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Il prodotto, venduto in tutto il mondo è reclamizzato per la cura di numerose malattie, fra cui HIV, tubercolosi, malaria, epatite, cancro, autismo, dengue e chikungunya. Ma le autorità lanciano l’allarme: “Provoca vomito e diarrea persistenti, che possono portare talvolta a disidratazione, dolori addominali e bruciore alla gola. In rari casi sono stati riscontrati effetti più gravi”.

“L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) informa che il prodotto denominato “Soluzione Minerale Miracolosa”, reclamizzato per la cura di numerose malattie, fra cui HIV, tubercolosi, malaria, epatite, cancro, autismo, dengue e chikungunya e in vendita via internet anche con altri nomi (‘Supplemento Minerale Miracoloso’, ‘Soluzione di biossido di cloro’, ‘Soluzione di purificazione dell’acqua’), può provocare effetti negativi sulla salute, come vomito e diarrea persistenti, che possono portare talvolta a disidratazione, dolori addominali e bruciore alla gola. In rari casi sono stati riscontrati effetti più gravi”. Lo riporta il Ministero in una nota.

“Questi eventi – si precisa – sono stati notificati in numerosi Paesi, anche europei. Il prodotto contiene clorito di sodio al 28%, un agente ossidante che, assunto alle dosi consigliate, supera di molto la dose giornaliera tollerabile stabilita dall’OMS. È stata pertanto predisposta la circolare 27 giugno 2019, che fornisce indicazioni sul prodotto, la tossicità e il trattamento e in cui si richiama la necessità di segnalare qualsiasi evento avverso riscontrato. Si raccomanda ai cittadini di non assumere tale prodotto”.


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‘La funzione crea l’organo’, affermava il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck, ovvero un organo si sviluppa tanto più quanto maggiormente è utilizzato e si atrofizza se non viene sollecitato. Lo stesso principio potrebbe essere applicato all’uomo del terzo millennio, sempre più iperconnesso in maniera virtuale e disconnesso nelle relazioni reali. Un’azienda californiana di telecomunicazioni ha chiesto ad un gruppo di esperti di immaginare come sarà l’uomo alla fine di questo millennio. E loro hanno ‘disegnato’ Mindy

Mano destra (la sinistra per i mancini) ad artiglio, postura gobba, perdita di diversi centimetri in altezza, cranio più spesso, ma contenente un cervello più piccolo. E infine, la ciliegina sulla torta: la crescita di una terza palpebra. Dopo quella inferiore e quella superiore, ecco la palpebra ‘laterale’. Questo l’identikit dei dell’uomo di fine terzo millennio, frutto di spinte evolutive indotte dalle tecnologie digitali.

A preconizzare questi cambiamenti è la TollFreeForwarding.com una company californiana specializzata in telecomunicazioni internazionali che, in una sorta di esercizio di futurologia evolutiva, ha interpellato una serie di esperti e di graphic designer allo scopo di ‘costruire’ una ‘lei’ del quarto millennio, Mindy.

A suggerire quali parti del corpo potrebbero essere quelle più esposte a cambiamenti legati all’uso dei moderni oggetti tecnologici (già, ma chissà come evolveranno anche le tecnologie da qui a mille anni…) sono stati Caleb Bake, esperto di wellness e salute della Maple Holistics, Nikola Djordjevic di Med Alert Help, K. Daniel Riew del New York-Presbyterian Orch Spine Hospital, Adina Mahalli di Enlightened Reality, Kasun Ratnayake dell’Università di Toledo, Sal Raichbach dell’Ambrosia Treatment Center, Ellen Wermter della Charlottesville Neurology and Sleep Medicine.

Il collo. Dopo ore passate a guardare lo schermo del cellulare, il collo viene stressato da questa postura e la colonna vertebrale si disallinea rispetto alle anche; la stessa cosa succede stando seduti ore ed ore alla scrivania per lavorare al computer. Per questo, il collo e la schiena di Mindy appaiono ripiegati verso il petto.

La mano. Gli smartphone stanno già trasformando le mani dei grandi utilizzatori in una sorta di ‘artiglio’ (tecnicamente si chiama ‘sindrome del tunnel cubitale’) perché le dita risultano curvate in una posizione innaturale (per tenere in mano il cellulare) per periodi protratti di tempo.

Gomito ad angolo retto. Lo stesso motivo che induce la mano ad assumere una conformazione ad ‘artiglio’, fissa il gomito in una posizione a 90 gradi; è il cosiddetto ‘gomito da smartphone’ dovuto  alla necessità di portare il cellulare all’orecchio o di tenerlo davanti agli occhi per mandare messaggi o navigare su internet. Il nervo ulnare che decorre in un solco osseo sul versante interno del gomito ne viene stirato e compresso e questo può provocare parestesie a livello del mignolo e dell’anulare, dolori all’avambraccio e debolezza nelle mani.

‘Collo tecnologico’. Le tecnologie digitali potrebbero farci perdere diversi centimetri in altezza, in particolare a livello del collo. È il cosiddetto ‘collo tecnologico’. Quando si lavora per molte ore al computer o si sta piegati sullo schermo di un cellulare, i muscoli della parte posteriore del collo devono contrarsi per sostenere il peso della testa. Alla fine questi muscoli così stressati, diventano anche indolenziti.

Teca cranica ispessita. Una serie di ricerche effettuate sugli smartphone ha attirato l’attenzione sulla presunta pericolosità per il cervello delle radiofrequenze. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2011 ha classificato le radiazioni dei cellulari come ‘possibilmente cancerogene’ per l’uomo. Un recente studio ha suggerito che queste radiazioni possono avere un impatto sulla memoria. Non è ancora noto se abbiano un’influenza anche su altre aree cognitive. E a destare preoccupazione sono soprattutto i bambini, che assorbono fino a tre volte più radiazioni rispetto agli adulti poiché hanno uno spessore del cranio ridotto. Per questo i ‘futurologi’ hanno preconizzato che Mindy potrebbe sviluppare un ispessimento delle ossa del cranio per proteggersi dalle radiazioni.

Cervello rimpicciolito. Le tecnologie digitali potrebbero avere un impatto anche sulle dimensioni del cervello. In un film del 2006, ‘Idiocracy’, un uomo si sveglia dopo 500 anni nel futuro e scopre di essere il più intelligente del pianeta. Il cervello degli altri si è infatti ‘rattrappito’ nel corso dell’evoluzione perché grazie alla tecnologia hanno sempre meno cose di cui occuparsi. Ma a rimpicciolirsi potrebbe essere non solo il cervello ma tutto l’organismo. In futuro dunque i nostri antenati potrebbero essere più piccini, perché per sopravvivere non servirà più essere i più robusti del gruppo.

La terza palpebra. Stare troppe ore davanti ad uno schermo, sia esso un tablet, un computer, un cellulare mette a dura prova gli occhi e secondo alcune ricerche può compromettere l’acuità visiva. Una ‘soluzione’ evolutiva potrebbe essere rappresentata dunque da un qualcosa in grado di proteggere gli occhi dall’esposizione alla luce degli schermi. Come una terza palpebra a partenza dall’angolo esterno dell’occhio o un cristallino in grado di bloccare la luce azzurrina (ma non quella di altre lunghezze d’onda) degli schermi digitali.

La salute mentale. Alcuni studi recenti dimostrano che chi sta troppo su Facebook vede crollare il livello del proprio benessere e che i social media ingenerano sindrome ansioso-depressiva nei bambini. Dipendenza da internet, cyberbullismo, adescamento da parte di pedofili, compromissione della carriera sono soltanto alcuni dei problemi indotti dalla rete e dai social. Un’altra categoria di problemi riguarda i disturbi del sonno: dormire con uno schermo acceso in camera (basta quello del cellulare o del tablet, non solo quello del computer) disturba il sonno e questo può avere ricadute negative sulla produttività lavorativa e scolastica.


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L’intervento, su un paziente con insufficienza cardiaca, è stato eseguito  nell’ambito di una sperimentazione clinica internazionale.  Il microchip, che si ricarica wireless dall’esterno, consentirà di monitorare il cuore del paziente h24 e prevenire pericolosi scompensi che richiederebbero ospedalizzazione.

Eseguito con successo presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma l’impianto di un microchip wireless ultratecnologico (di fatto un microcomputer chiamato V-Lap e fornito dalla società Vectorious) nel cuore di un paziente ultrasettantenne con scompenso cardiaco, una grave condizione che riguarda in Italia dai 600 ai 750 mila individui e che dopo i 65 anni rappresenta la prima causa di ricovero. L’impianto è stato effettuato dall’équipe del professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e toraciche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma nell’ambito della sperimentazione clinica internazionale ‘Vectorious’.

Si tratta di un intervento mininvasivo della durata di neanche un’ora e il posizionamento del sensore avviene in soli 6 minuti; il paziente è stato dimesso il giorno successivo.

“Il microchip – spiega una nota del Policlinico – viene inserito nel cuore (precisamente nel ‘setto interatriale’ che separa le due camere chiamate ‘atri’) attraverso la puntura di una vena e fornisce in modo totalmente wireless informazione sull’attività cardiaca del paziente altrimenti inaccessibile in altro modo. Inoltre il microchip è dotato di una batteria ricaricabile sempre in modalità wireless attraverso una fascia indossabile dal paziente. Sempre attraverso questa fascia il paziente può inviare i dati registrati dal microcomputer direttamente all’ospedale, dove i tracciati saranno analizzati dai cardiologi”.

Al momento i paesi che partecipano alla fase di sperimentazione (i cui primi risultati sono attesi nel giro di due anni) sono la Germania, l’Italia e seguiranno l’Inghilterra e Israele. In Italia il paziente di Roma è il secondo. Il primo impianto è stato eseguito a Firenze dal Prof. Carlo Di Mario, Università degli Studi di Firenze.

“Se il trial darà risultati positivi, si tratta – spiega nella nota il professor Crea – di un potenziale balzo in avanti nell’ambito della telemedicina e della medicina personalizzata”.

Lo scompenso cardiaco (quando il cuore non è più efficiente nel pompare il sangue) è l’esito di tutte le malattie cardiache non intercettate, dall’infarto alle cardiopatie congenite. “Si stima che dopo i 65 anni una persona su 10 abbia una qualche forma di scompenso cardiaco”, spiega il Policlinico aggiungendo che “attualmente il paziente viene monitorato con visite periodiche, ma può accadere tra un controllo e l’altro che l’attività cardiaca si alteri improvvisamente portando al ricovero del paziente. L’impianto del microchip permette un monitoraggio h24 dell’attività cardiaca, scongiurando il rischio di emergenze. I cardiologi che monitorano i dati inviati dal paziente, infatti, possono modificare le sue terapie al bisogno e in tempo reale”.

“V-LAP è il primo microcomputer wireless per il monitoraggio cardiaco al mondo – conclude il professor Crea – e apre una nuova finestra di opportunità nella gestione dei pazienti scompensati; dovremo ovviamente prima dimostrarne l’efficacia e la sicurezza a lungo termine”.


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Non è solo la mamma che fuma in gravidanza a esporre il nascituro a un maggior rischio di asma. Anche i bambini esposti al fumo di sigaretta dei loro padri mentre sono ancora in grembo sono più propensi a sviluppare questa malattia.

E’ quanto dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Genetics, che ha evidenziato alcuni cambiamenti nel Dna.

I ricercatori del National Defence Medical Center di Taipei hanno seguito 756 bambini per sei anni e, di questi, quasi uno su quattro era stato esposto al fumo di sigaretta dei padri mentre erano ancora nella pancia della mamma. Quando i bimbi hanno raggiunto l’età dei 6 anni, complessivamente, il 31% di coloro i quali i padri avevano fumato durante la gravidanza hanno sviluppato l’asma, rispetto al 23% dei bambini i cui padri non fumavano. Inoltre, per i bambini i cui padri fumavano oltre 20 sigarette al giorno il rischio era più elevato rispetto ai figli di chi ne fumava meno di 20 (passava infatti dal 31% al 35%).

I ricercatori, inoltre, subito dopo la nascita, hanno estratto il Dna dei bambini dal sangue del cordone ombelicale e hanno esaminato la metilazione lungo il filamento del Dna. Hanno così osservato che più i padri fumavano durante la gravidanza, più aumentava la metilazione su tratti di tre geni specifici che svolgono un ruolo nella funzione immunitaria. Insomma, concludono gli autori dello studio, se si sta per diventare genitori, prima si smette col tabacco e meglio è, senza attendere che il piccolo venga alla luce. 


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Dormire vicino a qualsiasi fonte di luce artificiale fa ingrassare. Anche se si tratta della luce di un dispositivo elettronico.

È quanto emerge da una ricerca condotta su donne anziane e di mezza età, pubblicata online sulla rivista JAMA Internal Medicine.

Lo studio

I ricercatori – guidati da Yong-Moon Park, autore principale dello studio, Epidemiology Branch, National Institute of Environmental Health Sciences, National Institutes of Health, Research Triangle Park, North Carolina – hanno preso in esame 44.000 donne in buona salute, tra i 35 e i 74 anni. Alcune, 17.000 circa, dormivano con una luce notturna all’interno della stanza; altre, oltre 13.000, invece, lasciavano una luce accesa all’esterno della camera. Circa 5.000 dormivano con la televisione accesa o una luce nella camera da letto.

All’inizio dello studio le donne erano per la maggior parte in sovrappeso, ma non obese, e nessuna di loro svolgeva lavori notturni che interrompessero il ciclo sonno/veglia. Sono state seguite per sei anni, al temine dei quali le donne che dormivano con televisione o luce in camera presentavano il 22% di probabilità in più di essere in sovrappeso, una probabilità maggiore di un aumento dell’indice di massa corporea del 10% almeno ,e il 33% in più di probabilità di essere obese rispetto alle donne che dormivano nel buio totale.

Lo studio non dimostra se o come l’esposizione alla luce artificiale di notte possa causare direttamente l’obesità. Yong-Moon Park suggerisce comunque che “spegnere le luci al momento di coricarsi potrebbe ridurre le possibilità delle donne di prendere peso. Nello studio la correlazione tra il dormire con una luce artificiale e l’aumento di peso è stata osservata sia in donne che dormono meno di sette ore, sia in quelle che dormono tra le sette e le nove ore”.

Attenzione a tutte le fonti luminose. I ricercatori si sono affidati esclusivamente alle dichiarazioni dei soggetti studiati riguardo al peso e all’altezza; questi dati potrebbero dunque non essere accurati. Inoltre, durante il periodo di studio, le donne non hanno mai dichiarato eventuali cambiamenti di esposizione alla luce durante la notte.

Anche con tali limitazioni i risultati “rappresentano un valido argomento per considerare l’esposizione alla luce artificiale di notte un fattore di rischio per l’aumento di peso”, dice James Gangwisch, ricercatore della Columbia University di New York, che non ha partecipato allo studio.

Una volta che televisione e luci sul comodino o sul soffitto sono spente, le persone dovrebbero fare attenzione anche alle altre fonti luminose: “Anche con le luci spente, le nostre camere da letto sono spesso illuminate di notte da orologi, diodi a emissione luminosa, dispositivi elettronici e illuminazione esterna che filtra attraverso le tende”, conclude lo studioso.

Fonte: JAMA Intern Med 2019

Staff Reuters Health News


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Bastano 4.400 passi al giorno ( e non i famigerati 10 mila) per ridurre il rischio di mortalità tra le donne over 70.

Lo dimostra uno studio americano dell’Università di Harvard che non ha peraltro trovato differenze rispetto al rischio di morte, relative alla velocità con la quale viene effettuata una camminata. Insomma anche una passeggiata tranquilla aiuta a fare la differenza. Ormai non ci sono più scuse per restare sul divano…

In epoca di smartwatch o per gli amanti del vintage, di pedometri, l’attenzione al numero dei passi effettuati durante il giorno è sempre più forte e diffusa. Ma qualcuno ha fissato l’asticella dell’elisir di lunga vita dell’attività fisica a quota 10 mila passi al giorno. Che sono veramente tanti per alcuni (gli inattivi non ne fanno più di 2.000 al giorno tipicamente), mentre una passeggiata per altri. Adesso, però, un studio pubblicato su Jama Internal Medicine porta a rivedere questa soglia del benessere così manichea.

I-Min Leee colleghi del Brigham and Women’s Hospital di Boston e Harvard Medical School hanno analizzato i pattern di attività fisica di 17 mila donne di età media pari a 72 anni, poi sono andati a tenere traccia dei decessi per ogni causa nell’arco dei successivi 4 anni. Alle partecipati è stato chiesto di indossare un accelerometro (un device in grado di misurare l’accelerazione) sul fianco, durante le ore diurne, per 7 giorni. Quindi venivano rilevati il numero di passi giornalieri e la velocità della camminata (numero di passi/minuto).

Sono state oltre 500 le donne decedute nel corso del follow-up. Analizzando i dati dello studio, i ricercatori hanno evidenziato che le donne che facevano circa 4.400 passi al giorno, presentavano un rischio di mortalità ridotto del 41%, rispetto a chi si fermava a 2.700 passi al giorno. Aumentando il numero di passi, il rischio di morte continuava a diminuire fino ai 7.500 passi al giorno, al di sopra dei quali non continuava a scendere.

L’intensità della camminata invece non è risultata associata ad una riduzione della mortalità. La maggior parte delle partecipanti di fatto incedeva con intensità ‘moderata’.

“Il consiglio di camminare per 10 mila passi al giorno può scoraggiare – ammette Lee –  questo studio invece dimostra che anche un modesto aumento di attività fisica si associa ad una riduzione significativamente del rischio di mortalità tra le donne anziane e questo e questo dovrebbe essere incoraggiante. Insomma il nostro studio sottolinea ulteriormente il messaggio: cammina di più – anche un po’ di più fa la differenza’.


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Si tratta di una nuova tecnologia biomedica che sta rivoluzionando il campo dei trapianti di fegato, aprendo nuove strade, tra cui la possibilità di rivitalizzare il fegato prelevato e valutarne in sicurezza la funzionalità al di fuori del corpo del donatore, prima dell’impianto nel ricevente

“E’ l’ultima frontiera nei trapianti di fegato. E’ stato trapiantato con successo un fegato rivitalizzato con una macchina di perfusione normotermica su un uomo di 66 anni, presso il Centro trapianti di fegato dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino (diretto dal professor Renato Romagnoli)”.

“La scoperta – si legge – a novembre dell’anno scorso di un doppio tumore al fegato insorto su una cirrosi fino ad allora non diagnosticata: una sentenza pesante per un veterinario di Viterbo di 66 anni ancora in attività.  Da lì l’inizio di una corsa contro il tempo per cercare una possibilità di cura nei maggiori centri di riferimento in Italia. E quindi l’approdo all’ospedale Molinette di Torino”.

“Prima di tutto – spiega l’ospedale – le terapie per arginare o, preferibilmente, fare regredire almeno in parte la malattia tumorale, che fin dall’inizio si era dimostrata  essere voluminosa ed aggressiva. Quindi, a gennaio di quest’anno, sono state eseguite due termoablazioni percutanee (“bruciature del fegato”), eseguite presso la Radiologia interventistica del professor Paolo Fonio. Poi, a maggio, dopo aver riscontrato un’iniziale buona risposta alle terapie, l’ingresso in lista in attesa per un trapianto di fegato da fare il più rapidamente possibile, presso il Centro Trapianti diretto dal professor Renato Romagnoli”.

“Ed ecco pochi giorni fa – prosegue il comunicato – la possibilità di un donatore di fegato compatibile deceduto, ma i cui organi potevano essere prelevati per trapianto, grazie al gesto di altruismo e generosità dei familiari. Una buona congiuntura per il paziente. Tuttavia fin da subito si era capito che il fegato del donatore, deceduto per emorragia cerebrale, presentava caratteristiche tali (per steatosi – fegato grasso ed età di 77 anni) da farlo ritenere non ottimale e ad alto rischio di non essere in grado di funzionare dopo il trapianto seguendo le tecniche tradizionali di preservazione d’organo (cosiddetta preservazione ‘a freddo’, e cioè tenendo il fegato in ghiaccio dopo il prelievo sul donatore)”.

“Nuove tecnologie biomediche – continua – però oggi stanno rivoluzionando il campo dei trapianti di fegato, aprendo nuove strade, tra cui la possibilità di rivitalizzare il fegato prelevato e valutarne in sicurezza la funzionalità al di fuori del corpo del donatore, prima dell’impianto nel ricevente. Per fare questo è stata utilizzata la nuovissima tecnica detta NMP (Normothermic Machine Perfusion), ovvero la perfusione ‘a caldo’ (37 gradi, la temperatura del corpo) del fegato donato. Con lo sforzo comune ed il lavoro notturno di tutto un ospedale, ed in particolare dei centri di Coordinamento Regionale (professor Antonio Amoroso e dottoressa Anna Guermani), della Banca del Sangue delle Molinette (dottoresse Anna Maria Bordiga e Paola Manzini), del Laboratorio Analisi (dottor Giulio Mengozzi), nonché del Coordinamento Infermieristico e di Sala Operatoria del Centro Trapianto Fegato, è stato eseguito con successo il trapianto epatico sul paziente. Dopo il prelievo dal donatore, il fegato è stato trasportato nella sala operatoria del Centro Trapianti, dove è stato sottoposto alla procedura di NMP. Questa consiste nella perfusione continua dell’organo, attraverso le cannule ed il circuito ossigenato della macchina, utilizzando sangue umano da donatori e sostanze nutrienti in soluzione. Già dopo 2 ore di vita ‘artificiale’ in macchina si è capito che la funzione dell’organo si stava riprendendo in modo ottimale, quasi insperato. Ciò ha consentito di procedere con l’anestesia del paziente e con l’intervento chirurgico di rimozione del fegato malato. Dopo un totale di poco più di 5 ore di perfusione NMP, il fegato è stato quindi impiantato sul ricevente. La funzione immediata post-trapianto è stata da subito molto buona ed ora, dopo alcuni giorni dal trapianto, il paziente è in via di dimissione”.

“Oggi – conclude – le tecniche di perfusione d’organo ‘ex vivo’ stanno entrando nella pratica clinica, nelle loro varie forme di utilizzo (in genere ‘a freddo’ e con solo ossigeno), coinvolgendo ormai più di un terzo dei trapianti di fegato e permettendo di migliorane gli esiti precoci. Tuttavia questa nuova tecnica ‘a  caldo’ utilizzata permette di fare un passo oltre, ovvero rigenerare ed utilizzare in sicurezza organi che altrimenti sarebbero scartati per un rischio troppo elevato per il ricevente. Si calcola che saranno una decina all’anno i fegati che verranno valutati con questa nuova tecnica normotermica. Ora si aprono nuove prospettive future per i trapianti di fegato”.


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La chirurgia della mano tetraplegica tradizionale, che utilizzava trasferimenti di tendini, era impiegata già da diversi anni ma consentiva solamente un parziale recupero della funzione motoria- Con l’innovativa tecnica messa in atto dall’èquipe del Cto è possibile reinnervare interi distretti muscolari e acquisire un maggiore e più fisiologico recupero della funzione motoria e sensitiva degli arti.

Per la prima volta in Italia un intervento innovativo e rivoluzionario permetterà ad un paziente tetraplegico di recuperare la funzione delle mani, grazie a tecniche chirurgiche che hanno permesso di bypassare il livello della lesione al midollo spinale trasferendo e ricollegando come fili elettrici nervi donatori sani (sopra la lesione stessa del midollo) a nervi non più funzionanti a valle della lesione medesima corrispondenti al movimento ed all’utilizzo delle mani. L’eccezionale intervento è stato realizzato ieri presso l’ospedale Cto della Città della Salute di Torino.

“La chirurgia della mano tetraplegica tradizionale che utilizzava trasferimenti di tendini era impiegata già da diversi anni ma consentiva solamente un parziale recupero della funzione motoria, mentre questa tecnica innovativa utilizzata permette di reinnervare interi distretti muscolari non altrimenti recuperabili con la chirurgia classica”, spiega l’ufficio stampa della Città della Salute in una nota.

Nel caso specifico, il paziente – ex-pasticcere di 52 anni – in seguito ad incidente automobilistico aveva riportato una lesione midollare completa a livello cervicale. Il paziente si trovava alla guida della propria auto una sera di ritorno dal lavoro durante un brutto temporale circa sei mesi fa, quando ha perso il controllo della propria vettura uscendo di strada. Il trauma ha provocato, oltre al deficit completo degli arti inferiori, l’impossibilità di apertura e chiusura delle dita bilateralmente, non consentendo di afferrare oggetti o di poter provvedere alla propria cura personale.

L’intervento chirurgico è stato eseguito, circa sei mesi dopo il trauma, su entrambi gli arti superiori del paziente dal dottor Bruno Battiston, dal professor Diego Garbossa, dal dottor Paolo Titolo e dal dottor Andrea Lavorato. La procedura chirurgica è durata circa 3 ore e mezza per arto, durante la quale sono stati collegati nervi ancora funzionanti a nervi deficitari nel tentativo di reinnervare la muscolatura delle mani. Non si sono presentate complicanze periprocedurali.

Il recupero della funzione motoria necessita di molti mesi e sarà facilitata dai moderni trattamenti fisioterapici atti a preservare e favorire la motilità dei distretti interessati.

La nuova chirurgia che sfrutta il trasferimento di nervi è una recentissima metodica eseguita in pochi Centri al mondo. Tale tecnica permette un maggiore e più fisiologico recupero della funzione motoria e sensitiva degli arti. La successiva riabilitazione prevede l’adozione di trattamenti specifici possibili solo in Centri di riferimento.

L’intero percorso chirurgico e riabilitativo del paziente è reso possibile grazie alla collaborazione interdisciplinare tra l’Ortopedia e Traumatologia 2 ad indirizzo Chirurgia della Mano dell’ospedale Cto (diretta dal dottor Bruno Battiston), la Neurochirurgia universitaria (diretta dal professor Diego Garbossa), il Dipartimento di Ortopedia – Traumatologia e Riabilitazione (diretto dal professor Giuseppe Massazza), e la Struttura dell’Unità Spinale Unipolare (diretta dal dottor Salvatore Petrozzino).


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Il sistema operativo è dislocato in 27 città italiane e consente di individuare, giornalmente, per ogni specifica area urbana, le condizioni meteo-climatiche a rischio per la salute, soprattutto dei soggetti vulnerabili: anziani, malati cronici, bambini, donne in gravidanza.

Prevenire gli effetti negativi del caldo sulla salute, soprattutto delle persone più fragili. È l’obiettivo della pubblicazione sul portale dei bollettini sulle ondate di calore in Italia che è stato attivato oggi in vista dell’inizio della stagione estiva.

I bollettini sono elaborati dal Dipartimento di Epidemiologia SSR Regione Lazio, nell’ambito del Sistema operativo nazionale di previsione e prevenzione degli effetti del caldo sulla salute, coordinato dal ministero. Vengono pubblicati, come ogni anno dal lunedì al venerdì, a partire da metà maggio fino a metà settembre.

Il sistema operativo è dislocato in 27 città italiane e consente di individuare, giornalmente, per ogni specifica area urbana, le condizioni meteo-climatiche a rischio per la salute, soprattutto dei soggetti vulnerabili: anziani, malati cronici, bambini, donne in gravidanza.

Le città monitorate sono: Ancona, Bari, Bologna, Bolzano, Brescia, Cagliari, Campobasso, Catania, Civitavecchia, Firenze, Frosinone, Genova, Latina, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Pescara, Reggio Calabria, Rieti, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Verona, Viterbo.

I bollettini sono consultabili anche attraverso la APP Caldo e Salute, realizzata dal ministero della Salute in collaborazione con  il Dipartimento di Epidemiologia del servizio sanitario della Regione Lazio – ASL Roma 1. La APP è disponibile online per dispositivi Android su Play Google e per iOS su App Store.

Dal portale del ministero è possibile scaricare numerosi Opuscoli relativi alle ondate di calore, rivolti alla popolazione generale e agli operatori del settore (medici, personale delle strutture per gli anziani, personale che assiste gli anziani).


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È successo all’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze. Il paziente, deceduto nei giorni scorsi, è stato ritenuto idoneo al prelievo di fegato e i familiari, seguendo la volontà del proprio congiunto, hanno acconsentito al trapianto in un paziente di 60 anni, da tempo in lista di attesa.

E’ stato raggiunto il record nazionale di età per la donazione di organi. Un paziente di 97 anni deceduto nei giorni scorsi in rianimazione all’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze è stato ritenuto idoneo al prelievo di fegato e i familiari, seguendo la volontà del proprio congiunto, hanno acconsentito al trapianto in un paziente di 60 anni, da tempo in lista di attesa. Questo è il secondo caso nell’arco di pochi mesi, il primo è accaduto a fine aprile con un donatore di 93 anni, e rappresenta un primato assoluto nel panorama italiano per l’attività trapiantologica in quanto in 20 anni ci sono stati solo altri tre donatori in età avanzata che hanno permesso di effettuare un trapianto.

“Vorrei complimentarmi con i Coordinamenti locali ospedalieri e tutti i referenti delle Rianimazioni, DEA e reparti di Medicina, che con umanità e professionalità affrontano quotidianamente l’assistenza clinica di pazienti affetti anche da gravi malattie che possono portare, sia a guarigione, ma anche alla morte – afferma Alessandro Pacini, Coordinatore locale donazione e trapianti dell’Azienda USL Toscana Centro – In questo ultimo caso è importante considerare che una donazione di organi e tessuti, secondo una volontà espressa in vita dal deceduto o nulla osta dei congiunti aventi diritto, può salvare la vita di molti pazienti la cui unica speranza è un trapianto.

“Oggi il percorso di valutazione della qualità degli organi da parte della nostra Rete trapiantologica è così accurato da permettere la donazione da persone molto anziane che un tempo non era possibile prendere in considerazione”: così commenta il direttore del Centro nazionale trapianti Massimo Cardillo.

Si tratta del donatore più anziano mai registrato nel nostro Paese: dal 2003 a oggi erano stati effettuati altri tre prelievi da pazienti 97enni, e in tutti i casi si era trattato di fegato. Negli ultimi 20 anni i prelievi da donatori ultranovantenni sono stati 56. Dal 2002 a oggi l’età media dei donatori di organi è salita da 52 a 56 anni.

“I trapianti da donatore anziano danno buoni risultati e possono avvenire in totale sicurezza – continua Cardillo – in particolare per quanto riguarda il fegato, un organo che può mantenere una funzionalità ottimale anche in età molto avanzata se il donatore ha mantenuto uno stile di vita salutare”.

“Prelievi di questo tipo richiedono comunque una gestione professionale ottimale e per questo mi congratulo con l’equipe dell’ospedale Santa Maria Nuova e con i coordinamenti trapianti della Asl Toscana Centro e della Regione Toscana”, conclude il direttore del CNT, che ricorda come il caso di Firenze sia “la testimonianza che la donazione degli organi è possibile a ogni età: per questo invitiamo tutti i cittadini, anche i più anziani, a registrare la propria volontà alla donazione attraverso le tante modalità previste dalla legge, in particolare in occasione del rinnovo della carta d’identità”.


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