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Se il bimbo ha il diabete 1, occhio anche alla celiachia. I piccoli con diabete, infatti, sembrano avere un rischio quasi triplo di sviluppare anticorpi per la celiachia, che possono eventualmente portare a uno sviluppo della malattia.

E’ quanto emerge da una ricerca guidata dal Pacific Northwest Research Institute di Seattle, pubblicata online su Pediatrics.

Gli studiosi hanno preso in esame 5891 bimbi sotto i sei anni, a cui sono stati fatti i test per gli anticorpi e che sono stati seguiti in media per oltre cinque anni. Sono stati trovati anticorpi legati al diabete di tipo 1 in 367 bambini, mentre quelli legati alla celiachia sono stati rilevati in 808 e quelli associati a entrambe le condizioni in 90. Quest’ultimo dato è risultato significativamente più alto rispetto alle stime. Gli anticorpi per il diabete di tipo 1 si sono manifestati tipicamente prima di quelli per la celiachia, hanno osservato i ricercatori, anche se questo «non significa necessariamente che il diabete di tipo 1 abbia portato allo sviluppo di anticorpi celiaci» come spiega Christine Ferrara, dell’Università della California di San Francisco, coautrice di un editoriale che accompagna lo studio.

«Le persone con una malattia tendono ad avere l’altra. Coloro che hanno anticorpi del diabete di tipo 1 dovrebbero essere sottoposti a screening per quelli celiaci» evidenzia uno degli autori della ricerca, William Hagopian, secondo cui è possibile che il diabete di tipo 1 in qualche modo possa causare la celiachia. Ma potrebbe anche essere un fattore ambientale sovrapposto che in entrambi i casi da’ inizio al processo di malattia».

ANSA


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Vaccinando le donne al terzo trimestre di gravidanza si evita il 90% dei casi gravi di pertosse nei neonati sotto ai due mesi.

Lo afferma uno studio del Center for Diseases Control americano, che ricorda come in metà dei casi questa malattia presa nel primo anno di età porta al ricovero in ospedale.

Lo studio ha esaminato 251 bambini che avevano sviluppato la pertosse prima dei due mesi e un gruppo di controllo di 537 che invece non l’avevano avuta, verificando se le mamme avevano fatto il richiamo del vaccino tdap contro tetano, pertosse e difterite.

In generale il vaccino fatto al terzo trimestre evita il 78% dei casi di pertosse, una cifra che sale al 90% per quelli gravi. Al secondo trimestre la riduzione è del 64%, mentre se fatta prima della gravidanza l’immunizzazione li riduce della metà.

«Questo studio – commentano gli autori – conferma che il vaccino in gravidanza è efficace nel proteggere i bambini dalla pertosse nei primi mesi di vita, quando il rischio di complicazioni gravi o mortali è più alto».

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Troppo zucchero fa male anche a chi è sano. Consumandone molto si ha un rischio aumentato di sviluppare problemi cardiovascolari.

È quanto emerge da uno studio dell’Università del Surrey, nel Regno Unito, pubblicato su Clinical Science. Gli studiosi hanno preso in esame due gruppi di uomini con molti o pochi grassi a livello del fegato, rispettivamente 11 e 14 persone. Per 12 settimane i partecipanti allo studio hanno seguito un’alimentazione a bassi o alti livelli di zucchero. Il primo regime alimentare conteneva non più di 140 calorie giornaliere in valore di zucchero – una quantità vicina all’assunzione raccomandata – mentre l’altro conteneva ben 650 calorie sempre in valore di zucchero.

Al termine dell’esperimento, gli uomini che avevano consumato molti zuccheri e con un elevato livello di grasso epatico – una condizione nota come steatosi epatica non alcolica o fegato grasso (NAFLD) – hanno mostrato cambiamenti nel metabolismo dei grassi associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, di infarto e ictus.

Ma i risultati hanno anche rivelato che quando il gruppo di uomini sani con un basso livello di grasso al fegato ha consumato una grande quantità di zucchero, il grasso epatico è aumentato e il loro metabolismo è diventato simile a quello degli uomini con steatosi epatica.

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Ogni anno in Italia si effettuano più di 120.000 interventi chirurgici per frattura del femore negli over 65, un dato in continuo aumento.

È quanto è emerso nel corso del Trauma Meeting, promosso dalla Otodi (Ortopedici Traumatologi Ospedalieri d’Italia) in corso a Riccione.

I costi complessivi di questi interventi (ricovero, riabilitazione, pensioni di invalidità e costi indiretti), sottolineano gli esperti, ammontano in Italia a 1.200 milioni di euro l’anno. Tra le esigenze emerse dal congresso c’è quella di garantire su tutto il territorio nazionale una percentuale di interventi chirurgici effettuati entro le 48 ore, che il Piano Nazionale Esiti 2016 fissa come obiettivo ad almeno il 65%.

«Il paziente anziano – ha spiegato Giorgio Maria Calori, presidente del Congresso e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Ricostruttiva e Revisione Protesica dell’Apparato Locomotore della ASST Centro Specialistico Ortopedico e Traumatologico Gaetano Pini-Cto di Milano – non può aspettare per poter essere reinserito a una vita normale. Allo stesso tempo deve poter usufruire di un’assistenza e di cure adeguate al fine di impedire eventuali complicazioni che potrebbero seriamente comprometterne il recupero. La disabilità, infatti – prosegue l’ortopedico – è senza alcun dubbio più penalizzante per il paziente fragile perché va ad aggiungersi ad una condizione pregressa già compromessa».

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Ecco un motivo in più perché i ragazzi mangino verdure a foglia verde, in particolare quelle ricche di vitamina k1, come lattuga iceberg, spinaci e cavolo oltre ad esempio all’olio di oliva: la carenza di questa vitamina può comportare problemi soprattutto futuri per il cuore.

Aumenta infatti il rischio di allargamento del ventricolo sinistro (ipertrofia ventricolare) e ciò comporta una maggiore difficoltà a “pompare” il sangue verso il resto del corpo. Il fenomeno è tipicamente associato al cuore degli adulti, quando e’ messo ad esempio a dura prova dalla pressione alta, ma in qualche forma ne soffrono negli Usa il 10% dei ragazzi.

E’ quanto emerge da una ricerca del Medical College of Georgia all’Augusta University, pubblicata sulla rivista The Journal of Nutrition. Gli studiosi hanno preso in esame 766 adolescenti, dai 14 ai 18 anni, osservando che coloro che consumavano meno vitamina k1 avevano un rischio 3,3 volte maggiore di allargamento del ventricolo sinistro. La dimensione complessiva e lo spessore delle pareti del ventricolo sinistro erano già significativamente maggiori rispetto al normale e la quantità di sangue pompato più bassa.

Sebbene siano necessari ulteriori lavori, i risultati dello studio suggeriscono secondo i ricercatori che interventi precoci per assicurare ai giovani adeguati livelli di vitamina K1 potrebbero migliorare lo sviluppo cardiovascolare e ridurre il rischio di malattie future.

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Almeno tredici tipi di tumore sono favoriti dall’obesità, che gioca un ruolo nel 40% delle diagnosi fatte negli Usa.

Lo afferma un rapporto che il Cdc statunitense ha pubblicato sul proprio bollettino settimanale, che sottolinea come perdere peso diminuisca il rischio.

La ‘lista’ elaborata dal rapporto, elaborato in base ai dati dei registri tumori statunitensi tra il 2005 e il 2014, comprende alcuni tipi di tumore al cervello, il mieloma multiplo, il cancro dell’esofago, quello al seno post menopausa, quello di tiroide, vescica, stomaco, fegato, pancreas, reni, ovaie, utero e colon.

«La notizia che l’obesità e il sovrappeso hanno un effetto sui tumori potrebbe essere sorprendente per molte persone – afferma Anne Schuchat, vicedirettore del Cdc -. La consapevolezza del fenomeno non è ancora diffusa». Nel periodo considerato, scrivono gli autori, i tumori legati all’obesità sono cresciuti del 7%, mentre le diagnosi degli altri sono diminuite del 23%. Di tutti i tumori il 55% di quelli diagnosticati nelle donne e il 24% di quelli degli uomini hanno qualche contributo da sovrappeso e obesità.

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Le saune frequenti possono essere di aiuto per ridurre il rischio di pressione alta. Farle quattro-sette volte a settimana riduce le possibilità di sviluppare ipertensione del 50% rispetto a chi le fa una volta sola.

A evidenziarlo è uno studio della University of Eastern Finland, pubblicato su American Journal of Hypertension. I ricercatori hanno preso in esame 1621 uomini di mezza età, nell’ambito di uno studio denominato Kuopio Ischaemic Heart Disease Risk Factor Study, sui fattori di rischio cardiovascolari.

I partecipanti avevano un’ipertensione diagnosticata o una pressione su valori normali. Sono stati divisi in tre gruppi: quelli che facevano la sauna una volta a settimana, due-tre volte, oppure dalle quattro alle sette volte.

Durante un follow-up, un periodo in cui sono stati seguiti, di circa 22 anni, il 15,5% dei partecipanti ha sviluppato un’ipertensione clinicamente definita. Il rischio di pressione alta risultava diminuito del 24% tra gli uomini che facevano la sauna 2-3 volte la settimana e del 46% in coloro che la facevano 4-7 volte a settimana.

Il bagno in sauna può diminuire la pressione sanguigna attraverso diversi meccanismi biologici secondo gli studiosi: durante la sauna, la temperatura corporea può salire fino a 2 °C, causando la dilatazione dei vasi sanguigni. Non solo: fare la sauna regolarmente migliora la funzione endoteliale, cioè quella dello strato interno dei vasi sanguigni, cosa che ha effetti benefici sulla pressione arteriosa. Il sudore, a sua volta, fa rimuovere fluidi dal corpo, un fattore che contribuisce a ridurre i livelli di pressione. Inoltre, il bagno in sauna provoca rilassamento complessivo del corpo e della mente.

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Può esserci un maggiore rischio di un nuovo infarto o ictus se si interrompe la terapia con aspirina a basse dosi, utilizzata proprio per ridurre la probabilità di eventi cardiovascolari.

Questo farmaco impedisce i coaguli, ma tra il 10 al 20% dei sopravvissuti a un infarto ne interrompe l’uso quotidiano nei primi tre anni successivi, e in un quadro più ampio sono stati segnalati tassi di interruzione fino al 30% e una scarsa aderenza alla terapia in una percentuale fino al 50% dei pazienti.

È quanto emerge da una ricerca dell’Università di Uppsala, in Svezia, pubblicata su Circulation. Gli studiosi hanno preso in esame i dati di 601.527 persone, che hanno preso l’aspirina a basso dosaggio per infarti e prevenzione dell’ictus tra il 2005 e il 2009. I partecipanti erano over 40 e avevano un tasso di aderenza superiore all’80% nel primo anno di trattamento. In tre anni in cui sono stati seguiti, ci sono stati 62.690 eventi cardiovascolari.

I ricercatori hanno riscontrato che un paziente ogni 74 che ha smesso di assumere l’aspirina ha avuto un evento cardiovascolare aggiuntivo all’anno. È stato inoltre riscontrato che vi era un tasso superiore del 37% di eventi cardiovascolari in coloro che avevano interrotto la terapia rispetto a coloro che hanno continuato e il rischio è aumentato poco dopo la sospensione e non sembrava diminuire nel tempo.

«Fintanto che non ci sono sanguinamenti o interventi chirurgici importanti – spiega Johan Sundstrom, autore principale della ricerca – lo studio mostra i significativi benefici per la salute pubblica che possono essere ottenuti quando i pazienti rimangono in terapia».

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Includere noci, insieme a mandorle, nocciole, pistacchi, e persino le noccioline nella dieta può ridurre l’aumento di peso e diminuisce il rischio di sovrappeso e obesità. Il loro effetto saziante è di aiuto.

È quanto emerge da uno studio guidato dalla Loma Linda University School of Public Health e dalla International Agency for Research on Cancer, in collaborazione con 35 ricercatori che l’hanno revisionato,pubblicato sulla rivista European Journal of Nutrition.

Il team di ricerca ha analizzato le informazioni sulla dieta e sull’ indice di massa corporea di 373.293 persone, tra i 25 e i 70 anni, reclutate tra il 1992 e il 2000 in 10 Paesi europei nell’ambito dello studio European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition.

In media, i partecipanti allo studio hanno guadagnato nell’arco di cinque anni due chili e cento grammi, ma rispetto a chi non consumava affatto noci coloro che ne consumavano di più sono ingrassati meno. Gli amanti e consumatori di noci, mandorle, nocciole, pistacchi, e noccioline, infine, avevano un rischio del 5 per cento più basso di diventare sovrappeso o obesi. Joan Sabaté, autore senior dello studio, raccomanda di mangiarle più spesso, sottolineando che offrono energia, grassi buoni, proteine, vitamine e minerali.

Il consiglio è metterle al centro del piatto durante i pasti per sostituire i prodotti animali.

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L’autismo è una malattia altamente ereditabile la cui genesi dipende per l’83% da tratti genetici ereditari.

Lo rivela un lavoro di Sven Sandin della Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, pubblicato sulla rivista JAMA, studio che aggrava il peso di fattori ereditari sulla genesi dell’autismo, una malattia complessa e caleidoscopica, che si dipana con vari livelli di gravità.

E’ accertato che vi sia la connivenza di fattori ereditari, infatti la malattia ricorre spesso con più casi nella stessa famiglia. Ma finora si pensava che i geni avessero un peso pari (50% e 50%) a quello di fattori ambientali (tutto ciò che può potenzialmente influenzare lo sviluppo cerebrale del bambino sin dalla sua vita intrauterina e nei primissimi anni, dall’esposizione a determinate sostanze, a stili di vita familiari, a infezioni contratte etc).

Lo studio ha coinvolto 37.570 coppie di gemelli, 2.642.064 coppie di fratelli (non gemelli), 432.281 coppie di “fratellastri” figli della stessa madre e 445.531 figli dello stesso padre. A 14.516 bambini nel corso del tempo è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico. Confrontando gemelli e non gemelli si può stimare il peso di geni e ambiente sulla presenza o assenza di certe malattie, perché mentre i gemelli identici (omozigoti) hanno Dna identico al 100% (quindi tutte le differenze tra loro sono ascrivibili a fattori ambientali non condivisi da entrambi), i fratelli condividono lo stesso Dna per il 50%; i fratellastri invece per il 25%.

Dallo studio è emerso che il rischio di due fratelli di essere entrambi autistici sale al crescere della loro somiglianza genetica: significa che l’ereditabilità dell’autismo è alta (83%) mentre i fattori ambientali esterni contano meno (17%).

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