello studio muovono dalla considerazione che gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici sono evidenti anche sulle ondate di calore. Terribili quelle che hanno investito Parigi nel 2003, facendo 4.870 morti e Mosca nel 2010 (860 decessi). Senza giungere a questi estremi, è evidente tuttavia che le estati, anche nel nostro Paese, sono sempre più roventi. E dunque, fanno bene i medici e il Ministero della Salute a consigliare ai cittadini di adottare una serie di misure anti-caldo, quali non uscire nelle ore più calde e idratarsi a sufficienza per evitare conseguenze anche serie per la salute.

Ma come difendersi dal ‘nemico’, dal gran caldo, all’interno delle abitazioni? Il rimedio vintage del ventilatore è sempre valido? Gli autori dello studio appena pubblicato muovono da una posizione piuttosto critica nei confronti di recenti linee guida internazionali, tra le quali quelle stilate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che suggeriscono tout court che i ventilatori potrebbero essere di scarso beneficio quando le temperature salgono sopra i 35 gradi.

I ricercatori dell’università di Sidney sono andati dunque a simulare le condizioni ambientali di un’ondata di calore per studiare cosa succede, se si utilizza un ventilatore elettrico, alla temperatura centrale (del cosiddetto core) di un individuo e quali ricadute può avere sullo stress cardiovascolare, sul rischio di disidratazione e sui livelli di comfort.

I risultati del loro studio dimostrano che in condizioni di grande afa e in presenza di  un indice di calore (heat index) di 56 gradi centigradi, i ventilatori elettrici sono effettivamente in grado di ridurre la temperatura centrale del corpo e lo stress cardiovascolare, oltre ad aumentare il comfort termico. Tuttavia, l’uso del ventilatore si rivela addirittura dannoso in presenza di temperature elevate se il clima è secco (corrispondenti ad un indice di calore di 46 gradi).

Insomma la situazione è più complessa di quanto previsto. Gli autori dello studio sottolineano la necessita urgente di fornire al pubblico dei consigli evidence-based per proteggerli dai danni delle ondate di calore. “I nostri risultati – afferma Ollie Jay, Faculty of Health Sciences and Charles Perkins Centre – suggeriscono che in condizioni ambientali come quelle che si sono verificate nel corso delle ondate di calore verificatesi negli Stati Uniti e in Europa, sarebbe bene raccomandare l’uso dei ventilatori, mentre le linee guida pubblicate dalla maggior parte delle autorità sanitarie appaiono dunque inutilmente conservative. E’ solo in presenza di temperature estremamente alte, con umidità ambientale molto bassa che l’uso dei ventilatori può risultare dannoso; ma queste condizioni si verificano sono in località qualità Phoenix e Las Vegas negli Usa e Adelaide in Australia”.

Gli autori dello studio hanno annunciato che nei prossimi mesi si dedicheranno ad esaminare la reale efficacia di una serie di strategie low-cost anti-caldo che potrebbero essere facilmente implementate in caso di ondate di calore da parte degli anziani, magari affetti da condizioni quali la cardiopatia ischemica. Lo stesso gruppo di studio sta valutando l’impatto che diversi farmaci possono avere sulle misure anti-caldo, eventualmente da consigliare al grande pubblico alla vigilia di un’ondata di calore.

L’indice di calore, che si esprime in gradi Farenheit, è una misura comunemente utilizzata in climatologia che descrive il disagio fisico generato dalla presenza di temperature elevate accompagnate da un alto tasso di umidità. Tanto maggiore è l’umidità infatti, tanto più l’organismo fatica a smaltire il calore.  L’indice di calore si calcola a partire dalla temperatura dell’aria e dall’umidità relativa. Esistono delle tabelle che descrivono i vari livelli di rischio corrispondenti agli indici di calore:
Tra 80° e 89°F (27°- 32° C) si consiglia cautela (possibile stanchezza in seguito a prolungata esposizione al sole e/o attività fisica);
Tra 90° e 104° F (32°- 40° C) si consiglia estrema cautela (possibile colpo di sole crampi da calore con prolungata esposizione e/o attività fisica)
Tra 105° e 129° F (41°- 54° C) situazione di pericolo (probabile colpo di sole, crampi da calore o spossatezza da calore, possibile colpo di calore con prolungata esposizione al sole e/o attività fisica.
Al di sopra dei 130°F (54°C): elevata probabilità di colpo di calore o colpo di sole, in seguito a continua esposizione.


emicrania-mal-di-testa.jpg

Uno studio dell’Università di Harvard dimostra che il rischio di un attacco di emicrania aumenta se si consumano tre o più bevande contenenti caffeina al giorno; il consumo di 1-2 bevande al giorno appare invece sicuro nei pazienti affetti da emicrania episodica. L’attacco, associato ad un elevato consumo di caffeina, si scatena il giorno stesso o quello immediatamente successivo. Paradossalmente, ad attacco iniziato, la caffeina può addirittura avere un effetto analgesico.

Uno studio appena pubblicato su American Journal of Medicine ha evidenziato che bere tre o più bevande contenenti caffeina al giorno si associa ad una maggior probabilità che si scateni un attacco di emicrania quello stesso giorno o il successivo, nei pazienti affetti da emicrania episodica. L’associazione tra consumo di caffeina a dosi elevate ed emicrania risulta ancora evidente, anche dopo aver considerato altri possibili trigger quali assunzione di bevande alcoliche, stress, alterazioni del sonno, attività fisica, ciclo mestruale.

“Il nostro studio – commenta Elizabeth Mostofsky, Cardiovascular Epidemiology Research Unit, Beth Israel Deaconess Medical Center e Department of Epidemiology, Harvard T.H. Chan School of Public Health (Boston, USA) – dimostra che consumare fino una o due bevande contenenti caffeina al giorno non si associa alla comparsa di un attacco di emicrania; se si supera tuttavia la soglia delle tre bevande aumentano le possibilità di un attacco”.

Di emicrania soffrono circa 1,04 miliardi di adulti nel mondo e questo ne fa la condizione dolorosa più comune in assoluto. L’emicrania genera costi diretti e indiretti altissimi e determina perdita di produttività.

Si ritiene abitualmente che la caffeina possa scatenare l’attacco di emicrania ma che, somministrata ad attacco in corso, possa alleviarlo (ha cioè anche un effetto analgesico). Mancano tuttavia sufficienti evidenze scientifiche a supporto di queste osservazioni aneddotiche.

Visto l’elevato consumo di caffeina negli USA (si stima che l’87% degli americani consumino bevande con caffeina tutti i giorni, per una media di 193 mg/die), i ricercatori della Harvard University hanno deciso di approfondire la relazione consumo di caffeina-scatenamento di un attacco emicranico. A tale proposito hanno preso in esame 98 adulti affetti da emicrania episodica; ai partecipanti è stato chiesto di compilare dei diari elettronici due volte al giorno per sei settimane consecutive, riferendo del loro consumo di caffeina, di altri elementi di stile di vita, del timing e delle caratteristiche dell’attacco di emicrania.

Lo studio ha analizzato l’incidenza degli attacchi di emicrania per ogni partecipante nei giorni in cui avevano assunto caffeina, rispetto ai giorni di non consumo. In media, ogni soggetto presentava una media di 5 attacchi al mese. Il 66% consumava abitualmente 1-2 bevande con caffeina al giorno, il 12% tre o più al giorno. Nelle sei settimane dello studio, la media degli attacchi di emicrania registrata è stata di 8,4. I partecipanti hanno riferito un’assunzione media di 7,9 bevande con caffeina a settimana.

“Ad oggi – commenta il primo autore dello studio Suzanne M. Bertisch, Division of Sleep and Circadian Disorders, Brigham and Women’s Hospital and Harvard Medical School (Boston, USA) – sono stati realizzati pochi studi prospettici sul rischio immediato di attacco emicranico legato a cambiamenti nell’assunzione giornaliera di bevande contenenti caffeina. In questo, dunque il nostro studio può considerarsi unico, visto che abbiamo catturato informazioni quotidiane dettagliate su caffeina, emicrania ed altri fatti di interesse per ben 6 settimane”.

Gli autori ritengono che sono necessarie ulteriori ricerche per far luce sugli effetti potenziali della caffeina sullo scatenamento di un attacco negli ore successive all’assunzione e per approfondire le interazioni tra sonno, caffeina, stati d’ansia, fattori ambientali ed emicrania.


Niguarda-Botallo.jpg

Doppio intervento a Niguarda su due piccoli bimbi nati pretermine da gravidanze sotto le 30 settimane e del peso inferiore ai 2 Kg per riparare l’anomalia cardiaca. Il vaso che permette il passaggio di sangue dall’arteria polmonare all’aorta durante la vita fetale non si era chiuso dopo la nascita causando importanti problemi cardiocircolatori e respiratori.

Per la prima volta in Italia, al Niguarda di Milano, è stata utilizzata con successo una procedura mini-invasiva per riparare un’anomalia cardiaca – il dotto di Botallo pervio – su neonati prematuri dell’età di un mese. La tecnica, che sfrutta una procedura trans-catetere, ha permesso di chiudere il dotto arterioso in due bambini con peso inferiore ai 2 kg, nati da gravidanze sotto le 30 settimane di gestazione. In questi casi il vaso che permette il passaggio di sangue dall’arteria polmonare all’aorta durante la vita fetale non si era chiuso dopo la nascita causando importanti problemi cardiocircolatori e respiratori.

Gli interventi sono stati condotti dagli specialisti di Niguarda sotto la supervisione del Professor Alain Fraisse, cardiologo pediatrico del Royal Brompton Hospital di Londra, specializzato nell’uso di questa tecnica per la correzione del dotto arterioso pervio. Il medico del centro inglese ha supervisionato l’attività dei colleghi italiani durante le due procedure.

I due interventi, riferisce l’ospedale in una nota, sono durati circa mezz’ora l’uno e sono stati portati a termine nelle sale di emodinamica di Niguarda. Il team multidisciplinare – composto da cardiologi pediatrici, anestesisti, tecnici di radiologia, neonatologi e infermieri – ha utilizzato un nuovo device, che tramite un catetere sottilissimo, del diametro di uno spaghetto, inserito dalla vena femorale sulla gamba, ha raggiunto l’arteria polmonare e quindi- attraverso il dotto- l’aorta.

“Una volta in sede dal catetere è stato rilasciato un dispositivo auto-espandibile che è andato a tappare il dotto arterioso aperto – spiega nella nota Gabriele Vignati, Responsabile della Cardiologia Pediatrica di Niguarda-. Durante la vita fetale, infatti, esiste un “tubicino”, il dotto di Botallo appunto, che mettendo  in comunicazione l’arteria polmonare con l’aorta ottimizza la circolazione fetale evitando a gran parte del sangue, già ben ossigenato dalla placenta, di andare inutilmente ai polmoni”.

Il dotto, quindi, permette al sangue di “saltare” gli organi deputati alla respirazione (tranne una piccola quantità per assicurarne la crescita), e di raggiungere direttamente il resto del corpo. Alla nascita, nel momento in cui ha inizio la funzione respiratoria, il dotto inizia a chiudersi spontaneamente ed entro le prime 72 ore, o più raramente entro le prime settimane di vita, la sua chiusura è completa. “La mancata chiusura è un evento con basso riscontro nei nati a termine ma in circa il 30% dei nati estremamente prematuri il dotto rimane aperto, con un passaggio di sangue dall’aorta all’arteria polmonare – indica Stefano Martinelli, Direttore della Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale -. Questo porta ad un sovraccarico di lavoro del muscolo cardiaco e- se le dimensioni del dotto sono importanti- anche ad un aumento della pressione nell’arteria polmonare con conseguenze anche gravi sui processi di maturazione del polmone stesso”.

In questi casi  “viene fatto inizialmente un tentativo di chiusura farmacologica del dotto grazie alla somministrazione dei farmaci antinfiammatori- spiega Vignati-. In alcuni casi, però, come è successo per questi due bambini, i farmaci non sortiscono l’effetto sperato e l’unica chance di trattamento sarebbe stata la chiusura chirurgica attraverso l’apertura del torace”.

Oggi grazie alla procedura con il catetere l’intervento può essere condotto per via mini-invasiva con un traumatismo chirurgico del tutto azzerato, basta infatti una piccola puntura di una vena della gamba per poter inserire il dispositivo. Non ci sono cicatrici e anche la ripresa post-operatoria è più veloce. “Si tratta di un’opzione importante – evidenzia l’ospedale – permessa da un’evoluzione tecnologica che ha portato ad una miniaturizzazione sempre più spinta dei dispositivi che oggi possono essere utili anche per neonati prematuri con un peso molto contenuto alla nascita”.


Smartphone-e-obesità.jpg

Usare lo smartphone per più di 5 ore al giorno aumenta del 43% il rischio di obesità.

È quanto suggerisce uno studio su studenti universitari presentato alla conferenza dell’American College of Cardiology e condotto da Mirary Mantilla-Morrón, della Health Sciences Faculty presso la Simón Bolívar University di Barranquilla, in Colombia che spiega: «l’uso prolungato del telefonino facilità la sedentarietà e riduce l’attività fisica, condizioni associate ad aumentato rischio di morte prematura, diabete, malattie cardiovascolari, tumori, problemi osteoarticolari».

Il suo impiego eccessivo è risultato associato anche ad altri comportamenti che a loro volta possono compromettere la salute dell’individuo, come ad esempio mangiare male. Lo studio ha coinvolto 1060 studenti di 19-20 anni, il cui utilizzo del telefonino è stato monitorato. È emerso che usarlo per 5 o più ore al dì si associa a un rischio di obesità del 43% maggiore, a probabilità doppia di consumare bibite, mangiare cibo da fast food, snack dolci.

ANSA


logo footer

Via G. Nelli, 23 (angolo Piazza Montanelli)
50054 Fucecchio (FI)

Mail: info@farmaciaserafini.net

Tel: 0571 – 20027 (2 linee r.a.)
Fax: 0571 – 20027 (2 linee r.a.)

P.Iva 05439190488

Carte accettate

carte

Il Nostro Progetto

Logo Ivita Italia

Copyright farmacia Serafini 2016. Tutti i diritti riservati.