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Gli smartphone hanno cambiato il nostro modo di camminare. Quando li usiamo mentre siamo per strada, guardiamo meno cosa c’è per terra, perché troppo concentrati a fissare lo schermo, e siamo così portati a sollevare il piede “guida” più in alto e più lentamente, per scansare il rischio di ostacoli. Insomma, la nostra camminata alla fine risulta decisamente più “sbilenca”.

A evidenziarlo uno studio della Anglia Ruskin University, pubblicato su Plos One. Gli studiosi hanno analizzato 21 persone con tracciatori oculari e sensori di analisi del movimento, mettendole di fronte ad ostacoli che per altezza erano simili a dei cordoli stradali. Hanno esaminato 252 scenari separatamente che prevedevano, mentre si camminava, la lettura di messaggi di testo o altro.

Dai risultati è emerso che, quando si utilizzava il telefono, si tendeva a guardare per terra meno spesso e per meno tempo. Nello studio, la quantità relativa di tempo trascorso a guardare gli ostacoli risultava diminuita fino al 61%. Non solo: la ricerca ha evidenziato che quando si scriveva un messaggio, il piede “guida” era più alto del 18% e il 40% più lento.

«Usando il telefono, adattiamo il nostro stile di camminata in modo da poter affrontare gli ostacoli statici in modo sicuro. Ciò si traduce in un modo di procedere lento e con dei tratti molto pronunciati – spiega l’autore principale della ricerca, Matthew Timmis -. Gli incidenti sono probabilmente il risultato di oggetti che improvvisamente appaiono, ad esempio altri pedoni o veicoli. La Cina ha già iniziato a fare percorsi pedonali con corsie speciali per coloro che utilizzano i cellulari».

ANSA


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Una regolare attività fisica, come camminare o nuotare, potrebbe contribuire a ridurre il rischio di soffrire di mal di schiena cronico del 16%.

Per indagare su rapporto tra lombalgia cronica e attività fisica, Shiri e il collega Kobra Falah-Hassani hanno analizzato 36 studi che prendevano in considerazione, complessivamente, 160mila persone che non soffrivano di lombalgia cronica all’inizio dello studio. In particolare, i due ricercatori hanno preso in esame qualsiasi sforzo fisico non correlabile al lavoro, incluso camminare e fare le scale, oltre a sport o altre forme di esercizio fisico. Le persone erano considerate “attive” se facevano queste attività almeno una o due volte a settimana, per almeno 30-60 minuti.

Shiri e Falah-Hassani hanno così scoperto che i pazienti moderatamente o intensamente attivi avevano una riduzione, rispettivamente del 14 e del 16%, del rischio di soffrire di mal di schiena cronico, rispetto alla categoria di pazienti meno attiva. L’esercizio fisico, invece, non avrebbe effetto sul dolore acuto o occasionale. E’ stato definito cronico il dolore che era durato più di 30 giorni nei 12 mesi precedenti lo studio.

I commenti
Secondo gli stessi autori, i limiti di questo studio risiederebbero nel fatto che alcune ricerche prese in considerazione non avrebbero tenuto conto dei fattori che possono aver influenzato i risultati, come l’esercizio fisico legato all’attività lavorativa, la depressione o la dipendenza dal fumo, che normalmente rendono inattive le persone. Inoltre sarebbero stati considerati pochi anziani, e questo non permette di affermare che l’esercizio fisico è d’aiuto a qualsiasi età. Le persone anziane, infatti, hanno una maggiore probabilità di essere inattive a causa del mal di schiena, come sottolineato dagli stessi autori. “Le persone stanno diventando sempre più consapevoli della necessità di fare attività fisica” dice Joel Press, fisiatra presso l’Hospital for Special Surgery di New York, che consiglia sempre a chi soffre di mal di schiena di fare una leggera attività fisica, come camminare. “Anche il nuoto è un’attività a basso impatto sulla schiena”, aggiunge l’esperto, mentre potrebbe essere meglio evitare di iniziare con gli sport che richiedono torsioni, come il golf, il baseball e il tennis.

Fonte: British Medical Journal of Sports Medicine


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Vivere in città aumenta il rischio di diabete, e in Italia il 52% delle persone con questa malattia risiede nei primi 100 centri urbani.

Lo affermano i dati presentati all’evento promosso a Roma da Italian Barometer Diabetes Observatory (IBDO) Foundation e da Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, per celebrare la decima edizione dell’Italian Barometer Diabetes & Obesity Forum.

Una persona su tre con diabete, hanno spiegato gli esperti, risiede nelle 14 città metropolitane italiane, e a Roma è diabetico il 6,5% della popolazione, contro il 5,4% della media nazionale. «Con ‘diabete urbano’ si vuole definire la malattia diabetica che riguarda le persone che vivono nelle aree urbanizzate – spiega Andrea Lenzi, Presidente di Health City Institute – ambiente che, come è ben dimostrato, influenza il modo in cui le persone vivono, mangiano, si muovono, tutti fattori che hanno un impatto sul rischio di sviluppare il diabete».

Il 70% dei diabetici italiani, è emerso durante l’evento, ha più 60 anni. La malattia è la causa di morte unica o in concorso con altre patologie per 100mila persone l’anno, con le regioni del Sud che però hanno i valori maggiori di prevalenza e mortalità.

ANSA


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Salgono a 3.232 i casi di morbillo registrati in Italia dall’inizio 2017. Di questi, 192 hanno riguardato neonati sotto l’anno di vita e due hanno portato alla morte. Relativamente al solo mese di giugno, i casi notificati sono stati 184, erano stati 85 nello stesso mese del 2016.

E’ quanto emerge dal 14/mo bollettino settimanale (aggiornato al 25 giugno) a cura di Ministero della Salute e Istituto superiore della sanità (ISS), nato per monitorare l’epidemia in corso nel nostro Paese. Si tratta, non di tutti i casi verificatisi, bensì solo di quelli arrivati a conoscenza delle autorità.

Nei primi sei mesi del 2017, sono stati 246 i casi tra gli operatori sanitari, cioè una categoria particolarmente a rischio di contagiare persone che presentano un sistema immunitario indebolito.

Quasi tutte le Regioni (18 su 21) hanno segnalato casi, ma il 90% proviene da 7: Piemonte, Lazio, Lombardia, Toscana, Abruzzo, Veneto e Sicilia. L’età media è di 27 anni, l’89% non era stato vaccinato, il 7% aveva ricevuto una sola dose, il 35% ha avuto almeno una complicanza, il 40% è stato ricoverato, il 16% si è recato in pronto soccorso. Le complicanze più di frequenti sono state diarrea, stomatite, congiuntivite, polmonite, epatite e insufficienza respiratoria.

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Il 77% dei giovani tra 14 e 19 anni cerca notizie sul web riguardo alla salute, con la forma fisica e l’alimentazione in cima alla lista degli argomenti preferiti.

Lo afferma la ricerca “Diagno//click” dell’associazione Family Smile, presentata oggi alla Camera. L’indagine ha coinvolto 1.713 adolescenti delle scuole superiori in 10 regioni, che hanno risposto a un questionario di 12 domande. Il 27% sia dei maschi che delle femmine ha cercato come prima cosa informazioni sulla forma fisica. Per le adolescenti al secondo posto c’è l’alimentazione (l’argomento più frequente nel 26% dei casi), poi farmaci (11%) e sessualità (10%). L’alimentazione è al secondo posto anche per gli adolescenti maschi (17%), seguono sessualità (14%) e alcool (12%). «Il concetto stesso di salute è diverso da quello che hanno gli adulti – ha affermato Andrea Catizone, presidente dell’associazione Family Smile -. Se per l’accezione comune e le stesse istituzioni è ‘assenza di malattia’, per loro è invece ‘avere un corpo scolpito’». Solo il 45% degli intervistati si confronta con le istituzioni sui risultati delle ricerche in rete.

«L’adolescenza è una fase di transizione, in cui ai ragazzi serve una rete di protezione – ha commentato Filomena Albano, garante per l’infanzia e l’adolescenza -. Anche nei trattati internazionali si parla di salute come diritto anche a uno stile di vita buono, perché il termine salute non è assenza di malattia, ma costruzione del benessere dell’individuo, che deve accompagnare la vita fin dall’infanzia».

La ricerca ha confermato lo scarso interesse per le malattie sessualmente trasmissibili da parte dei giovani, con appena il 10% del campione che ha messo questo tema tra le ricerche prioritarie.

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Assumere molti farmaci, cosa piuttosto comune tra le persone anziane, può essere legato a diversi problemi di salute ma anche a una maggiore difficoltà nel camminare.

A puntare il dito contro la ‘politerapia’, ovvero l’assunzione di cinque o più farmaci diversi, è uno studio apparso sul Journal of American Geriatrics Society. I ricercatori hanno esaminato i dati di 482 persone di 65 anni o più per determinare quali cambiamenti nel sistema nervoso centrale si verifichino durante l’invecchiamento e come influenzino la capacità di camminare. Il 34% dei partecipanti assumeva cinque o più farmaci; il 10% più di otto.

I partecipanti, oltre a dover riferire tutti i farmaci che stavano prendendo, compresi gli integratori, sono stati esaminati dettagliatamente circa la loro salute fisica e mentale, all’inizio dello studio e durante il follow-up, dal 2011 al 2016. Ne è stata anche valutata la velocità di percorrenza di un tragitto di 20 metri, a piedi, al ritmo normale di camminata. Le persone in politerapia avevano maggiori probabilità di avere alta pressione, insufficienza cardiaca, diabete, sovrappeso e attacchi cardiaci. Inoltre avevano una velocità di camminata più bassa.

«La politerapia – spiega Nicola Ferrara, presidente Società Italiana di Geriatria e Gerontologia (Sigg) – è un problema rilevante perché aumenta il rischio di interazioni tra farmaci, di assunzioni non corrette ed effetti collaterali». Inoltre, è sottovalutato perché «erroneamente, spesso si ritiene che lassativi, integratori e farmaci da banco non siano ‘veri farmaci’ e quindi si omette di riferire al medico della loro assunzione».

Cosa fare dunque? «Ridurre la terapia ai soli farmaci indispensabili, prescriverli in modo chiaro ed educare il paziente e i familiari a riconoscere per tempo gli effetti collaterali».

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Dal fumo alla dieta. Uno studio pubblicato dal Journal American College Cardiology ha valutato il rapporto tra il conseguimento di sette obiettivi di salute cardiovascolare e l’effettiva riduzione dei rischi, nonché dell’allungamento della vita. È emerso che il raggiungimento anche di un solo obiettivo è efficace a qualsiasi età.

Sono sette gli obiettivi di salute cardiovascolare individuati dall’American Heart Association, il cui raggiungimento – totale o parziale – sarebbe associato a una vita più lunga e a minori eventi cardiovascolari, indipendentemente dall’età. Infatti in un gruppo di pazienti anziani partecipanti allo studio “i vantaggi di una salute cardiovascolare ideale nel ridurre la mortalità e gli eventi vascolari (infarto, ictus) è stato paragonabile a quello che si osserva nelle fasce di popolazione più giovane – ha detto Bamba Gaye, dell’Università Paris Descartes, autrice principale dello studio – Questa è una buona notizia, in quanto suggerisce che non è mai troppo tardi per impedire lo sviluppo di fattori di rischio per la malattia cardiovascolare”.

Lo studio
Gaye e colleghi hanno preso in esame oltre 7 mila persone per vedere come il conseguimento dei sette obiettivi ideali o ‘Life’s Simple 7’, avrebbe potuto influenzare il rischio di morte o di avere un ictus o un attacco cardiaco nel corso dello studio.

I sette obiettivi includevano:
– Indice di massa corporea (BMI) inferiore al valore del sovrappeso
– Svolgimento di un’attività fisica vigorosa per 75 minuti a settimana o di una moderata attività fisica, almeno per 150 minuti a settimana
– Non fumare o aver smesso almeno da 12 mesi
– Seguire una dieta sana che includa verdure e frutta fresca ogni giorno, pesce due volte o più a settimana e meno di 450 calorie a settimana di zuccheri
– Avere una pressione sanguigna sotto i 120/80, senza farmaci
– Mantenere un livello di colesterolo normale, senza farmaci
– Mantenere un normale livello di zuccheri nel sangue, senza farmaci

Dei 7371 partecipanti , la cui età media era di 74 anni, solo un individuo è riuscito a raggiungere i sette goals e solo il 5% dei partecipanti ne ha raggiunti almeno 5. I risultati sono stati pubblicati dai ricercatori sul Journal of the American College of Cardiology. Per tutti gli obiettivi, ad eccezione dell’attività fisica e del colesterolo totale, le donne avevano maggiori probabilità rispetto agli uomini di essere ad un livello ideale.

Gli altri risultati
Il gruppo di ricerca ha seguito i soggetti arruolati nello studio per monitorare la loro salute; metà dei partecipanti è stata seguita per più di nove anni. Rispetto ai soggetti che non raggiungevano più di due obiettivi, per quelli che hanno raggiunto tre o quattro target il rischio di morte durante lo studio si era ridotto del 16% mentre il raggiungimento di cinque-sette target aveva ridotto il rischio del 29%.

Infatti, il rischio di morte è diminuito del 10% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. Ugualmente, il rischio di malattie cardiache coronariche e ictus si è ridotto del 22% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. “Il goal ideale sarebbe quello di non avere alcun fattore di rischio per malattia cardiovascolare – ha osservato Gaye – Tuttavia, il nostro studio dimostra anche un beneficio per gradi sulla base del numero di fattori di rischio portati a livello ottimale. Quindi un approccio forse più realistico potrebbe essere quello di consigliare ai soggetti anziani di avere almeno un fattore di rischio a livello ottimale e di raggiungere progressivamente livelli ottimali degli altri fattori di rischio”.

“L’obiettivo di un invecchiamento di successo non è l’immortalità, ma il tempo trascorso con malattia e disabilità – ha scritto in un editoriale sullo studio, Karen P. Alexander della School of Medicine della Duke University di Durham – Questo studio ci ricorda che i fattori di rischio e le modifiche dello stile di vita non hanno data di scadenza e continuano a produrre benefici per una vecchiaia sana, ben oltre i 70 anni. Gli anziani dovrebbero concentrarsi non tanto sul perfetto raggiungimento del ‘Life’s Simple 7’ quanto piuttosto sul percorso di lavoro necessario per raggiungere questi obiettivi”.

Fonte: Journal American College Cardiology


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Si è chiuso a Roma il seminario “Donne e Droghe: dalla politica alla buona pratica”. Per l’occasione anche la Federazione Italiana Medici Pediatri, la Fimp, ha dato il suo contributo. Il consumo di droghe tra i giovanissimi sta crescendo e per rispondere a questo fenomeno la Fimp ha proposto di organizzare programmi di formazione nelle scuole: “spesso si inizia in età pre-adolescenziale – ha detto il presidente Giampietro Chiamenti  – Bisogna fornire alle famiglie gli strumenti per intervenire precocemente”.

“La Federazione Italiana Medici Pediatri, la Fimp, è pronta a dare il suo contributo per contrastare il preoccupante fenomeno del sempre maggiore consumo di sostanze stupefacenti nel nostro Paese. Bisogna puntare su programmi integrati di informazione e formazione già in età scolare fornendo alle famiglie gli strumenti per riconoscere i campanelli d’allarme ed intervenire precocemente”. E’ il messaggio lanciato dalla stessa Federazione in occasione della seconda giornata di lavori del seminario Donne e Droghe: dalla politica alla buona pratica, organizzato dal Dipartimento Politiche Antidroga del Governo e dal Gruppo Pompidou.

L’iniziativa fa parte della Giornata Mondiale contro la Droga e vede per la prima volta la partecipazione anche dei rappresentanti dei pediatri di famiglia. “I dati italiani sono davvero preoccupanti – ha detto Giampietro Chiamenti, presidente della Fimp -. Gli adolescenti residenti nel nostro Paese sono ai primi posti in Europa per consumo di alcol, droghe, sigarette, tranquillanti e sedativi. La sostanza illegale più sperimentata, almeno una volta nella vita, è la cannabis. La provano il 21% dei giovani mentre la media europea si attesta al 17%. L’inizio precoce avviene di solito intorno ai 14 anni, ma è in aumento l’utilizzo anche tra i pre-adolescenti. E’ quindi una fascia d’età chiaramente di interesse pediatrico”.

“Questo fenomeno può avere conseguenze negative anche da un punto di vista neuropsicologico – ha spiegato Stefania Russo, Responsabile Nazionale di progetto Fimp per i rapporti col Dipartimento Antidroga e col Miur -. Lo sviluppo plastico dell’encefalo si completa solo intorno ai 20 anni e quindi ogni sostanza d’abuso, assunta prima, può interferire nel normale processo di maturazione neuronale e dare il via a tutta una serie di effetti avversi come danni sulla memoria breve e riduzione della concentrazione. Esistono poi problemi sulla capacità di problem solving, sul controllo motorio e sul tempo di reazione”.

“È dimostrato inoltre che l’uso precoce e frequente di droghe può aumentare l’insorgenza di disturbi dell’umore, come ansia e depressione, e favorire il rischio di dipendenza in età adulta. Infine – ha concluso Russo – non va dimenticato il ricorso alla droga dello stupro che, mescolata alle bevande alcoliche, può essere responsabile di numerosi casi di violenza sessuale. E’ quindi necessario l’impegno di tutti, istituzioni, ricercatori, medici, operatori sanitari, per combattere questa piaga sempre più in crescita”.


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Un decreto dei ministri della Salute e dello Sport dà le ultime indicazioni per l’obbligo dei defibrillatori – e delle persone formate a utilizzarli – negli impianti sportivi in gare non agonistiche. Previste alcune esclusioni per attività non a rischio cardiocircolatorio che vanno dal tiro a segno alla pesca con la canna

Dal1° luglio – e dopo tre rinvii che lo hanno fatto slittare di oltre un anno – entra in vigore l’obbligo anche per le società sportive dilettantistiche del defibrillatore semiautomatico.

E gli ultimi chiarimenti per l’applicazione definitiva della legge 189/2012 (la legge Balduzzi) li detta il decreto interministeriale Salute-Sport del 21 giugno su “Linee guida sulla dotazione e l’utilizzo di defibrillatori semiautomatici e di eventuali altri dispositivi salvavita da parte delle associazioni e delle società sportive dilettantistiche”.

Il decreto chiarisce alcuni passaggi ancora controversi del decreto 24 aprile 2013 “Disciplina della certificazione dell’attività’ sportiva non agonistica e amatoriale e linee guida sulla dotazione e l’utilizzo di defibrillatori semiautomatici e di eventuali altri dispositivi salvavita” e prevede che l’obbligo di dotazione e impiego del defibrillatore semiautomatico è  da parte delle società sportive dilettantistiche se utilizzano un impianto sportivo che sia dotato di defibrillatore semiautomatico o a tecnologia più avanzata e  sia presente una persona formata al suo utilizzo durante  le gare inserite nei calendari delle Federazioni sportive nazionali, durante lo svolgimento di attività sportive competitive e ‘attività agonistiche di prestazione’ organizzate dagli Enti di promozione sportiva e da altre società dilettantistiche.

Queste dovranno accertarsi sia della presenza dei defibrillatori all’interno dell’impianto sportivo prima dell’inizio delle gare, sia della presenza del loro eventuale utilizzatore, altrimenti si determina “l’impossibilità di svolgere le attività sportive”.

Dall’obbligo sono esenti una serie di attività a ridotto impegno cardiocircolatorio e quelle svolte al di fuori degli impianti sportivi per la impossibilità di garantire la presenza del defibrillatore durante il loro svolgimento.

Queste attività sono elencate in un allegato al decreto e vanno al tiro a segno con armi sportive da caccia e archi al biliardo, dalle bocce al bridge, dalla dama alle freccette, dalla lippa, morra, birilli e piastrelle al minigolf. Sono esenti anche motonautica e vela, ma quelle radiocomandate, si intende e poi l’aeromodellismo, il tiro a segno, la pesca con la canna, il tiro al volo e attività di questo tipo.


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La presenza attiva del papa all’interno del nucleo familiare incide positivamente sulla forma del bambino. Ogni attività di cura verso i figli – dalle scelte alimentari all’attività all’aria aperto – corrisponde a una riduzione del 33% delle possibilità che il bambino diventi obeso.

Bimbi in forma? Merito (anche) dei papà che trascorrono con loro molto tempo. Il rapporto tra obesità infantile e cura paterna sembra, dunque, essere inversamente proporzionale. A questa conclusione è giunto uno studio osservazionale USA pubblicato da Obesity. Per lo studio, i ricercatori hanno esaminato quanto spesso i padri hanno partecipato ad attività come la cura, la preparazione dei pasti e lo svago all’aria aperta dei loro bambini.

Gli scienziati hanno anche valutato il peso delle decisioni paterne relative alla nutrizione, alla salute e alla disciplina quando i loro figli erano in un’età compresa tra i 2 e i 4 anni. All’età di 4 anni, i bambini avevano meno probabilità di essere obesi se i loro padri avevano trascorso molto tempo con loro in passeggiate e giochi, rispetto a quelli i cui papà rimanevano con le mani in mano o addirittura passavano poco tempo con i loro piccoli tra il secondo e il quarto anno di vita. Ogni altra cura quotidiana, come l’aiuto per vestirsi, fare il bagno, lavarsi i denti, è stata associata ad una ulteriore riduzione del 33% delle probabilità del bambino di diventare obeso. “Quando anche i padri sono coinvolti, aumenta la quantità di tempo che i due genitori dedicano alla cura dei bambini “, osserva Michelle Wong, della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health in Baltimore, autrice principale dello studio.

Lo studio
Il team di ricerca ricercatori ha esaminato i dati di un gruppo nazionale rappresentativo di circa 10.700 bambini, nati nel 2001. I piccoli sono stati seguiti fino all’età di 6-7 anni. Tutti i padri vivevano a casa con i loro figli in famiglie con due genitori, ma non rivestivano il ruolo di caregivers primari. In media i padri avevano un’attività lavorativa di circa 46 ore alla settimana, rispetto alle circa 18 ore settimanali delle madri. La percentuale di bambini tra i 2 e i 4 anni in sovrappeso è scesa dal 14% all’8% circa. La percentuale di bambini obesi è invece diminuita da circa il 6% al 4%.Circa un quarto dei padri ha messo più tempo a disposizione dei figli per cure e gioco dopo l’inizio della scuola, mentre il 30-40% dei padri lo ha ridotto.

I commenti
“In definitiva, questo studio ci dice che, indipendentemente da quante ore ciascuno dei genitori lavori fuori casa, se i padri sono più coinvolti nella cura dei piccoli, i bambini hanno meno probabilità di diventare obesi”, dice Julie Lumeng , ricercatrice presso University of Michigan CS Mott Children’s Hospital in Ann Arbor, non coinvolta nello studio. “Il coinvolgimento dei padri può avere molti vantaggi per i bambini”, osserva Philip Morgan, ricercatore presso l’Università di Newcastle in Australia, anch’egli non coinvolto nello studio. 
”Quando i padri prendono i bambini e li portano a giocare all’aperto, entrambi sperimentano i benefici dell’attività fisica, riducendo il rischio di obesità. Infatti, muoversi all’aria aperta porta vantaggi in quanto elimina comportamenti poco salutari alternativi come sedersi davanti a uno schermo e/o mangiare alimenti di scarsa qualità”.”I genitori dovrebbero fare squadra per garantire che i bambini abbiano una corretta alimentazione e l’opportunità di muoversi all’aperto e di intraprendere attività fisica”, conclude Stephen Daniels, dell’Università di Colorado School of Medicine di Denver .“Tuttavia è importante sottolineare che un buono stile di vita può essere sviluppato anche nelle famiglie monoparentali. I papà possono essere chiaramente utili, soprattutto nell’ambito dell’attività fisica, ma questo può accadere anche in altri modi con altri adulti che svolgano questo ruolo”.

Fonte: Obesity


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