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Il Flex Robotic consente di risalire lungo il colon retto penetrando dall’ano con una telecamera e diversi strumenti chirurgici flessibili con i quali procedere ad una resezione completa e radicale del tumore dall’interno dell’intestino ricostruendo poi l’integrità del colon con una sutura chirurgica.

E’ stato effettuato per la prima volta in Europa, presso l’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, un rivoluzionario intervento non invasivo senza cicatrici di asportazione radicale di un tumore del retto, utilizzando un robot endoscopico inserito attraverso l’ano. Si tratta di un intervento eseguito senza nessuna cicatrice (dal professor Mario Morino), grazie alle caratteristiche del nuovissimo robot sperimentale denominato Flex Robotic, una macchina diversa dall’ormai ben conosciuto e diffuso robot Da Vinci.

Il Flex Robotic infatti consente di risalire lungo il colon retto penetrando dall’ano con una telecamera e diversi strumenti chirurgici flessibili con i quali procedere ad una resezione completa e radicale del tumore dall’interno dell’intestino ricostruendo poi l’integrità del colon con una sutura chirurgica.

La Chirurgia universitaria 1 delle Molinette, diretta da Morino, è per ora l’unico Centro al di fuori degli Stati Uniti, dove il robot è stato progettato e costruito, ad utilizzare questo rivoluzionario strumento ed è stato identificato come Centro europeo di riferimento per lo sviluppo clinico di questa tecnologia.  Il paziente di 80 anni è oggi in ottime condizioni e potrà essere già dimesso dopo soli due / tre giorni.

Con questa nuova tecnica si evita anche il rischio di ricorrere alla colostomia, ovvero alla deviazione delle feci nel cosiddetto “sacchetto “ posto sull’addome del paziente.  Questo robot apre una nuova frontiera della chirurgia mini invasiva oncologica, in quanto consente di asportare tumori del retto in maniera radicale attraverso la via naturale dell’ano. Il modello attuale consente per ora di raggiungere 20 cm dal margine anale, ma è in fase di avanzato sviluppo un prototipo che consentirà di salire fino a 50 cm permettendo in un prossimo futuro di trattare la maggior parte delle lesioni colorettali diagnosticate in fase precoce, grazie agli attuali programmi di screening.

Il Dipartimento di Chirurgia delle Molinette è da tempo leader in Italia ed in Europa per la chirurgia laparoscopica e robotica ed ora al robot Da Vinci, che rappresenta ormai una realtà clinica diffusa in diversi Centri, si è affiancato il nuovissimo e rivoluzionario robot chirurgo Flex Robotic, che consente di eseguire interventi chirurgici per via completamente endoscopica, dalla bocca o dall’ano, la cosiddetta “scarless surgery” o chirurgia senza cicatrici. Il robot sarà utilizzato anche dall’équipe Otorinolaringoiatrica universitaria, diretta da Roberto Albera, per asportare tumori della parte alta del tratto digestivo, oltre che dall’équipe del prof Morino per tumori del colon e del retto.

Il Dipartimento di Chirurgia delle Molinette è il primo in Italia ad avere a disposizione entrambe le tecnologie robotiche ed è stato identificato come Centro di Riferimento Europeo per lo sviluppo ed il training del nuovo robot. La Città della Salute di Torino sempre più nel futuro ed all’avanguardia. La Direzione aziendale (Direttore generale dottor Silvio Falco) crede molto in questa nuova Chirurgia, che potrà essere un ponte verso il futuro Parco della Salute.


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L’infanzia è il periodo della vita in cui lo scheletro sopporta meglio i carichi e risponde agli stress meccanici. Cominciare a fare sport a 5 anni consente di avere ossa più robuste nell’età adulta. È quanto emerge da uno studio australiano

I ragazzi che hanno praticato sport da piccoli hanno ossa più forti rispetto ai coetanei che durante l’infanzia sono stati meno attivi. L’evidenza emerge da uno studio australiano pubblicato dal Journal of Bone and Mineral Research.

“Il nostro studio fornisce un forte razionale per l’incoraggiamento precoce e persistente dello sport tra bambini e adolescenti. Questo per la prevenzione dell’osteoporosi e delle fratture legate all’età”, ha affermato l’autrice principale Joanne McVeigh.

“Le ossa rispondono ai carichi posti su di esse – spiega Johanno McVeigh, della School of Occupational Therapy, Speech Therapy and Social Work alla Curtin University di Perth, autrice principale dello studio – Esistono prove convincenti che lo scheletro in crescita abbia una migliore capacità di rispondere agli stress meccanici, ovvero ai carichi, di quanto non faccia lo scheletro adulto. Pertanto, fare sport in questi periodi critici di sviluppo consente di avere una maggiore massa ossea nella vita”.

Lo studio

McVeigh e colleghi hanno studiato 984 bambini nati negli ospedali di Perth tra il maggio 1989 e il novembre 1991. Le informazioni sull’attività sportiva, a partire dai 5 anni, sono state fornite dai genitori. La densità ossea è stata misurata con assorbimetria a raggi X a doppia energia su tutto il corpo (scansione Dexa o Dxa) quando i partecipanti avevano 20 anni. I ricercatori hanno anche effettuato numerose altre misurazioni, tra cui altezza, peso e livelli di vitamina D nel sangue, e hanno chiesto ai ventenni informazioni sullo stile di vita, compreso il consumo di alcolici e il fumo.

I risultati

Dopo la correzione per questi e altri fattori, i ricercatori hanno rilevato che l’attività sportiva ha giocato un ruolo significativo nella densità ossea a 20 anni sia per le donne che per gli uomini.

Per questi ultimi, la densità ossea di tutto il corpo era maggiore tra coloro che avevano praticato sport in modo consistente sin da piccoli, mentre la densità ossea delle gambe era maggiore anche quando i ragazzi avevano iniziato a fare sport solo negli anni dell’adolescenza. Per le donne, solo chi ha praticato regolarmente sport fin dall’infanzia ha ottenuto una densità ossea migliore a 20 anni.

Fonte: J Bone Min Res 2018

Linda Carroll


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Diete sbilanciate, problemi intestinali, infezioni respiratorie ricorrenti, intensa attività sportiva e obesità infantile: per mettere al riparo il bambino da possibili squilibri nella crescita, sono cinque le condizioni in cui è particolarmente raccomandata l’integrazione a base di vitamine del gruppo B.

Si chiamano ‘B Top Five’ e a definirle sono stati i pediatri, in un incontro nell’ambito del XXII Congresso della Federazione Italiana Medici Pediatri (Fimp).

“Le vitamine del gruppo B svolgono numerose funzioni essenziali e sono fondamentali per lo sviluppo di organi e apparati, in particolare del sistema nervoso – spiega Mattia Doria, segretario alle attività scientifiche ed etiche Fimp -. L’apporto attraverso un’adeguata alimentazione deve essere adeguato: qualora non lo fosse, sarebbe opportuno ricorrere alla supplementazione”.

Le mamme italiane, però, sembrano essere poco informate su queste vitamine. In particolare, secondo un’indagine di GFK Eurisko, solo il 10% sa che migliorano le prestazioni del sistema immunitario, e 2 su 10 hanno usato un’integrazione in casi di malattia o di terapia antibiotica.

I pediatri si sono confrontati stabilendo i cinque più frequenti utilizzi. Si adottano in caso di diete sbilanciate, cioè regimi alimentari in cui si escludono categorie di nutrienti per intolleranze e allergie, o per la tendenza di far adottare anche ai bambini alimentazioni come quelle vegetariane e vegane, non sempre ben pianificate e supplementate, per compensare le gravi carenze causate da queste diete. Ma anche per combattere le infezioni respiratorie ricorrenti può essere utile un adeguato supporto di micronutrienti necessari all’attività del sistema immunitario, come le vitamine del gruppo B, così come per i problemi intestinali e nel caso di pratica di un’attività sportiva ad elevato dispendio energetico. Infine per l’obesità infantile, in cui la supplementazione può migliorare l’efficienza dei processi metabolici.

I “B top five” diventeranno un documento che sarà distribuito dai prossimi mesi ai pediatri.


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In un mondo governato dalla pace, ma persino in tempo di guerra, le donne, i loro diritti e la loro sicurezza devono essere garantiti e protetti. Non è così purtroppo e per questo il premio Nobel per la Pace di quest’anno è dedicato a tutte le donne brutalmente calpestate e umiliate dalla violenza sessuale, usata come strumento di guerra. I premiati sono Denis Mukwege e Nadia Murad, un medico e una ragazza Yazidi, per aver combattuto i crimini di guerra e chiesto giustizia per le vittime, anche a rischio della loro incolumità.

Il Nobel per la Pace 2018 è stato assegnato ex aequo a Denis Mukwege e a Nadia Murad; il primo è un ginecologo che, mettendo a rischio della propria vita, ha difeso e curato per tutta la vita le vittime della violenza; Nadia è invece una vittima di questo crimine di guerra, tanto crudele quanto silenzioso.

La violenza sessuale, e non da oggi purtroppo, è uno strumento di guerra. Se ne parla poco, un po’ perché distratti dalle cronache di morte e distruzione, ma anche per imbarazzo e, chissà, forse anche per malriposto pudore. Ma questo Nobel accende con decisione i riflettori su questo crimine e su chi lo perpetra, perché è giusto che i colpevoli paghino per questo scempio.

Denis Mukwege è un ginecologo che ha trascorso gran parte della sua vita ad aiutare le vittime della violenza sessuale presso l’Ospedale ‘Panzi’ di Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo. Sono migliaia le donne trattate in questa oasi di pace per le ferite del corpo e dell’anima, un ‘effetto collaterale’ della guerra civile che in Congo ha fatto già 6 milioni di vittime. Mukwege è diventato il medico simbolo della lotta alla violenza sessuale sulle donne utilizzata come arma di guerra. Il suo motto è che la ‘giustizia è un affare che riguarda tutti’, tutti abbiamo il preciso dovere e la responsabilità condivisa di far conoscere e combattere questo crimine odioso. E la sua voce si è fatta sentire negli anni forte e chiara quando, mettendo a repentaglio la propria vita, ha condannato la violenza sessuale di massa restata impunita e criticato il suo governo, ma anche tutte le altre nazioni, per non aver preso iniziative decise contro questo crimine di guerra.

L’altra metà del premio è andata a Nadia Murad, una ragazza della minorità Yazidi del nord  dell’Iraq. Nadia è una delle tante ragazze brutalmente e ripetutamente violentate dai militanti dell’ISIS. Ma a differenza delle sue coetanee, sigillate dietro un muro di omertà e di vergogna, Nadia ha avuto il coraggio di parlare, di gridare al mondo cosa era stato fatto a lei e alle sue compagne. Nell’agosto del 2014 l’ISIS ha attaccato il distretto di Sinjar, travolgendo con la sua furia anche il villaggio di Kocho, dove Nadia viveva con la sua famiglia. L’intento era quello di sterminare la popolazione Yazidi, con tutti i mezzi. Diverse decine di migliaia furono le persone assassinate a Kocho. Ma le ragazze e le bambine hanno avuto una sorte forse ancora peggiore. Furono rapite e usate come schiave del sesso. Nadia era una di loro e non le è stato risparmiato nulla. Dopo un incubo di tre mesi, la ragazza, che all’epoca aveva poco più di vent’anni, è riuscita a fuggire. Ma non si è lasciata dietro l’orrore delle violenze. Ha voluto farlo conoscere al mondo, con coraggio e grande dignità. Nel 2016 è stata nominata dalle Nazioni Unite il primo ‘Goodwill Ambassador for the Dignity of Survivors of Human Trafficking’.

Il Nobel di quest’anno e il tema scelto arrivano nel decimo anniversario della risoluzione 1820/08 dell’ONU che stabilisce che il ricorso alla violenza sessuale come strumento di guerra rappresenta sia un crimine di guerra che una minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale. Anche lo Statuto di Roma del 1998, che ispira il lavoro della Corte Criminale Internazionale, stabilisce che la violenza sessuale durante le guerre e i conflitti armati rappresenta una grave violazione della legge internazionale.

Un Nobel non è sufficiente a cambiare il mondo. Ma adesso nessuno potrà più dire di non sapere. Nessuno potrà più girarsi dall’altra parte. E’ tempo che la giustizia faccia il suo corso.


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Con 261 voti favorevoli, nessun voto contrario e un’astensione, il Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge sui dispositivi per impedire l’abbandono dei minori nei veicoli.

Nel dettaglio, l’obbligo scatterà a partire dal 1° luglio 2019. Per le violazioni viene prevista una multa – come in caso di mancato uso delle cinture di sicurezza – da 81 a 326 euro. In caso di recidiva nell’arco di un biennio è prevista anche la sospensione della patente da 15 giorni a 2 mesi.

Le caratteristiche tecnico-costruttive e funzionali del dispositivo di allarme saranno definite da un successivo decreto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, da emanare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge.

Vengono poi stanziati 80mila euro all’anno, per il triennio 2019-2021, per la realizzazione di campagne informative sull’obbligo e sulle corrette modalità di utilizzo dei dispositivi anti-abbandono. Il Governo ha già annunciato che in legge di Bilancio saranno inserite agevolazioni fiscali per supportare le famiglie nell’acquisto dei nuovi dispositivi.

“Il Ministro dei Trasporti e Infrastrutture Danilo Toninelli commenta su facebook: abbiamo raggiunto un importantissimo traguardo per la sicurezza dei nostri figli e nipoti. Il Parlamento ha infatti tramutato in legge uno degli obiettivi del mio mandato: rendere obbligatoria l’installazione sui seggiolini auto di un sistema anti abbandono. Sono molto orgoglioso. L’obbligo partirà dall’estate 2019, nel frattempo, tra qualche settimana, provvederò a stanziare in legge di Bilancio le risorse necessarie a garantire un credito di imposta che aiuti le famiglie nell’acquisto del dispositivo salva bebè. La sicurezza è la nostra prima parola d’ordine”.


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La regolarità del sonno consente di mantenere un peso normale, di correre un rischio minore di avere malattie cardiovascolari e di abbassare i livelli di stress. È quanto ha evidenziato uno studio condotto su duemila adulti

Gli adulti che vanno a letto a un orario regolare pesano meno, hanno normali livelli di zucchero nel sangue e corrono un minor rischio di avere malattie cardiovascolari e diabete rispetto a coloro che non vanno mai a dormire alla stessa ora. A evidenziarlo è uno studio pubblicato da Scientific Reports e guidato da Jessica Lunsford-Avery, del Duke University Medical Center di Durham, nella Carolina del Nord. Avere un sonno regolare significa andare a dormire ogni sera alla stessa ora e svegliarsi allo stesso orario tutte le mattine, anche nei fine settimana. Tutto ciò aiuta il ritmo circadiano e regola altre funzioni dell’organismo, come appetito e digestione.

Lo studio

I ricercatori hanno analizzato il ciclo del sonno di circa duemila adulti di età media di 69 anni attraverso la scala di valutazione nota come Sleep Regularity Index, che analizza la variazione del sonno in un giorno e lo compara a quella del giorno successivo, per valutare i tempi di sonno e veglia ed eventuali pisolini. In particolare, Lunsford-Avery e colleghi hanno usato dati dei partecipanti di un ampio studio che dovevano indossare dispositivi per l’actigrafia da polso per registrare sonno/veglia, attività fisica ed esposizione alla luce. I partecipanti, inoltre, dovevano completare diari del sonno e registrare la sonnolenza diurna. Infine, i ricercatori hanno usato altri dati per misurare i fattori di rischio cardiovascolare e la salute psichica.

I risultati

Le persone che tendevano all’irregolarità del sonno andavano a dormire più tardi, dormivano di più durante il giorno e meno di notte rispetto a coloro che avevano invece un sonno regolare. Una maggiore irregolarità del sonno, inoltre, si associava a un maggior rischio di malattie cardiache a 10 anni, di obesità, ipertensione, alti livelli di glicemia a digiuno e diabete. L’irregolarità del sonno, infine, è risultata legata anche a maggiore stress e depressione, a loro volta collegati a un maggior rischio di malattie cardiache.

Fonte: Scientific Reports


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Ancora una conferma sul rapporto equilibrio psichico e ore di sonno negli adolescenti.

Gli adolescenti che dormono poco sono più propensi ad avere comportamenti rischiosi come bere, fumare e avere rapporti sessuali non protetti rispetto ai coetanei che riposano di più durante la notte. È quanto ha osservato una ricerca apparsa su JAMA Pediatrics, condotta su studenti delle scuole superiori americani da un team di ricercatori guidato da Matthew Weaver del Brigham and Women’s Hospital di Boston.

Lo studio

Il gruppo ha esaminato circa 68 mila sondaggi completati da studenti delle scuole superiori tra il 2007 e il 2015. Nel periodo di studio, la percentuale di ragazzi che riportava meno di otto ore di sonno in una notte media durante l’anno scolastico è passata dal 68,9% al 71,9%. Rispetto agli adolescenti che dormivano almeno otto ore, gli studenti che facevano meno di sei ore di sonno a notte hanno mostrato il doppio delle probabilità di bere alcol, quasi il doppio delle probabilità di fare uso di tabacco e più del doppio di avere una vita sessuale rischiosa. Inoltre, gli studenti delle scuole superiori che dormivano meno di sei ore a notte avevano anche tre volte più probabilità di essere autolesionisti o di pensare o tentare il suicidio. Anche gli adolescenti che dormivano sette ore a notte sarebbero stati a rischio, con una probabilità del 28% più alta di bere, del 13% maggiore di fumare e del 17% in più di provare altre droghe oltre alla marjuana, sempre rispetto ai ragazzi che dormivano otto ore.

Le ipotesi

Secondo Weaver, è possibile che un sonno insufficiente porti a cambiamenti nel cervello, che rendono più probabile avere comportamenti rischiosi. “Un possibile meccanismo è che il sonno insufficiente e di scarsa qualità sia associato alla ridotta attivazione della corteccia prefrontale, un’area critica per il ragionamento logico”, ha sottolineato l’esperto.

Secondo Sujay Kansagra, del Duke University Medical Center di Durham, in Carolina del Nord, i genitori, anche se hanno difficoltà a far andare a letto presto gli adolescenti, dovrebbero comunque prendere provvedimenti per garantire ai figli un riposo sufficiente. Per farlo “dovrebbero evitare di far consumare caffeina e  difar usare apparecchi elettronici ai figli fino a tarda notte, dal momento che entrambi questi comportamenti possono disturbare il sonno”.

Fonte: JAMA Pediatrics


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Nel mondo tra il 2011 e il 2017 ci sono stati almeno 259 ‘morti per selfie’, persone cioè che hanno perso la vita per incidenti mentre cercavano di scattarsi una foto ‘estrema’.

A fare il conto è stato uno studio pubblicato dal Journal of Family Medicine and Primary Care dell’All India Institute of Medical Sciences. Lo studio è stato attraverso ricerche sul web con parole chiave come ‘morte per selfie’ incidente selfie’ o ‘mortalità selfie’, e hanno trovato informazioni su 137 incidenti in tutto il mondo, che hanno fatto appunto 259 vittime, tra ottobre 2011 e novembre 2017.

L’età media delle vittime, quasi tre quarti delle quali erano maschi, è risultata di 22,9 anni. Il numero più alto di morti è stato riportato dall’India, che ha quasi metà degli incidenti, seguita da Russia, Usa e Pakistan. La maggior parte delle persone, 70, è morta per annegamento, mentre la seconda causa più frequente è risultato l’incidente con un mezzo di trasporto, in maggioranza dovuto a persone che scattavano selfie vicino a treni.

Fra le altre cause di morte segnalate ci sono cadute, incendi, scosse elettriche e persino, in otto casi, animali. «Servirebbero delle aree ‘no selfie’ nelle zone turistiche – concludono gli autori – specialmente in posti come corsi d’acqua, picchi e edifici alti, per diminuire l’incidenza di queste morti».


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Adottare la dieta mediterranea (basata sul consumo regolare di frutta e verdura, cereali integrali, legumi, pesce, olio d’oliva e poca carne) preserva la vista riducendo del 41% il rischio di maculopatia o degenerazione maculare senile

La maculopatia è una grave malattia della retina che, se non diagnosticata e trattata (nei casi in cui è possibile farlo) in maniera tempestiva, può portare alla cecità.

La conferma dell’importante affermazione arriva da uno studio dell’università di Bordeaux in Francia in collaborazione con varie altre istituzioni accademiche europee. Pubblicato sulla rivista Ophthalmology, lo studio ha coinvolto quasi 5000 individui, sia tra i partecipanti al Rotterdam Study, individui dai 55 anni in su seguiti per una media di 21 anni e periodicamente visitati ogni 4 anni, sia tra i partecipanti allo studio Alienor Study, che arruola persone di 73 anni o più.

L’intero campione è stato esaminato per conoscerne in dettaglio l’alimentazione e per monitorare la salute della loro vista. Ebbene, è emerso che aderire fedelmente ai precetti della tradizione mediterranea protegge dallo sviluppo della maculopatia riducendone il rischio del 41%.

Gli autori hanno anche dimostrato che non è sufficiente consumare anche in grandi quantità solo uno degli ingredienti di base della dieta mediterranea (ad esempio solo l’olio d’oliva o solo le verdure), ma unicamente seguendo la dieta nel suo insieme si può ottenere l’effetto protettivo della vista.

Un’altra importante conferma di quanto sia utile la “nostra” dieta mediterranea, oltre che gustosa e colorata.


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Limitare l’uso di schermi (da tablet a pc e smartphone) a non più di due ore al giorno ha un profondo impatto positivo sullo sviluppo delle abilità mentali dei bambini. Se a questa sana regola si unisce anche quella di un buon sonno (9-11 ore per note) e di almeno un’ora di attività fisica al dì, le capacità cognitive del bambino ci guadagnano ulteriormente.

È quanto dimostra uno studio condotto in Canada e pubblicato sulla rivista The Lancet Child & Adolescent Health. L’impatto più ampio sullo sviluppo cognitivo dei bambini è risultato dall’uso di apparecchi e dal sonno.

Il lavoro è stato svolto presso il Children’s Hospital of Eastern Ontario coinvolgendo 4520 bambini di 8-11 anni che sono stati sottoposti a test cognitivi per valutarne le capacità (memoria, linguaggio, capacità di attenzione etc), le cui abitudini in quanto a uso di schermi, sonno e sport sono state dettagliatamente analizzate.

E’ emerso che quasi un bimbo su 3 (29% – 1.330/4.520) non rispettava nessuna delle tre raccomandazioni, il 41% (1.845) solo una, il 25% (1.129) due raccomandazioni, appena il 5% (216) tutte e tre. In particolare metà dei bambini dormiva a sufficienza, il 37% usava apparecchi digitali per meno di due ore al giorno, il 18% faceva attività fisica per almeno un’ora.

Lo studio mostra chiaramente che trascorrere oltre 2 ore a giornata davanti a uno schermo si associa a un minore sviluppo delle abilità cognitive.

“Bisognerà quindi studiare a fondo l’effetto di differenti contenuti educativi o non – spiega l’autore del lavoro Jeremy Walsh, del CHEO Research Institute, di Ottawa. Ad ogni modo basandosi su questi risultati genitori, educatori e decisori pubblici dovrebbero promuovere azioni volte a limitare l’uso degli schermi e a mantenere una buona igiene del sonno per tutta l’infanzia e l’adolescenza”.


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