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I lettini solari sono responsabili di oltre 450mila casi di tumore della pelle e più di 10mila casi di melanoma ogni anno in Usa, Europa e Australia insieme: a stimarlo è un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che chiede ai paesi membri di fare di più per limitarne l’uso.

Negli ultimi 30 anni l’esposizione a radiazioni ultraviolente (uvr) a scopi cosmetici ha fatto lievitare l’incidenza dei tumori della cute e abbassare l’età in cui si manifestano. La maggior parte degli utenti sono donne, soprattutto adolescenti e giovani.

Diversi studi hanno dimostrato che chi ha usato i lettini solari almeno una volta nella vita ha un 20% in più di rischio di avere il melanoma rispetto a chi non li ha mai usati, e del 59% in più se vi si ricorre prima dei 35 anni.

«I lettini abbronzanti sono pericolosi per la salute. I Paesi devono considerare se bandire o limitarne l’uso, e informare dei possibili rischi» sottolinea Maria Neira dell’Oms. Nel 2009 lo Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, aveva classificato l’esposizione ai raggi uv di apparecchi come carcinogena per l’uomo. Più di 40 autorità nazionali e provinciali nel mondo hanno implementato bandi o restrizioni all’uso dei lettini solari, ma molto deve essere ancora fatto per limitarli, secondo l’Oms. In Italia invece è stato richiesto ai proprietari dei lettini di proibirne l’uso alle persone con pelle chiara e alle donne incinte. I raggi uvr emessi da lettini e lampade solari sono intensi quanto quelli della luce tropicale di mezzogiorno e aumentano il rischio di tumori della pelle, melanoma e non, oltre che di invecchiamento cutaneo e di infiammazione degli occhi.

ANSA


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I benefici della preghiera possono andare ben oltre quelli della medicina. È il messaggio di uno studio americano pubblicato su Journal of Aging and Healthche individua l’attaccamento ad un Dio amorevole e caritatevole come un elemento in grado di conferire benessere e senso di protezione soprattutto alle persone sul viale del tramonto; in particolare a quelle sole, con problemi finanziari o con una salute precaria.

Essere vicini a Dio con la preghiera, aumenta il senso di benessere delle persone anziane e più si prega più questa sensazione cresce. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Journal of Aging and Health che ha preso in esame tre parametri: l’ottimismo, l’auto-stima e la soddisfazione nella vita. Per tutte e tre queste dimensioni è emersa chiara una correlazione positiva con l’attaccamento a Dio e la preghiera.

“La preghiera – commenta Blake Kent, un candidato al dottorato in sociologia – può risultare associata ad una sensazione di benessere più o meno grande, a seconda di come si ‘percepisce’ Dio. In altre parole, i benefici psicologici della preghiera sembrano dipendere dalla qualità della relazione con Dio sperimentata da una persona”.

Da questo studio emerge che, nel caso delle persone più religiose, più queste pregano, maggiore è la sensazione di benessere. Anche nei soggetti mediamente legati a Dio, la preghiera determina un certo aumento della sensazione di benessere, inferiore ai primi. Infine per chi mostra uno scarso attaccamento a Dio, lo studio mette in evidenza una riduzione del benessere in generale.

Il concetto di Dio può avere varie accezioni; può essere percepito come un essere amorevole e vicino agli uomini o al contrario distante e severo. Chi percepisce Dio come un’entità che dà sicurezza, ottiene degli effetti benefici dalla preghiera. Ma se Dio viene visto come distaccato o addirittura come un’entità nella quale non si può riporre fiducia, le cose cambiano.

“Se non ti puoi fidare di Dio – commenta Matt Bradshaw, professore associato di sociologia del College of Arts & Sciences, Baylor University (USA) – la preghiera non si associa alla fiducia nella sua protezione, ma all’incertezza e uno stato d’ansia. Si tende in genere a pensare che la preghiera sia automaticamente una cosa buona per il nostro benessere. Ma non è così per tutti. L’esperienza di molti infatti non è quella di  un Dio sempre pronto ad aiutare e nel quale riporre fiducia”.

Gli autori dello studio hanno analizzato i dati della survey nazionale Religion, Aging and Health, condotta su 1.024 persone over-65, suddivisi in tre gruppi: cristiani praticanti, cristiani in passato ma non religiosi al momento, atei.

“I soggetti che hanno affermato di pregare regolarmente un Dio da loro percepito come protettivo e che dà conforto possono trovare sollievo nella preghiera e scegliere dei comportamenti salutari consistenti con le pratiche religiose o le intuizioni che sviluppano durante la preghiera”. Per contro, chi si rapporta con un Dio non sentito presente nel momento del bisogno può avere una sensazione di estraniamento o addirittura mostrare un declino nella salute mentale.

La percezione di un Dio amorevole può risultare particolarmente importante per gli anziani con una salute precaria o discriminati per la loro età o che stiano sperimentando un allontanamento delle amicizie e magari delle perdite finanziarie dovute al pensionamento. Vari aspetti della vita religiosa, compresa la sensazione di intimità con Dio, sono già da tempo conosciuti come ‘cuscinetti’ anti- stress.

“Un Dio amorevole e di supporto – concludono gli autori – che sia anche onnipotente, onnipresente e onnisciente può essere di gran conforto e offrire sicurezza e resilienza ai credenti che si avvicinano alla fine della loro esistenza”.


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Un paziente di 79 anni, affetto da un grave aneurisma dell’arco dell’aorta, è stato operato e gli è stata impiantata una nuovissima endoprotesi costruita su modello di arco aortico stampato in 3D, che ha consentito di poter eseguire un eccezionale intervento senza ricorrere all’apertura del torace, alla circolazione extra-corporea ed all’ipotermia profonda. L’intervento è stato eseguito da una équipe multidisciplinare dell’ospedale Mauriziano di Torino, composta da chirurghi vascolari, cardiologi emodinamisti, cardiochirurgi ed anestesisti cardio-vascolari.

“La patologia che presentava il paziente – spiega la Città della Salute di Torino in una nota  – avrebbe richiesto un complesso intervento tradizionale con apertura del torace, impianto della circolazione extracorporea, raffreddamento a 16 gradi ed arresto della circolazione per 30-40 minuti per consentire il reimpianto delle arterie che portano sangue al cervello dopo avere sostituito il tratto di aorta malato. Grazie a questa protesi su misura di nuovissima concezione, inserita in modo non invasivo attraverso una arteria periferica della gamba e due piccoli accessi chirurgici a livello del collo, è stato invece possibile impiantare una prima protesi endovascolare nel tratto dell’aorta dilatato a livello dell’arco ed in rapida sequenza, dal collo, delle protesi endovascolari di calibro più piccolo che sono state inserite in apposite fessure sulla prima protesi”.

Con questa tecnica innovativa è stato quindi possibile sostituire con successo e con una invasività molto ridotta una patologia estremamente complessa e delicata in un tratto dell’aorta che fino a ieri sembrava impossibile poter trattare diversamente.

La chirurgia della aorta in tutto il suo decorso e particolarmente nel tratto dell’arco, del torace e dell’addome è da sempre uno dei fiori all’occhiello della Chirurgia Cardio-Vascolare dell’ospedale Mauriziano. Le competenze e la collaborazione attiva che da quasi 20 anni c’è tra la Chirurgia Vascolare del dottor Franco Nessi e del dottor Michelangelo Ferri, la Cardiochirurgia del dottor Stefano Del Ponte, l’Anestesia Cardio-vascolare della dottoressa Gabriella Buono e la Cardiologia della dottoressa Maria Rosa Conte ha permesso di realizzare nella Sala Operatoria Ibrida di cui è dotato il Mauriziano questa eccezionale operazione.

La preparazione all’intervento ha richiesto un training presso la sede dell’azienda a Barcellona che ha realizzato la protesi: il dottor Michelangelo Ferri, chirurgo vascolare e coordinatore dell’équipe, si è recato nei laboratori dell’azienda produttrice, dove insieme ad ingegneri e colleghi internazionali di grande esperienza ha seguito una formazione ad hoc. Il dottor Marco Comis, anestesista cardio-vascolare, ha seguito il training riguardante la gestione del paziente e la preparazione degli strumenti di sala operatoria partecipando, a Parigi, all’impianto di una di queste protesi innovative.

All’interno della moderna “sala ibrida” (una sala operatoria attrezzata con le più avanzate tecnologie radiologiche) del blocco operatorio cardio-vascolare, per la prima volta una équipe multidisciplinare (dottor Innocenzo Scrocca, cardiologia, dottor Andrea Viazzo e dottor Giuseppe Berardi, chirurgia vascolare e dottor Stefano Del Ponte, cardiochirurgia) ha eseguito l’impianto di questo dispositivo.

L’intervento è stato eseguito secondo i piani previsti ed è tecnicamente riuscito. Il paziente è stato svegliato poche ore dopo la fine dell’intervento e trasferito in un reparto di degenza ordinaria già in prima giornata post-operatoria, potendo riprendere rapidamente tutte le normali attività.


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Se i piatti a base di verdure hanno nomi “seduttivi” gli adulti tendono a mangiarne di più, anche se poi la pietanza servita è la stessa.

Il “trucco” per aumentare il consumo è stato scoperto da uno studio della Stanford university pubblicato da Jama Internal Medicine.

L’esperimento si è svolto in una delle caffetterie dell’università, con circa 600 clienti al giorno, durante la stagione autunnale. Ogni giorno lo stesso piatto a base di verdure veniva proposto con un nome “basic”, come ad esempio “carota”, oppure “salutare restrittivo”, come “carote con condimento al limone senza zucchero”, “salutare positivo”, come “carote e limone smart con vitamina C” o “seducente”, come “carote attorcigliate glassate al lime”.

Al termine dell’esperimento si è visto che il nome accattivante portava a un consumo maggiore del 25% rispetto a quello “basic”, maggiore del 41% rispetto a quello “salutare restrittivo” e del 35% rispetto al “salutare positivo”.

La tendenza, spiega lo studio, si è ripetuta per tutte le verdure scelte, dalle “rape dinamite” ai “fagioli frizzanti”. «Il fenomeno si spiega se si pensa alla psicologia della scelta del cibo» scrivono gli autori «gli studi mostrano che quando le persone fanno una scelta sul cibo sono motivate soprattutto dal gusto, e tendono a giudicare le opzioni più salutari come meno gustose».

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E’ stato un gruppo di ricercatori russi a mettere a punto un algoritmo matematico basato su 4 parametri biologici, facilmente misurabili attraverso una tonometria e un ecodoppler delle carotidi, che riesce a stimare l’età biologica con grande accuratezza. Fino ad oggi era possibile ‘dare gli anni’ ad una persona solo attraverso sofisticate analisi sul DNA che non trovano applicazione nella pratica clinica perché costose e indaginose

Età anagrafica ed età biologica non necessariamente coincidono. Ma mentre per conoscere la prima è sufficiente dare un’occhiata alla carta d’identità di una persona, per valutare la seconda non esistono metodi standardizzati. Eppure secondo gli autori di una ricerca appena pubblicata su Aging, riuscire a determinare l’età biologica degli individui giocherà un ruolo importante nel campo della medicina anti-aging.

Autori dello studioappena pubblicato sono dei ricercatori dell’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt dell’Accademia Russa delle Scienze, del Centro Ricerche Cliniche per la Gerontologia, dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca e altri centri di ricerca. Lo studio invece è stato condotto presso il Centro Nazionale Ricerche per la Medicina Preventiva e presso il Centro di Gerontologia.

“Ricercatori di tutto il mondo – ricorda Alexey Moskalev, direttore del Laboratorio di Genetica dell’Invecchiamento e della Longevità presso il Centro dei Sistemi Viventi del MIPT – hanno a lungo tentato di trovare un modo per stimare l’età biologica; le tecniche attualmente più accurate sono quelle che si basano sull’analisi del DNA (‘orologio epigenetico’) e possono stimare l’età biologico dell’uomo con un errore medio di tre anni. Si tratta però di analisi costose che richiedono personale di laboratorio esperto e dedicato; e questo è il motivo per cui non vengono utilizzate nella pratica clinica quotidiana”.

Per questo studio invece i ricercatori si sono basati su informazioni relative a parametri che riflettono il funzionamento dell’apparato cardiovascolare e in particolare: lo spessore della parete carotidea, la velocità dell’onda di polso, il diametro del lume carotideo (grado di stenosi) e l’indice di augmentation (ovvero la differenza tra il secondo e il primo picco pressorio dell’onda di polso). Ognuno di questi indici rappresenta un marcatore validato di aterosclerosi, ipertensione, diabete e altre condizioni. Ma questo studio li ha messi insieme in un modello matematico finalizzato a determinare l’età biologica.

Per validare questo algoritmo sono stati arruolati 303 soggetti (199 donne e 104 uomini), di età compresa tra i 23 e i 91 anni. “Per lo studio – afferma il primo autore Alexander Fedintsev, bioinformatico presso l’Istituto di Biologia Molecolare Engelhardt – abbiamo utilizzato un’analisi di regressione non lineare e abbiamo attinto, per la selezione di questi parametri, ad un ampio database con una varietà di biomarcatori. Questo ci ha aiutato a mantenere un basso tasso di errore nel predire l’età biologica, nonostante il fatto che il modello utilizzato sia piuttosto semplice e compatto. Oltre ad essere discretamente accurato, questo modello fornisce anche una facile interpretazione dei risultati”.

Per validare questo modello, i ricercatori hanno confrontato le loro stime di età biologica con i dati ottenuti attraverso altre tecniche per valutare lo stato di un organismo e con altre tecniche di processamento dei dati.

“Avendo utilizzato il sistema cardiovascolare come unica fonte di informazioni – afferma Olga Tkacheva, direttore del Centro di Ricerca Clinico Russo di Gerontologia – sono necessarie ulteriori ricerche, basate su altri fattori, per raffinare le stime dell’età biologica. Tuttavia recenti ricerche hanno dimostrato che la relazione tra lo stato dei vasi sanguigni e l’età biologica è ancora più forte rispetto a quella tra lo stato dei vasi e la composizione chimica del sangue”.


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Passeggiare con il proprio cane, oltre a far bene all’umore, mantiene in buona forma fisica, soddisfacendo gli obiettivi quotidiani di attività fisica raccomandati per l’età avanzata. È quanto emerge da uno studio britannico.

Daniel Simon Mills, professore di medicina veterinaria comportamentale presso l’Università di Lincoln in Inghilterra, e colleghi hanno abbinato 43 soggetti anziani adulti con cani ad altri 43 senza cani e hanno misurati i tempi che tutti trascorrevano camminando a piedi. Hanno così evidenziato che i proprietari di cani hanno camminavano in media 23 minuti in più al giorno;  una differenza sufficiente per soddisfare le raccomandazioni degli Stati Uniti – e più in generale quelle internazionali – sull’attività fisica. I partecipanti allo studio avevano un’età compresa tra 65  e 81 anni.

Per il trial sono stati dotati di dispositivi contapassi che misuravano i loro movimenti per tre volte alla settimana nel corso di un anno. I proprietari di cani e le controparti sono stati abbinati sulla base di sesso, altezza, peso, condizioni di salute e capacità di camminare. Tutti erano britannici, e quasi due terzi erano donne. Il partecipante medio era anche leggermente in sovrappeso.

In particolare, è emerso che in media i proprietari di cani camminavano per 21 minuti in più rispetto a quelli senza cani: in tutto, 147 minuti in più alla settimana per i proprietari di cani, appena 3 in meno rispetto ai 150 minuti di attività fisica settimanale moderata/vigorosa raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) raccomandano che gli adulti facciano almeno 150 minuti alla settimana di esercizio a moderata intensità o 75 minuti di attività aerobica intensiva a settimana.


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Maschio e con un’età media tra i 36 e i 45 anni: è questo l’identikit del donatore italiano. Le donazioni di sangue in Italia, nel 2016, hanno superato i 3 milioni e sono bastate a garantire l’autosufficienza del sistema, ma i nuovi donatori non raggiungono nemmeno il 20% del totale.

Una donazione di sangue ogni 10 secondi: è il ritmo con cui gli italiani hanno contribuito alla raccolta, che ha permesso di fornire a quasi 660 mila persone le trasfusioni salvavita di cui avevano bisogno. Donazioni che hanno garantito anche a pazienti affetti da diverse malattie i farmaci plasma derivati. I numeri del sistema italiano sono stati forniti dal Centro Nazionale Sangue, Cns, in occasione del “World Blood Donor Day”, che l’Oms celebra il 14 giugno. In Italia le associazioni dei donatori hanno festeggiato con un evento nella sede del Ministero della Salute alla presenza del ministro.

Oltre 3 milioni di donazioni nel 2016, ma i donatori invecchiano
Lo scorso anno le donazioni hanno superato quota 3 milioni, più precisamente sono state 3.036.634. I donatori, invece, sono stati un milione e 688 mila, 40 mila in meno rispetto al 2015. La cifra è anche la più bassa registrata dal 2011. Nel dettaglio, i donatori abituali sono stati 1.370.556, l’81,2% del totale, mentre quelli nuovi sono stati 317.071, il restante 18,8%.

L’identikit del donatore
I donatori sono più maschi: 70% degli uomini contro il 30% delle donne. Le età sono variegate: circa il 27% ha tra i 36 e i 45 anni, il 28% ha 46-55 anni, il 13% ha tra i 18 ei 25 anni e il 18% tra 26 e 35 anni. L’andamento degli ultimi anni vede un progressivo invecchiamento dei donatori, con un calo nelle fasce più giovani e un aumento in quelle più in là con l’età. Il Friuli Venezia Giulia è la regione con più donatori ogni mille abitanti, mentre la Calabria è quella che ne ha meno.

Nel 2016 trasfusioni in aumento del 3,7%
Sono stati quasi 660 mila, per la precisione 659.486,i pazienti che, nel 2016, hanno subito una trasfusione. Questi numeri dimostrano un aumento del 3,7% rispetto all’anno precedente, pari a 10,9 persone ogni mille abitanti. In totale sono state trasfuse quasi 3 milioni di unità di emocomponenti, oltre 8mila al giorno, mentre più di 800 mila chili di plasma sono stati inviati alle aziende per il frazionamento.

“In generale – ha sottolineato Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Cns – gli obiettivi di autosufficienza nazionale per il 2016 sono stati mantenuti per quanto riguarda il sangue, grazie al meccanismo di compensazione che prevede che regioni che raccolgono più sangue del fabbisogno lo cedano a chi è in crisi”.

I contributi Regione per Regione
In testa per la maggiore quantità di sangue raccolto c’è il Piemonte con il 32%. Segue il Veneto con il 16%, poi il Friuli-Venezia Giulia con 13% punti percentuali, uno in meno per la Lombardia. La Provincia autonoma di Trento si attesta all’8%, l’Emilia-Romagna al 4%. Campania, Valle d’Aosta e Provincia Autonoma di Bolzano hanno contribuito, ognuna, per circa il 2% del totale.

“Il sistema è sostanzialmente in equilibrio, ma in alcune regioni periodicamente è necessario ricorrere alla compensazione – ha aggiuntoa Liumbruno -. La Sardegna ad esempio ha un’ottima raccolta, ma non è autosufficiente perché ha molti pazienti talassemici, che necessitano di molto sangue per le terapie. E’ importante che tutte le Regioni cerchino di contribuire il più possibile al sistema di compensazione nazionale e che incrementino la raccolta Per questo si fa appello alla sensibilità delle Regioni affinché consentano alle strutture trasfusionali una maggiore flessibilità nei giorni e negli orari di apertura in modo da venire maggiormente incontro alle esigenze dei donatori”.

I progetti del Cns
In occasione dell’evento al Ministero della Salute il Cns ha presentato due iniziative. Collegandosi al link cns.sanita.it/geoblood è disponibile la prima mappa italiana di tutti i punti dove donare, con la possibilità di fare una ricerca basata sulla propria posizione per scoprire il luogo più vicino. Per incrementare le donazioni di plasma partirà inoltre l’iniziativa “Plasma Italia”, con una landing page disponibile sul sito www.centrosangue.it per spiegare l’importanza e le modalità di questo tipo di donazione.


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La triathleta tedesca, rimasta vittima di un incidente in bicicletta al Passo delle Forche, nel forlivese, il 15 maggio e deceduta il 22 maggio scorso aveva dato disposizioni per la donazione come Nicky Haiden, anche lui morto a in Italia a seguito di un incidente in bicicletta. Nanni Costa: “Julia aveva espresso il suo Sì alla donazione, dimostrando un grande rispetto per la vita stessa”

Un altro campione dello sport protagonista di una scelta di donazione. Dopo Nicky Haiden, il campione di motociclismo americano deceduto nei giorni scorsi, confermata la scelta di donare gli organi anche per la triathleta tedesca Julia Viellehner morta all’ospedale Bufalini di Cesena il 22 maggio scorso, a seguito dei traumi riportati in un incidente mentre si stava allenando in bicicletta.

La notizia del sì all’espianto degli organi dell’atleta tedesca l’ha data la Direzione dell’Azienda Usl della Romagna che ha ringraziato la famiglia, “che ha voluto dare corso alla volontà manifestata in vita da Julia, acconsentendo alla donazione di organi e tessuti prelevati a scopo di trapianto terapeutico”.

“È difficile descrivere cosa si prova nel sapere che, a distanza di pochi giorni, sono morti due campioni, due giovani vite, e che grazie a loro tante altre persone stanno ricevendo il dono di una nuova vita. È come assistere con stupore alla rinascita di una vita appena spenta.”

Così il direttore del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, che aveva già commentato con riconoscenza la scelta di Nicky Haiden.

“Sono umanamente molto vicino alla famiglia di Julia e sono grato loro per la scelta di rispettare la volontà di donare gli organi che regalerà una speranza di vita a tante persone in attesa di un trapianto. Julia aveva espresso il suo Sì alla donazione, dimostrando un grande rispetto per la vita stessa.”

“Gesti come questo ci aiutano a capire l’importanza delle nostre scelte, come queste possano essere un esempio e una speranza per tante persone. Sono sicuro che in occasione dei festeggiamenti della Giornata Nazionale su donazione e trapianto del prossimo 28 maggio, saranno in tanti a dedicare un pensiero e un grazie a Julia e alla sua famiglia.”


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Non ha mai potuto mangiare a causa di una malformazione. Operato al Policlinico di Milano, grazie anche al contributo di Cieli Azzurri Onlus e di una donazione privata, ora a 18 mesi ha potuto assaggiare per bocca la sua prima pappa.

Ha 18 mesi di vita, e da quando è nato non ha mai mangiato. E’ nato con una malformazione dell’esofago e della trachea che gli ha sempre impedito di deglutire: non ha mai potuto essere allattato, non ha potuto bere, nemmeno provare le prime pappe durante lo svezzamento. È cresciuto unicamente grazie a un sondino che gli portava il latte direttamente nello stomaco. Per l’ospedale che lo ha seguito, in Moldavia (il suo paese natale), questa condizione era una condanna: per i medici non c’era nulla da fare, avrebbe mangiato così per tutta la vita, e sarebbe sempre stato esposto a pericolose infezioni. Invece il bimbo oggi sta bene: la sua vita ha avuto una completa svolta, grazie ai chirurghi pediatrici della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.

I genitori, infatti, non si sono rassegnati alla prima diagnosi, e hanno cercato sul web una possibile soluzione, anche all’estero. È così che sono venuti a conoscenza degli interventi di Ernesto Leva, direttore della Chirurgia Pediatrica del Policlinico di Milano, e hanno provato a contattarlo per chiedergli aiuto. Purtroppo c’è di mezzo la burocrazia: l’intervento è costoso, ci vogliono almeno 15mila euro; e la Moldavia non fa parte dell’Unione Europea, quindi gestire il rimborso sanitario è complicato. La soluzione arriva però in fretta, dal volontariato e dal contributo di un benefattore. L’associazione Cieli Azzurri Onlus, di cui lo stesso Leva fa parte e che ha progetti dedicati come ‘Bambini senza frontiere’, si rimbocca le maniche e si mette a caccia di fondi per operare il bambino; e i fondi arrivano subito, grazie alla famiglia di Tommaso Rocca che con una donazione personale permette di coprire tutte le spese.

“La chirurgia necessaria per questo bambino – spiega Leva – prevedeva un intervento molto complesso che in Moldavia non poteva venir eseguito per mancanza di strutture in grado di effettuarlo. In queste condizioni il piccolo sarebbe stato costantemente in pericolo di vita per rischio di infezioni ai polmoni”. L’Unità operativa di Chirurgia Pediatrica del Policlinico di Milano, al contrario, è uno dei Centri di riferimento nazionale ed europeo per casi così complessi, “data l’esperienza dei chirurghi che collaborano con anestesisti, otorinolaringoiatri, pediatri, neonatologi ed infermieri di eccellente livello clinico-assistenziale. Interventi di questo tipo – racconta – vengono realizzati da un team multidisciplinare in grado di gestire situazioni estremamente complesse, che ci rendono il vero ‘Policlinico Pediatrico di Milano’ nonché uno dei più importanti ospedali italiani in termini di ricerca clinica e cure per il bambino e per l’adulto”.

Il bimbo grazie ai fondi raccolti, arriva in Italia ad aprile e il 26 dello stesso mese viene operato al Policlinico. “La piena sinergia tra chirurghi pediatri ed anestesisti, che hanno gestito con tecnica mininvasiva un caso così complesso, e il personale infermieristico – aggiunge Leva – ha consentito che tutto andasse bene. Nei giorni scorsi il piccolo è stato dimesso in ottime condizioni generali e ha iniziato, per la prima volta nella sua vita, a mangiare e bere latte per bocca”.

“Questo caso è solo uno dei tanti che danno prova delle straordinarie capacità a cui ci hanno abituato i nostri professionisti – dice Simona Giroldi, direttore generale del Policlinico di Milano – e ancora una volta si conferma la grande sinergia tra l’ospedale, la beneficenza e il volontariato, che da sei secoli porta avanti la missione del Policlinico del prendersi cura di tutti, mettendo a disposizione le migliori conoscenze disponibili, valorizzando sempre il lato sociale ed umano e superando tutti i possibili ostacoli”.

Oggi il bimbo moldavo può vivere una vita uguale a quella di tutti i bambini, e a ricordo di questa esperienza avrà solo delle piccole cicatrici sul torace, unica traccia del delicato intervento.


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L’assessore regionale spiega che al momento vi sono scorte per le vaccinazioni routinarie e non si ravvisano problemi di approvvigionamento. Attivo dal 2015 un accordo con i pediatri di famiglia per vaccinare nei loro studi.

“In Toscana siamo pronti per vaccinare tutti i bambini e rispondere alle richieste di chi intende mettersi in regola con il calendario vaccinale. Al momento abbiamo tutte le scorte per fare le vaccinazioni routinarie e non si ravvisano problemi di approvvigionamento. Inoltre nella nostra regione i pediatri sono coinvolti e collaborano fattivamente nelle vaccinazioni dei bambini. Questo ci consentirà di raggiungere in tempi che ci auguriamo brevi un’inversione di tendenza delle coperture vaccinali, che per quasi tutte le vaccinazioni hanno registrato in questi ultimi anni un calo di qualche punto percentuale. Rinnovo quindi l’invito che già altre volte ho rivolto ai genitori a far vaccinare i propri figli”. Lo ha affermato l’assessore regionale al diritto alla salute Stefania Saccardi in una nota che fa il punto sulla situazione delle vaccinazioni in Toscana, alla luce delle novità introdotte dal decreto ministeriale sull’obbligo vaccinale.

Attualmente, ha spiegato l’assessore, in Toscana non ci sono problemi di approvvigionamento dei vaccini e ci sono scorte sufficienti. La Regione ha comunque avviato “una ricognizione tra le aziende sanitarie per organizzarsi di conseguenza e acquistare le quantità necessarie”. E anche il Ministero della Salute si sta attivando per garantire l’approvvigionamento necessario a tutte le regioni.

Quanto al coinvolgimento dei pediatri di famiglia, l’accordo siglato con la Regione risale all’aprile 2015. L’obiettivo, già allora, era anche quello di favorire l’adesione da parte delle famiglie ai programmi vaccinali. I pediatri di famiglia in Toscana sono 430. L’adesione all’accordo è su base volontaria.

Dall’ultimo monitoraggio 2017 effettuato dagli uffici dell’assessorato sulle adesioni all’accordo da parte dei pediatri, risultano i seguenti dati:
– il 46% dei pediatri ha aderito in toto;
– il 36% ha dato un’adesione parziale (l’accordo, infatti, prevede la possibilità di somministrare anche solo alcuni tipi di vaccino)
– il 18% non ha aderito.
Il 50% circa dei pediatri di famiglie esegue tutte le vaccinazioni previste nel primo anno di età.

Negli ultimi anni le vaccinazioni sono calate anche in Toscana, e nessuna vaccinazione raggiunge il livello del 95%, che garantisce l’immunità di gregge. Negli ultimi dieci anni, tutte le vaccinazioni hanno avuto cali percentuali di qualche punto. E “in concomitanza con il calo delle vaccinazioni – evidenzia la Regione -, in Toscana come nelle altre regioni, sono ricomparse malattie che invece stavano scomparendo”.


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