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I bambini che passano più tempo all’aria aperta e che fanno sport sono colpiti meno frequentemente da miopia. A dimostrarlo è stato un ampio studio dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam.

Un gruppo di ricercatori olandesi, coordinato da Caroline Klaver dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam, ha esaminato 5.711 bambini della città olandese che avevano preso parte, sin dalla nascita e insieme alle loro madri, a uno studio a lungo termine. A sei anni, i bambini sono stati sottoposti a un accurato esame medico e si è scoperto che i miopi si attestavano al 2,4%  miope. Klaver e colleghi avrebbero così scoperto che i bambini affetti da miopia avevano trascorso meno tempo all’aria aperta, avevano livelli di vitamina D più bassi, un indice di massa corporea superiore e avevano praticato meno sport.

In realtà anche l’origine non europea, il basso livello di istruzione della madre e la famiglia a basso reddito sarebbero stati fattori associabili all’insorgenza della miopia, ma i ricercatori hanno individuato anche che lo stile di vita potrebbe concorrere all’aumento di questo rischio. Mentre una limitazione dello studio sarebbe dovuta al fatto che non state raccolte informazioni sulla miopia dei genitori, “un fattore di rischio ben noto”, come hanno sottolineato gli stessi autori.

Lo stile di vita nei primi anni di vita è molto spesso associato allo sviluppo della miopia – spiega Klaver, principale autore dello studio -. Non stare fuori e fare lavori vicino alla fonte di luce aumenterà molto questo rischio”. “Le differenze nella miopia riscontrate tra diversi gruppi etnici – dice Jeremy Guggenheim, professore di optometria alla Cardiff University, nel Regno Unito, non coinvolto nello studio – potrebbero in effetti essere dovute ai diversi stili di vita tra i gruppi etnici. Questo studio e altri recenti lavori suggeriscono che l’effetto di prevenzione del tempo trascorso all’aria aperta sia vantaggioso anche prima, tra i 3 e i 6 anni”. E anche se lo studio non individua cause specifiche per la miopia, “i fattori di rischio individuati concordano con quello evidenziati negli ultimi anni”, conclude Guggenheim.

Fonte: British Journal of Ophtalmology


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L’assunzione a lungo termine di dolcificanti artificiali potrebbe essere associata ad un incremento dell’indice di massa corporea (Imc), ma anche all’insorgenza di ipertensione o il diabete di tipo 2.

I dolcificanti artificiali non sono privi di rischi e le persone che sperano di perdere qualche chilo sostituendoli con lo zucchero finiscono quasi sempre deluse. E’ quanto afferma una revisione di 37 studi pubblicata su CMAJ, secondo la quale l’uso di dolcificanti artificiali potrebbe essere legato ad un aumento di peso e allo sviluppo di altre condizioni patologiche come l’ipertensione o il diabete di tipo 2. “In tutti gli studi analizzati non c’erano prove coerenti di un beneficio a lungo termine dell’utilizzo di questi dolcificanti, ma c’erano prove di un aumento ponderale e di altri parametri cardiometabolici”, afferma l’autore principale della ricerca Meghan Azaddell’Università di Manitoba a Winnipeg in Canada.

La premessa
Gli edulcoranti artificiali come l’aspartame, il sucralosio e lo stevioside sono sempre più popolari dal momento che lo zucchero alimenta l’epidemia di obesità, scrivono gli studiosi. Ricerche fatte in precedenza mostravano risultati contrastanti, alcune correlavano l’utilizzo di dolcificanti ad un aumento di peso corporeo tanto quanto altre sembravano dimostrare il contrario. Proprio per questo i ricercatori hanno cercato di fare il punto della situazione.

Lo studio
Tra gli studi analizzati ce ne sono 7 randomizzati controllati: alcuni di questi avevano messo a confronto informazioni su persone che bevevano bibite zuccherate artificialmente e persone che bevevano acqua, per un totale di 1.003 persone esaminate. Dall’esito di questi trial non sono stati trovati legami tra l’uso di dolcificanti artificiali e variazioni dell’indice di massa corporea (BMI).

Tuttavia, dai dati raccolti sugli oltre 40.000 partecipanti altri 30 studi, i ricercatori hanno scoperto che il consumo di dolcificanti artificiali era associato ad un lieve aumento del Bmi, del peso, della circonferenza della vita, dell’obesità, dell’ipertensione, dei problemi cardiaci e della sindrome metabolica.

“Credo sia il caso di ripensare, eventualmente con qualche precauzione, a quali possano essere gli effetti di questi prodotti sulla salute”, afferma Azad, che ha precisato che è possibile che diversi edulcoranti abbiano effetti diversi. Questo aspetto, tuttavia, non è stato approfondito poiché non sufficientemente trattato negli studi a disposizione.

Fonte: CMAJ


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Molto ricorrente la cosiddetta “diarrea del viaggiatore”, a rappresentare il guastafeste principale dei turisti. Ma sono molto pericolose anche le infezioni sessuali e quelle legate agli insetti, soprattutto le zanzare. Ce lo ricordano gli specialisti della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali

Ogni anno, ed in particolare durante l’estate, si contano gli spostamenti di un miliardo di persone, tra turisti e professionisti. Un rischio, quello delle infezioni, che si rivela, quindi, particolarmente alto. Molto ricorrente la cosiddetta “diarrea del viaggiatore”, a rappresentare il guastafeste principale dei turisti che viaggiano in paesi dal clima caldo e a basso tenore igienico-sanitario. Ma sono molto pericolose anche le infezioni sessuali e quelle legate agli insetti, soprattutto le zanzare.

Infezioni sessuali
“Normalmente, durante i viaggi e le vacanze, la possibilità di avere degli incontri sessuali occasionali aumenta – spiega Massimo Andreoni, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e past president Simit – Non è un caso che, nel periodo successivo a quello estivo, si registri il picco assoluto annuale di pazienti con infezioni e malattie sessualmente trasmissibili. Il preservativo deve essere indispensabile, per qualsiasi tipo di rapporto si possa avere”.

Infezioni e liquidi
Altri pericoli si nascondono nelle acque dolci. Si tratta delle larve di schistosoma, parassita responsabile della schistosomiasi, e dei batteri della leptospirosi. I microbi responsabili della citata diarrea del viaggiatore possono invece nascondersi in cibi e bevande apparentemente potabili.

Alimenti
“Per quanto riguarda il cibo, quando le condizioni non sono ritenute sicure, quattro indicazioni semplici ma efficaci: ‘lavalo, cuocilo, sbuccialo o altrimenti dimenticalo’, aiutano a limitare il rischio di diarree infettive – spiega Massimo Galli, vicepresidente Simit – per le bevande, meglio limitarsi al contenuto di bottiglie sigillate ed evitare il ghiaccio, se non si è sicuri che sia stato prodotto con acqua ‘pulita’, perché conserva i microrganismi”.

Punture degli insetti
“Nel periodo estivo – aggiunge Andreoni – aumenta anche il rischio delle malattie trasmesse dalle punture di insetti; in particolare le zanzare possono essere particolarmente pericolose in quanto capaci di trasmettere malattie che possono risultare anche gravi quali la malaria, dengue, zika e chikungunya. Oltre alle zanzare si deve fare attenzione alle punture di zecche capaci di trasmettere sia infezioni virali che batteriche. Per evitare le punture di questi insetti il consiglio è sempre quello di coprire il più possibile le parti del corpo per ridurre il rischio di punture o usare repellenti cutanei che allontanano gli insetti. Infine bisogna fare attenzione alle punture di ragni e scorpioni che possono determinare lesioni fastidiose e in rari casi anche malattie sistemiche gravi”.


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Per quanto temporanei questi tatuaggi sono tra le cause più subdole delle dermatiti da contatto in età pediatrica. La conferma da uno studio a cura dell’equipe della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Perugia e recentemente pubblicato sulla rivista “International Journal of Environmental Research and Public Health”

Belli, indolori e soprattutto “a tempo”. I tatuaggi all’hennè sono ogni estate una forte tentazione soprattutto per bambini e adolescenti. Ma i rischi sono in agguato. Nonostante sembrino innocui a causa della sostanza chiamata para-fenilendiammina (Ppd), spesso aggiunta all’hennè naturale per ottenere un colore più scuro e duraturo, può scatenare sensibilizzazione cutanea che va da una dermatite irritativa più lieve, ma comunque fastidiosa, per chi ha una pelle molto sensibile fino a reazioni violente come gonfiore e rossore nelle persone allergiche al composto.

A rivelare il rischio dei tatuaggi all’hennè per la pelle di bambini e ragazzi è uno studio realizzato dall’Università degli Studi di Perugia e recentemente pubblicato sulla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health.

“L’uso di tatuaggi temporanei all’hennè – ha evidenziato Susanna Esposito, Professore ordinario dell’Università degli Studi di Perugia e presidente dell’Associazione Mondiale per le Malattie Infettive e i Disordini Immunologici, WAidid – è ormai una moda molto diffusa nel nostro Paese soprattutto in estate. I tatuaggi sembrano innocui ma non lo sono. Da evidenze scientifiche emerge, infatti, che la sostanza chiamata para-fenilendiammina (Ppd) che spesso viene aggiunta all’hennè naturale per ottenere un colore più scuro e duraturo, per le sue caratteristiche molecolari può indurre sensibilizzazione cutanea con varie manifestazioni cliniche alle riesposizioni, tra cui la più comune è la dermatite allergica da contatto. Nelle persone allergiche al composto, in particolare, il tatuaggio temporaneo può scatenare reazioni violente con gonfiore e rossore, mentre in chi ha una pelle molto sensibile e delicata può dare origine a una dermatite irritativa più lieve, ma altrettanto fastidiosa”.

Secondo i risultati emersi, nel 50% dei casi presi in esame i tatuaggi all’hennè provocano manifestazioni cutanee come prurito, eritemi, vescicole e bolle, orticarie, o reazioni sistemiche come linfoadenopatie e febbre entro uno o due giorni dalla prima applicazione; nel restante 50%, invece, i sintomi compaiono solo dopo un ritocco, mostrando quindi una sensibilizzazione cutanea alla para-fenilendiammina (PPD) presente nell’hennè, fino a 72 ore dall’effettuazione del tatuaggio.

La necessità di terapie di lunga durata è un altro fattore che emerge dallo studio: nella maggior parte dei casi, la persistenza delle lesioni è stata riscontrata anche a 7 giorni dall’inizio della terapia con cortisone e antistaminici e una persistente discromia cutanea è stata osservata anche dopo 4 settimane dalla fine della terapia. Se certamente si arriva alla risoluzione del prurito e ad un miglioramento delle lesioni cutanee, in tutti i casi, secondo i dati emersi, ad un anno di distanza è riscontrabile una ipopigmentazione cutanea sulla zona dedicata al tatuaggio.

D’altronde, la para-fenilendiammina è uno dei più potenti allergeni da contatto. Si tratta di un colorante blu scuro attualmente vietato, secondo la legislazione europea, per uso cosmetico ad eccezione delle tinture per capelli per le quali è consentita a basse concentrazioni, fino al 6%. Oltre a questa restrizione, è previsto che siano sempre indicate sull’etichetta delle avvertenze, come “Può causare una reazione allergica”, “Contiene fenilendiammina”, “Per uso professionale”, “Usare guanti idonei”, “Non usare per tingere ciglia e sopracciglia”.

“La sensibilizzazione alla Ppd – avverte Esposito – è un fenomeno in crescita nei bambini e negli adolescenti. La causa più comune sembra essere proprio l’esposizione ai tatuaggi con hennè in cui la Ppd può essere presente in concentrazioni sconosciute o alte. Dopo la sensibilizzazione, i pazienti possono sperimentare gravi sintomi clinici quando vengono riesposti a sostanze che contengono o reagiscono con Ppd, e possono presentare un’ipopigmentazione persistente. Dato l’uso diffuso di questa sostanza, meglio essere cauti considerando che sono molti i giovani che acquistano kit venduti on line, privi di qualsiasi garanzia, oppure si affidano a tatuatori improvvisati sulle spiagge che usano materiali scadenti e potenzialmente rischiosi”.


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La proroga della campagna, avviata nel 2015 a causa dell’incremento di casi, era già stata annunciata, ma ora la Giunta ha approvato la delibera. La fascia di età che si è maggiormente sottoposta al vaccino è quella dai 20 ai 45 anni (404.155). Nei primi cinque mesi del 2017 si sono vaccinate 140.865 persone.

Con una delibera approvata ieri pomeriggio, la giunta regionale della Toscana ha deciso, come già annunciato, di prorogare di altri 6 mesi, quindi fino al 31 dicembre 2017, la campagna straordinaria di vaccinazione contro il meningococco C, avviata nell’aprile 2015 per contenere il diffondersi della meningite nella Regione.

E in questa occasione la Toscana diffonde anche i dati sui risultati ottenuti attraverso la campagna: in poco più di due anni, dall’avvio della campagna straordinaria di vaccinazione (aprile 2015) al 31 maggio 2017 (ancora non sono definitivi i dati relativi al giugno 2017), sono state vaccinate oltre 900.000 persone.

Questi, in dettaglio, i dati dall’aprile 2015 al 31 maggio 2017:
225.072 nella fascia di età dagli 11 anni compiuti al compimento dei 20 anni
404.155 nella fascia di età dai 20 anni compiuti al compimento dei 45 anni
273.647 dai 45 anni compiuti
In tutto, quindi, sono state vaccinate 902.874 persone.
Alla campagna straordinaria risulta che abbia aderito il 77% dei pediatri di famiglia e l’86% dei medici di medicina generale.

Per quanto riguarda i nuovi nati (che non rientrano nella campagna straordinaria di vaccinazione), a 24 mesi di età (quindi nati nel 2013) risulta una copertura del 91%.

“Considerato che ad oggi, nonostante il significativo calo delle notifiche dei casi di meningiococco C rispetto al corrispondente periodo del precedente biennio, risultano comunque segnalati al sistema di sorveglianza delle malattie batteriche invasive 6 casi di meningite C, la Giunta ha comunque deciso di prorogare di altri 6 mesi la campagna straordinaria di vaccinazione”, spiega una nota della Regione.

Anche nei primi cinque mesi del 2017 si è registrata una buona adesione al programma di promozione straordinaria della vaccinazione da parte della popolazione, perché nel periodo considerato risultano vaccinate 140.865 persone (dato compreso nel totale di 902.874 riportato sopra).


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Sono le conclusioni alle quali è giunto un ampio studio osservazionale pubblicato su Annals of Internal Medicine. La ricerca ha anche evidenziato che chi beve caffè ha una migliore funzionalità epatica, immunitaria e un miglior controllo glicemico. Spetterà ora a studi di intervento stabilire la ‘dose’ giusta per ottenere l’effetto allunga-vita. Per ora gli esperti consigliano di attenersi ad un moderato consumo, pari a circa tre tazze di caffè al giorno

Chi beve in media tre caffè al giorno potrebbe vivere più a lungo di chi non ama questa bevanda. A suggerirlo è uno studio appena pubblicato su Annals of Internal Medicine che è anche il più ampio mai realizzato finora sull’argomento.

Il lavoro, firmato da ricercatori dell’International Agency for Research on Cancer (IARC) e dell’Imperial Collegedi Londra e finanziato dal Directorate General for Health and Consumers della European Commission e dallo IARC, ha preso in esame i dati di oltre mezzo milione di persone, residenti in dieci diverse nazioni europee, per valutare se il consumo di caffè fosse legato in qualche modo al rischio di mortalità. Il risultato è stato che il chi consuma più caffè presenta un ridotto rischio di mortalità per tutte le cause, ma in particolare per quella cardiovascolare e per la mortalità causata da patologie del tratto digerente. E si tratta certo di buone notizie, considerato il fatto che ogni giorno nel mondo si consumano 2,25 miliardi di tazze di caffè.

La bevanda nera contiene numerosi principi attivi in grado di interagire col nostro organismo: non solo caffeina, ma anche anti-ossidanti e diterpeni.

Gli studi condotti finora sull’argomento  hanno dato risultati contrastanti ma questo appena pubblicato è il più vasto di tutti e dunque quello più vicino di tutti a dare risposte definitive. I risultati sulla riduzione di mortalità sono stati coerenti per tutti i tipi di caffè considerati (anche se certo tra un espresso napoletano e un caffè tedesco le differenze non sono poche).

“Abbiamo riscontrato – afferma il principale autore dello studio, il dottorMarc Gunter dello IARC – che un maggior consumo di caffè si associa ad un rischio inferiore di mortalità da tutte le cause e in particolare da malattie cardiovascolari e del tratto digerente. Questi risultati sono sostanzialmente gli stessi in tutte e dieci le nazioni europee coinvolte in questo studio, a prescindere cioè dalle diverse abitudini rispetto al consumo e alla preparazione del caffè. Questa ricerca ha fornito inoltre degli interessanti spunti sui possibili meccanismi alla base dei benefici del caffè per la salute”.

Sono stati utilizzati i dati dello studio EPIC(European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), relativi a 521.330 persone dai 35 anni in su residenti in 10 nazioni dell’Unione Europea, comprese Italia, Gran Bretagna, Francia e Danimarca. Le abitudini dietetiche delle persone sono state esplorate mediante questionari e interviste. Il consumo più elevato di caffè è stato registrato in Danimarca (900 ml/die); quello più basso, per quanto riguarda le quantità, in Italia (92 ml/die). I più forti bevitori di caffè erano in genere più giovani, fumatori, consumatori di bevande alcoliche, mangiavano più carne e meno frutta e vegetali. Insomma non erano esattamente dei campioni di dieta sana e di stile di vita.

Dopo 16 anni di follow up, in questa grande coorte di pazienti sono stati registrati circa 42.000 decessi (attribuiti a varie condizioni, dal cancro alle patologie cardio e cerebro vascolari). Dopo gli adeguati aggiustamenti statistici relativi a dieta e abitudine tabagica, i ricercatori hanno evidenziato che i soggetti con il più alto consumo di caffè presentavano il rischio più basso di mortalità per tutte le cause, rispetto ai non bevitori di caffè e che anche il caffè decaffeinato presentava questo effetto protettivo.

In un sottogruppo di 14.000 soggetti sono stati analizzati anche dei biomarcatori metabolici e questo ha consentito di appurare che gli amanti del caffè presentavano in genere un fegato più sano e un miglior controllo glicemico dei non bevitori di caffè. “Bere maggiori quantità di caffè si associa ad una funzionalità epatica e ad una risposta immunitaria migliori – spiega Gunter – e questo fornisce ulteriori prove (che si aggiungono ai risultati di studi simili condotti in Usa e in Giappone) degli effetti potenzialmente benefici del caffè sulla salute”.

“Questi risultati – commenta il professor Elio Riboli, direttore della School of Public Health dell’Imperial College e iniziatore dello studio EPIC – si aggiungono ad una mole crescente di prove che dimostra come bere caffè non solo è sicuro, ma può addirittura avere un effetto protettivo per la salute. E i risultati di questo ampio studio europeo confermano quanto trovato da precedenti studi condotti in altri Paesi”.

Sarà adesso interessante andare a vedere quale (o quali) delle sostanze presenti nel caffè è responsabile di questi effetti protettivi. Anche perché, per quanto interessanti, questi risultati derivano da uno studio osservazionale e non di intervento, con tutte le limitazioni del caso.

“Visti i limiti di questo studio – conclude Gunter – non possiamo ancora raccomandare alla gente di bere una quantità maggiore o minore di caffè. Detto ciò, questi risultati suggeriscono che un consumo moderato, intorno alle tre tazze al giorno, non è dannoso per la salute e che anzi, incorporare il caffè nella dieta, potrebbe avere effetti positivi per la salute”.


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Le persone che hanno utilizzato un solarium almeno una volta in qualsiasi fase della loro vita hanno un rischio di sviluppare il melanoma del 20% in più rispetto a quelli che non hanno mai utilizzato un lettino e il primo utilizzo di lettini prima dell’età di 35 anni aumenta il rischio di sviluppare il melanoma del 59%. Ecco le azioni per limitare l’uso di dispositivi artificiali di abbronzatura e per ridurre i rischi sanitari associati

Brutte notizie per chi, in vista dell’estate, non vuole arrivare in spiaggia color “mozzarella” e pensa di farsi una prima abbronzatura con lampade o lettini solari:  l’Oms rende noto che le ricerche dimostrano che le persone che hanno utilizzato un solarium almeno una volta in qualsiasi fase della loro vita hanno un rischio di sviluppare il melanoma del 20% in più rispetto a quelli che non hanno mai utilizzato un lettino e il primo utilizzo di lettini prima dell’età di 35 anni aumenta il rischio di sviluppare il melanoma del 59 per cento.

L’Oms sottolinea le azioni per limitare l’uso di dispositivi artificiali di abbronzatura per ridurre i rischi sanitari associati, come il melanoma e i tumori della pelle anche non melanoma.

Per più di tre decenni l’esposizione ai raggi ultravioletti (UVR) per scopi cosmetici ha aumentato l’incidenza di tumori della pelle che nel tempo hanno ridotto l’età della loro prima apparizione secondo un nuovo rapporto dell’Oms “Dispositivi per abbronzatura artificiale: interventi sanitari pubblici per gestire i lettini”.

È stato stimato che l’uso di questi strumenti sia responsabile di più di 450.000 casi di cancro della pelle “non melanoma” e più di 10.000 casi di melanoma ogni anno negli Stati Uniti, Europa e Australia. La maggior parte degli utenti sono donne, in particolare adolescenti e giovani adulti.

“Non c’è dubbio: i lettini sono pericolosi per la nostra salute”, dice Maria Neira, direttrice dell’Oms, Dipartimento della sanità pubblica, determinanti ambientali e sociali della salute. “I paesi – aggiunge – devono considerare se vietare o limitare il loro utilizzo e informare tutti gli utenti dei rischi per la salute”.

Nel 2009, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) dell’Oms ha classificato l’esposizione ai dispositivi abbronzanti UV come cancerogeno per l’uomo. Più di 40 autorità nazionali e provinciali in tutto il mondo hanno attuato immediatamente divieti o restrizioni sull’uso dei lettini. Tuttavia, è necessario ancora molto lavoro per limitarne l’uso. La nuova relazione dell’Oms delinea le politiche adottate da alcuni paesi per regolamentare la questione: lettini proibiti o limitati e comunque a utilizzo gestito. Le opzioni per limitare l’accesso ai lettini includono l’impostazione di un limite di età per il loro utilizzo, impedendolo a popolazioni con pelle sensibile, come quelle con lentiggini o che si ustionano facilmente, e vietare l’accesso non sorvegliato.

Il cancro della pelle è la forma più comune di cancro tra le popolazioni. La principale causa ambientale del cancro della pelle è proprio la radiazione ultravioletta (UVR). L’esposizione ai raggi UV è principalmente quella legata al  sole, ma negli ultimi tre decenni si è registrato un aumento dell’uso di fonti artificiali di UVR in forma di apparecchiature di abbronzatura, come lettini, cabine e lampade solari facciali. Questa esposizione deliberata a UVR per scopi cosmetici sta aumentando l’incidenza dei principali tipi di cancro della pelle e diminuisce l’età della sua prima apparizione.

Al di là delle restrizioni, alcune nazioni hanno gestito l’uso dei dispositivi solari mediante licenze specifiche agli stabilimenti abbronzanti, limitando le esposizioni al sole e con operatori addestrati e tasse sulle sedute abbronzanti. L’educazione del pubblico è considerata essenziale e si ottiene attraverso campagne di sensibilizzazione, avvisi e forme d’informazione.

In Italia sono stati introdotti controlli legislativi che richiedono agli operatori di vietarne l’uso da parte di persone con pelli sensibili e a rischio e donne in gravidanza.

Lettini, lampade solari, e cabine  di abbronzatura emettono livelli nocivi di UVR che hanno gli stessi effetti della luce del sole tropicale a mezzogiorno e aumentano il rischio di sviluppare il melanoma e il cancro della pelle “non melanoma”. I rischi aggiuntivi per la salute sono invecchiamento cutaneo precoce, infiammazione oculare e riduzione se non soppressione del sistema immunitario.

I sistemi abbronzanti artificiali  presentano un rischio specifico per il melanoma anche indipendentemente dal tipo di pelle e dall’esposizione solare. Il rischio di melanoma aumenta con l’età: prima avviene l’utilizzo dei solarium peggio è e altrettanto grave è il rischio per chi ne fa un utilizzo continuo nella sua la vita.


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Le regole per il Pane e il Vino della celebrazione eucaristica sono contenute in una Lettera circolare che la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha rivolto ai Vescovi.

Le ostie gluten-free non possono essere utilizzate per la Messa. I fedeli celiaci possono comunicarsi assumendo ostie contenenti quantitativi di glutine idonei per i pazienti e riconosciuti dalla Santa Sede. È quanto ribadisce la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti in una “Lettera circolare ai Vescovi sul pane e il vino per l’Eucaristia” in cui si dice, senza mezzi termini, che “la Chiesa esige certezza rispetto alle condizioni necessarie per la validità dei sacramenti”.

La lettera, in realtà, non aggiunge nulla di nuovo rispetto a già quanto contenuto nella “Circolare ai Presidente delle Conferenze Episcopali circa l’uso del pane con poca quantità di glutine e del mosto come materia eucaristica” nel Luglio 2003 e a sua volta anticipato dalle norme stabilite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1995. Si tratta, quindi, di un richiamo alle regole, anche quelle per dispensare la comunione alle persone che, “per diverse e gravi motivazioni, non possono assumere pane normalmente confezionato o vino normalmente fermentato”.

Si ribadisce quindi che “le ostie completamente prive di glutine sono materia invalida per l’Eucaristia. Sono materia valida le ostie parzialmente prive di glutine e tali che sia in esse presente una quantità di glutine sufficiente per ottenere la panificazione senza aggiunta di sostanze estranee e senza ricorrere a procedimenti tali da snaturare il pane”.

Stabilito che le ostie, per essere conformi alle norme ecclesiastiche, devono contenere glutine, seppur in minimi quantitativi, l’Associazione Italiana Celiachia intende rassicurare i fedeli celiaci chiarendo che, tenuto in considerazione il quantitativo di particola assunta dal fedele, “sono considerate idonee al celiaco sia le ostie garantite ‘senza glutine’ (contenuto massimo di glutine di 20 mg/kg) sia le ostie ‘con contenuto di glutine molto basso’ (contenuto massimo di 100 mg/kg)”.

“La Congregazione per la Dottrina della Fede è intervenuta in modo altamente proficuo dando facoltà agli Ordinari di autorizzare l’uso di ostie con ridotta quantità di glutine per i fedeli celiaci e garantendo, di fatto già dal lontano 1995, la possibilità per i celiaci cattolici italiani di accostarsi al Sacramento dell’Eucaristia nella forma del pane e del vino, senza rischi per la propria salute” dichiara Giuseppe Di Fabio, Presidente dell’Associazione Italiana Celiachia.

Una garanzia importante, a cui l’Associazione ha inteso conferire ulteriore efficacia diffondendo una serie di indicazioni rivolte a quanti sono coinvolti nel ministero liturgico e riferite in particolare alle attenzioni necessarie a garantire l’idoneità delle particole nella loro conservazione e somministrazione ai fedeli.

Niente allarmismi quindi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Ma le associazioni dei celiaci spiegano che “non è così per numerosi altri Paesi nei quali non è ancora possibile comunicarsi con ostie a basso contenuto di glutine, non pericolose per chi soffre di celiachia ma valide per la Celebrazione Eucaristica”. A questo proposito l’Associazione Italiana Celiachia ha recentemente inviato una lettera al Santo Padre su incarico dell’AOECS, la Federazione delle Associazioni Celiachia Europee. “Abbiamo indirizzato una lettera al Santo Padre a nome degli oltre 12 milioni di fedeli cattolici nel mondo la cui terapia prevede la rigorosa esclusione del glutine dalla dieta per tutta la vita – spiega il Presidente Di Fabio – attraverso la nostra istanza chiediamo che in ogni luogo della Terra sia possibile, per il fedele celiaco, accostarsi in sicurezza al Sacramento Eucaristico”.

Dall’Associazione arriva poi una seconda istanza rivolta al Santo Padre che riguarda la sfera sociale dei fedeli celiaci, con particolare attenzione ai minori. “La possibilità di accostarsi in tutta sicurezza al Sacramento dell’Eucarestia è ormai un punto fermo in Italia. Oggi chiediamo un’ulteriore segnale di attenzione da parte della Chiesa nei confronti dei fedeli affetti da una patologia che colpisce l’1% della popolazione mondiale attraverso la diffusione di linee guida per la Comunione che possano suggerire, per i momenti della Prima Comunione e della Cresima in cui siano presenti minori celiaci, che il Sacramento venga somministrato con ostie per celiaci a tutti i fedeli riuniti in Assemblea” conclude il Presidente Di Fabio che auspica “un nuovo, forte, segnale di normalizzazione per i bambini e i ragazzi celiaci che avrebbero l’opportunità di vivere i momenti fondamentali del loro percorso spirituale senza conseguenze emotive in seguito alla diversità di trattamento dovuta alla loro condizione”.


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Si celebra il 6 luglio la giornata mondiale del bacio (www.kissingday.com), uno dei gesti più semplici e al tempo stesso preziosi che esistano, che tra l’altro è un toccasana per la salute.

In primo luogo un bacio intimo rinforza il sistema immunitario. In 10 secondi può trasmettere 80 milioni di batteri, secondo gli esperti della Netherlands Organisation for Applied Scientific Research, ma tutto questo non fa male, anzi rinforza le nostre difese immunitarie. E se non dovesse essere un argomento convincente al punto giusto, ecco che l’esperta Andréa Demirjian nel suo libro” Kissing: Everything you ever wanted to know about one of life’s sweetest pleasures” elenca altre virtù del bacio: combatte dolori come quello mestruale e il mal di testa grazie al suo effetto vasodilatatore, abbassa la pressione, migliora l’umore mettendo in circolo ormoni “della felicità” e sostanze che fanno bene al cervello come al resto del corpo, quali serotonina, dopamina e ossitocina, e infine aumentando la salivazione aiuta a combattere la carie. Il bacio, poi, è un antistress naturale e dolcissimo, perché riduce i livelli di cortisolo, proprio considerato “l’ormone dello stress”. In più, baciare allena i muscoli facciali ed è quindi un antirughe: secondo uno studio inglese richiede il coordinamento di 146 muscoli, tra cui 34 facciali e 112 posturali. Di qualunque genere sia, anche amicale, migliora l’autostima e in una coppia fa da ‘termometro’ della relazione.

ANSA


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Due litri di acqua minerale al giorno, oppure tre tazze di latte. Ecco come assicurarsi l’apporto giornaliero di Calcio. L’acqua minerale offre il vantaggio di non fornire calorie. Un aspetto da tenere in considerazione nei soggetti obesi o sovrappeso. È quanto emerge da uno studio tedesco.

Garantirsi un adeguato apporto di Calcio? Semplice, come bere un bicchiere di acqua minerale, ricca di questo minerale, ma a calorie zero. È quanto emerge da uno studio condotto in Germania e pubblicato dal Journal American College Nutrition. “La caratteristica peculiare dell’acqua minerale è la sua ricchezza in Calcio, senza però avere le calorie che si trovano nel latte e nei suoi derivati – dice Theresa Greupner dell’Università Leibniz di Hannover, autrice principale dello studio –. In un mondo con un numero sempre crescente di persone obese o in sovrappeso, è importante ridurre l’assunzione calorica e promuovere alternative per soddisfare la richiesta di Calcio, al di là del latte e dei formaggi”.

Lo studio
Il lavoro dei ricercatori tedeschi  ha rilevato come il corpo riesca ad assorbire adeguatamente il Calcio da cinque diversi tipi di alimenti, ciascuno contenente 300 mg di Calcio: tre tipi di acqua minerale, il latte e un integratore di Calcio. Alla ricerca hanno partecipato 21 individui. Nessuna differenza è stata evidenziata su come il Calcio veniva assorbito dalle cinque diverse fonti.  La maggior parte delle acque minerali elenca gli elementi presenti sull’etichetta  e più elevata è la quantità di Calcio, migliore è l’acqua come fonte di questo minerale. Una persona avrebbe bisogno di bere due litri di acqua minerale da 500 mg/L al giorno, oppure più di tre tazze di latte per soddisfare il bisogno quotidiano di 1000 mg di Calcio.

Negli Stati Uniti per gli adulti si raccomandano 1.300 mg al giorno di Calcio. In Italia, da questo punto di vista, siamo fortunati. L’acqua minerale che sgorga dalle nostre sorgenti è molto ricca di Calcio. Maria Luisa Brandi, dell’Università di Firenze, ha condotto uno studio che ha dimostrato come il calcio contenuto nell’acqua venga assorbito dall’organismo come quello contenuto nel latte. “Si tratta di un concetto ben consolidato in medicina – sottolinea Maria Luisa Brandi– per cui raccomandiamo acqua ad elevato contenuto di Calcio per i pazienti affetti da osteoporosi”.

Fonte: Journal American College Nutrition


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