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“Il vaccino anti-hpv riduce del 70% l’insorgenza del tumore all’utero”. Per Massimo Andreoni, Past President della Simit, questi dati, emersi da studi scientifici, sono sufficienti a dimostrare quanto i benefici dei vaccini siano maggiori dei rischi. Per il professore “occorrerebbe capire la natura degli effetti a distanza di un vaccino. Nessuno può confermare che questi non sarebbero comunque insorti, anche senza la somministrazione”.

Tra 8 mila donne vaccinate solo una si è ammalata di cancro. Tra un numero analogo di donne che hanno ricevuto placebo, e quindi non vaccinate, si sono registrati 85 casi di lesione precancerosa. È questa l’istantanea scattata da Massimo Andreoni, professore Ordinario di malattie Infettive della facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli studi di Roma Tor Vergata e Past President della Simit, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali. Una fotografia che ha lo scopo di fare chiarezza sul rapporto rischi-benefici, in occasione della Settimana mondiale dedicata proprio alle vaccinazioni.

“Non è chiaro cosa porti le persone a non vaccinarsi – ha aggiunto il professore – evidentemente c’è una colpa dei medici e delle strutture sanitarie nazionali che non riescono a far comprendere il reale valore di questi strumenti. Ma è grave che si sia più attenti a ciò che i mezzi di informazione riferiscono, a volte in maniera incongrua, come spesso accade su siti dalla dubbia validità giornalistica”.

Gli studi scientifici
Per il Past President della Simit non mancano gli studi scientifici che dimostrano le validità dei vaccini. “Eppure – ha aggiunto – sono bastate poche segnalazioni di manifestazioni post vaccinali, spesso difficilmente attribuibili allo stesso, per scatenare una sorta di gogna mediatica. Il vaccino per il papilloma virus, occorre ricordarlo, è in grado di prevenire l’infezione, e di ridurre così il rischio di sviluppo del tumore dell’utero. Basti pensare che il 70% dei carcinomi uterini sono dovuti a dei virus per i quali il vaccino ci immunizza”.

Gli effetti collaterali
“Occorrerebbe invece capire – ha concluso. Massimo Andreoni – la natura degli effetti a distanza di un vaccino. Nessuno può confermare che questi non sarebbero comunque insorti, anche senza la somministrazione. Prima di attaccare questo strumento bisognerebbe capire quale sia l’effettiva causa di quello che viene considerato un effetto collaterale. E, di conseguenza, non occorre dare notizia certa di qualcosa che non abbia alcuna validità scientifica. Gli eventi avversi alla vaccinazione sono mediamente eventi semplici: da un lieve rialzo febbrile ad un arrossamento nel punto dell’inoculazione del vaccino. Gli eventi gravi sono eccezionali, rarissimi, ma questo vale per qualsiasi somministrazione di un farmaco”.


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Andare in bicicletta al lavoro dimezza il rischio di tumore e abbassa notevolmente anche quello di avere una malattia cardiaca.

Lo afferma uno studio dell’università di Glasgow pubblicato dal British Medical Journal, che ha trovato che i benefici sono superiori a quelli che si hanno andando invece a piedi.

La ricerca ha coinvolto 260mila cittadini britannici di età media 53 anni seguiti per cinque anni attraverso la UK Biobank, un database che contiene informazioni e dati su oltre mezzo milione di adulti sia uomini che donne. I ciclisti nel gruppo studiato hanno dichiarato una media di circa 60 chilometri percorsi a settimana. Chi va al lavoro in bici, è emerso dalla ricerca, ha un rischio inferiore del 45% di avere un tumore e del 46% di avere una malattie cardiaca rispetto a chi usa l’auto o i mezzi pubblici. Per chi invece va a piedi è stato notato un rischio inferiore del 27% di avere un problema al cuore e del 36% di morirne, mentre non è stato visto nessun effetto sul rischio di tumore o su quello generale di morte, che per chi va in bici è invece più basso del 41%.

Lo studio è osservazionale, sottolineano gli autori, e rileva quindi solo una associazione senza indagare su un eventuale rapporto di causa-effetto. «Se c’è un rapporto causale però – affermano nelle conclusioni – suggerisce che la salute della popolazione può essere migliorata con politiche che aumentino i tragitti per andare al lavoro “attivi”, soprattutto in bicicletta. Questo vuol dire creare più piste ciclabili, aumentare i programmi per comprare o affittare una bici e fornire un accesso migliore ai ciclisti ai mezzi di trasporto pubblici».

ANSA


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I bambini nati da mamme che, durante la gravidanza, erano assidue utenti dei telefoni cellulari, hanno una maggiore probabilità di risultare affetti da iperattività rispetto agli altri bimbi. Lo studio su Environment International.

Lo studio che mette in relazione l’utilizzo smodato del cellulare in gravidanza e lo sviluppo di disturbi comportamentali nei bimbi è stato pubblicato su Environment International. Sebbene non sia stata trovata una relazione diretta causa-effetto tra le radiazioni elettromagnetiche emesse dall’uso frequente di cellulari durante la gravidanza e l’iperattività nei bambini, Laura Birks del Barcelona Institute for Global Health in Spagna e colleghi, analizzando i dati di oltre 80 mila coppie madre/figlio, hanno riscontrato che i bimbi nati da mamme “cellulare dipendente” – almeno nel periodo gestazionale – avevano oltre il 28% in più di possibilità di sviluppare problemi comportamentali rispetto agli altri bimbi. “Direi di interpretare questi risultati con cautela”, ha detto Birks.

Lo studio
Per il loro studio Birks e colleghi hanno analizzato i dati relativi a più di 80.000 coppie madre-figlio in Danimarca, Spagna, Norvegia, Paesi Bassi e Corea. E hanno trovato prove coerenti di aumentare il rischio di problemi comportamentali – in particolare, iperattività – nei bambini di età dai 5 ai 7 anni le cui madri parlavano frequentemente al cellulare durante la gravidanza. Secondo l’autrice, i risultati sono stai sorprendenti in quanto non sono noti i meccanismi biologici che legano le radiazioni elettromagnetiche ai disordini comportamentali, e l’associazione era persistente nei cinque paesi considerati.

Inoltre i figli delle madri che hanno riferito di effettuare almeno 4 chiamate al giorno o in di parlare al cellulare per più di un’ora al giorno, hanno mostrato il 28% in più di probabilità di essere iperattivi, rispetto ai figli di madri che ne facevano un uso meno frequente, dopo aver tenuto conto di una serie di variabili confondenti, come l’età materna, lo stato civile e l’educazione.

Va aggiunto che i dati raccolti riguardavano una serie di diversi periodi di tempo dal 1996 al 2011. E tra l’altro solo la prima coorte, in Danimarca a partire dal 1996, era formata da un numero sufficiente di donne che non hanno mai usato un telefono cellulare durante la gravidanza. Comunque, secondo quanto riportano gli autori, i figli di madri che non hanno mai usato i telefoni cellulari durante la gravidanza, avevano un rischio minore di problemi comportamentali ed emotivi, rispetto a tutti gli altri bambini.

Fonte: Environment International 2017

Ronnie Cohen


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L’inalazione di popper – un composto di sostanze psicoattive – può favorire lo sviluppo di una maculopatia, con perdita o compromissione della vista centrale. Chi fa uso di popper dovrebbe essere consapevole che può provocare danni alla fovea, la parte centrale della retina, importante per attività come leggere o stare al computer”, sottolineano gli autori dello studio britannico

L’evidenza emerge da un piccolo studio britannico, pubblicato dal British Journal of Ophthalmology. “Abbiamo preso in considerazione solo 12 casi, che vanno però ad aggiungersi a evidenze di altri studi già condotti sul rapporto tra maculopatia da popper e sospettiamo che possano esistere molti casi clinici e subclinici non identificati in aree in cui l’uso di tale sostanza è massiccio”, dice Rebecca Rewbury ,del Sussex Eye Hospital e del Sussex University Hospitals Trust di Brighton, principale autrice dell’articolo.

Lo studio
Nell’articolo pubblicato online il 10 aprile dal British Journal of Ophthalmology, Rewbury e colleghi hanno presentato 12 casi di disturbo visivo in persone di sesso maschile che facevano uso di popper. Una visione centrale compromessa (offuscamento o scotoma) nelle ore e nei giorni seguenti all’inalazione era il sintomo oculare più riportato. L’esame del fondo dell’occhio ha rivelato sottili depositi foveali di colore giallo, mentre la tomografia a coerenza ottica nel dominio spettrale ha evidenziato un’interruzione della giunzione segmento interno/segmento esterno nella regione subfoveale in tutti i casi. I segmenti anteriori e le pressioni intraoculari erano sempre normali.

Sei dei prodotti analizzati dalla spettroscopia di risonanza magnetica nucleare contenevano un mix 50:50 di nitrito di isopropile e alcool di isopropile. In tre dei 12 casi, i pazienti avevano inalato popper per più di vent’anni. In generale, sintomi e anomalie, a livello di imaging, sono migliorate nel tempo. La metà del campione (sei individui), sopo la diagnosi  si sono astenuti dall’assunzione della sostanza e sono tornati asintoimatici in pochi mesi, mostrando miglioramenti nell’acuità visiva “Chi fa uso di popper dovrebbe essere consapevole che può provocare danni alla fovea, la parte centrale della retina, importante per attività come leggere o stare al computer”, sottolineano i ricercatori.

Fonte: British Journal of Ophthalmology 2017


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Consiste in un insieme di sintomi e fastidi provocati dal guardare il display del tablet o dello smartphone continuamente e per un lungo periodo di tempo, mantenendo posizioni scorrette alla colonna vertebrale. Un numero crescente di pazienti, in particolare giovani che non dovrebbero ancora avere problemi alla schiena e al collo, stanno invece segnalando dolori sia dovuti ad ernie del disco che a problemi di allineamento vertebrale della colonna.

Secondo quanto riportano su Spine Journal un gruppo di neurochirurghi spinali americani ultimamente si verifica un aumento dei pazienti con dolore al collo e alla parte superiore della schiena, probabilmente legati ad una scorretta postura dovuta all’uso prolungato degli smartphone.
Tra psicopatologie emergenti ed effetti secondari indotti dalle radiazioni rilasciate da telefonini o dispositivi dotati di wifi e quant’altro, i possibili danni alla salute dovuti all’abuso della tecnologia sono spesso sotto il mirino dei ricercatori. Questa volta a preoccupare è una nuova sindrome, quella del “text neck”, e a parlarne su Spine Journal è un gruppo di neurochirurghi spinali americani.

La nuova sindrome
Consiste in un insieme di sintomi e fastidi provocati dal guardare il display del tablet o dello smartphone continuamente e per un lungo periodo di tempo, mantenendo posizioni scorrette e nocive alla colonna vertebrale. In altri termini, un numero crescente di pazienti, in particolare giovani che non dovrebbero ancora avere problemi alla schiena e al collo, stanno invece segnalando dolori sia dovuti ad ernie del disco che a problemi di allineamento vertebrale della colonna.

Lo conferma Todd Lanman, un neurochirurgo spinale al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles che segnala delle anomalie radiografiche della colonna con inversione delle curve fisiologiche dovute al troppo uso dello smartphone. Si tratta di giovani pazienti che quando arrivano all’osservazione del chirurgo spinale hanno già forti dolori e problemi ai dischi vertebrali, ribadisce Lanman. “La vera preoccupazione è che non sappiamo che cosa questo comporterà nel lungo termine per i ragazzi di oggi che usano i telefonini per tutto il giorno”.

L’effetto peggiora “da seduti”
Gli autori dell’articolo hanno spiegato che le persone spesso guardano dall’alto in basso quando utilizzano i loro smartphone, in particolare quando inviano un sms o durante la navigazione online o quando guardano un video. Precedenti studi hanno anche scoperto che durante queste attività con lo smartphone alcune persone tengono il collo a circa 45 gradi, e il tutto peggiora quando si siedono. L’impatto sulla colonna dorsale aumenta alle posizioni flesse più elevate, aggiungono. Mentre in una posizione neutra in attesa, la testa pesa circa da 10 a 12 libbre (4,5 – 5,4 Kg) quando ci si piega di 15 gradi, la testa peserà circa 27 chili. Lo stress sulla colonna vertebrale aumenta gradualmente e a 60 gradi, è di 60 chili.

Gli adulti del domani
Secondo gli esperti i bambini che oggi hanno 8 anni e che sono già utenti assidui di dispositivi elettronici probabilmente avranno necessità di essere sottoposti ad un intervento chirurgico sulla colonna già a 28 anni. Si tratta di giovani che ancora non hanno completato lo sviluppo della colonna e questo preoccupa non poco i neurochirurghi.

Gli esperti spiegano cosa fare
Gli autori suggeriscono dei semplici cambiamenti nello stile di vita per alleviare lo stress dovuto alla postura ‘text-neck’. Si consiglia di tenere i telefoni cellulari davanti al volto, o all’altezza degli occhi, mentre si sta guardando il display e di usare due mani e i due pollici per creare una posizione più simmetrica e confortevole per la colonna vertebrale. Al di là di utilizzo dello smartphone, i chirurghi spinali raccomandano che le persone che lavorano con un computer o sul tablet utilizzino un supporto del monitor elevato in modo che stiano seduti a livello degli occhi, il supporto dovrebbe essere orizzontale e chiaro.

Con i computer portatili, si consiglia un adattamento simile, utilizzando una tastiera e un mouse separato in modo che il computer portatile possa essere a livello degli occhi e comunque creare una buona posizione ergonomica durante la digitazione. Infine Lanman consiglia degli esercizi di stretching ed altri esercizi di base che si concentrano sulla postura per tenere sotto controllo la colonna. E aggiunge di sdraiarsi sul letto estendendo il collo all’indietro per ripristinare l’arco normale nel collo. Mentre nella posizione seduta, raccomanda l’allineamento del collo e della colonna vertebrale verificando che le orecchie siano diritte sopra le spalle e le spalle stiano sempre sopra i fianchi.

Fonte: Spine J 2017


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“Io so quanto hanno sofferto i miei genitori. Per questo dico a ogni mamma: fai il vaccino a tuo figlio, non per lui, ma per te stessa. Vuoi veramente soffrire così tanto?”. Così la campionessa paralimpica e mondiale di fioretto in un’intervista esclusiva al magazine di musica, politica e cultura di massa. Vittima da bambina della meningite che le ha procurato danni gravissimi, Bebe Vio appare in una foto che sprigiona tutta la sua energia per lanciare il suo appello.

“La sua energia, la sua voglia irrefrenabile di prendere la vita senza arrendersi davanti a nulla, deve essere di ispirazione per tutti, come la musica di Chris Martin, Mick Jagger, Beyoncé, Kendrick Lamar o chiunque siate abituati a vedere sulla copertina di un magazine come il nostro. Ma, soprattutto, Bebe è il grido di una battaglia ancora attuale in Italia, riassunto da quel VACCINATEVI! strillato in copertina”. Così il periodico Rolling Stone motiva spiega la scelta di mettere in copertina la campionessa paralimpica e mondiale di fioretto Bebe Vio.

Vittima da bambina della meningite che le ha procurato i danni gravissimi che hanno portato alle amputazioni alle braccia e alle gambe, appare in una foto che sprigiona tutta la sua energia. Aveva solamente 11 anni, infatti, quando un pediatra rispose di lasciar perdere alle domande dei genitori, che chiedevano a un medico se fosse il caso di vaccinare la propria figlia contro la meningite. Un anno dopo la malattia e una lotta di 104 giorni in ospedale, contro la morte, vinta a un prezzo enorme, sacrificando la possibilità di correre e giocare come tutti i suoi coetanei.

Ma questo non l’ha fermata. ”Nel mio vocabolario la parola impossibile non esiste”, come aveva dichiarato alle bodyguard che volevano impedirle di farsi un selfie con l’ex presidente Usa Obama. “Io con la mia vitalità sembro una deficiente – ha detto Bebe nell’intervista a Rolling Stone – ma il 95% delle persone che hanno avuto quello che ho avuto io muoiono, gli altri restano distrutti e depressi”, lei è diventata campionessa olimpica.

“Io so quanto hanno sofferto i miei genitori – ha aggiunto -. Per questo dico a ogni mamma: fai il vaccino a tuo figlio, non per lui, ma per te stessa. Vuoi veramente soffrire così tanto?”.


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E’ dall’inizio dell’anno che criticità e costi della spesa per la distribuzione diretta e “per conto” vengono analizzati da un gruppo di lavoro insediato nell’ambito del Tavolo del Mise sulla farmaceutica e coordinato dall’Aifa. «Non è vero, quindi, che la materia sia posta più o meno artatamente in secondo piano per favorire gli interessi di qualcuno. Anzi: si è voluto metterla al centro di un esame approfondito e a tutto campo, che renda ragione anche di difformità nell’organizzazione e nel costo dei servizi stessi». E’ la precisazione diramata ieri da un comunicato sottoscritto congiuntamente da Assofarm, Federfarma, Fofi e Sifo per rettificare imprecisioni ed errori del servizio mandato in onda mercoledì sera da Le Iene, il noto programma di Italia1.

Il lavoro condotto dal gruppo, prosegue la nota, serve a trovare gli strumenti con cui definire «un costo standard» che permetta di valutare le differenti formule distributive del farmaco. Senza tale riferimento, «le cifre che nel servizio fotografano la realtà dell’Asl di Imperia non possono essere direttamente generalizzate a situazioni differenti per organizzazione e logistica». Tantomeno, rimarcano le quattro associazioni dei farmacisti, «si possono ipotizzare risparmi a livello nazionale partendo da questo dato. Manca peraltro, nell’illustrazione della situazione fatta dal servizio, qualsiasi considerazione sui costi sopportati dal cittadino per recarsi nei punti di distribuzione, in termini economici e di tempo: anche in questo caso occorre considerare che non tutte le situazioni si prestano a un servizio centralizzato: un conto è il piccolo centro, un altro la città metropolitana. Ed è proprio in considerazione dei costi e dei disagi che possono gravare sui cittadini che è stata avviata la distribuzione per conto attraverso le farmacie di comunità».

Nemmeno è corretto, prosegue il comunicato, definire «una scatola» il farmaco (come ha fatto nell’intervista l’ex dirigente del servizio farmaceutico di Imperia, ndr), così come sostenere che le farmacie agiscono «come un corriere» nel caso della distribuzione per conto. «Dimenticare la radicale differenza tra i beni di consumo e i farmaci» avvertono le quattro organizzazioni «significa porsi al di fuori di qualsiasi logica sanitaria e di tutela della salute. Questa linea di pensiero apre la strada all’affidamento dei medicinali a personale non qualificato che non è in grado di svolgere quelle prestazioni che salvaguardano la sicurezza del paziente: dalla verifica della prescrizione al controllo dell’integrità del medicinale, per non parlare delle ulteriori prestazioni a supporto dell’aderenza alla terapia e di farmacovigilanza previste anche nei nuovi Livelli essenziali di assistenza. Le immagini dei vaccini trasportati al caldo sul sedile del passeggero da parte di alcuni corrieri, diffuse anch’esse in televisione, dovrebbero far riflettere. Sicuramente l’opera di un fattorino, con tutto il dovuto rispetto, può “costare” meno di quella di un farmacista, ma speriamo che nessuno possa considerarle sovrapponibili ai fini della tutela della salute dei cittadini».

Un altro aspetto della distribuzione diretta di cui si sottovalutano le implicazioni, poi, riguarda la frequente abitudine di consegnare ai pazienti cronici forniture per diversi mesi di trattamento. «Questa pratica» avverte il comunicato «può determinare sprechi, nel caso che nel frattempo il medico decida di cambiare terapia, e dirada spesso eccessivamente i contatti tra il paziente e i professionisti della salute che l’hanno in carico, con tutte le conseguenze del caso».

Nel servizio, appunta la nota, sono poi presenti alcune imprecisioni che inducono a pensare che sarebbe occorsa maggiore riflessione. Le farmacie comunali, per esempio, non dipendono dalle Asl, come detto nel servizio, ma appunto dal Comune e nulla hanno a che fare con la distribuzione diretta. La spesa farmaceutica italiana, peraltro allineata a quella degli altri paesi europei, non cresce per chissà quale gestione irrazionale della distribuzione, ma per l’impatto delle malattie croniche e per l’arrivo dei medicinali innovativi. Infine, tra i costi di un ricorso totale ed esclusivo alla distribuzione diretta non si mette in conto che questo comporterebbe la disgregazione dell’attuale rete delle farmacie di comunità. Una rete di presidi sanitari, ai quali si può accedere in qualsiasi momento, sicuri di trovare un professionista della salute preparato e competente al servizio del cittadino. A proposito di spese e risparmi, il Paese può permettersi questa desertificazione del territorio?

«Niente è più importante del diritto di cronaca» concludono le quattro organizzazioni «ma di cronaca deve trattarsi, non dell’enfatizzazione di dati particolari al fine di sostenere una tesi costruita a priori. Il tema della spesa farmaceutica, e ancor di più quello dell’accesso al farmaco, non ammettono semplificazioni, particolarmente utili per fare un titolo a effetto ma inutili a migliorare l’assistenza ai cittadini e i conti dello Stato».


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La distribuzione diretta comporta oneri occulti che annullano i presunti risparmi rivendicati dai suoi sostenitori. I quali insistono a dimostrare la convenienza del canale Asl mettendo impropriamente a confronto il prezzo medio al quale le aziende sanitarie comprano con il compenso medio riconosciuto alle farmacie per la dpc, senza ricaricare sul primo i costi diretti e indiretti come magazzino, logistica, personale.

E’, in sintesi, quanto ha scritto Federfarma nella lettera inviata alla redazione de Le Iene, la nota trasmissione di Italia1, una volta saputo che sarebbe andato in onda un servizio sui vantaggi della distribuzione diretta.

«Ricordo inoltre» scrive la presidente nazionale della Federazione, Annarosa Racca «che la diretta costa agli assistiti tempo e denaro per raggiungere gli sportelli di dispensazione dell’Asl, spesso aperti solo poche ore a settimana». In più, «ai pazienti vengono consegnati ingenti quantitativi di farmaci, per coprire più mesi di terapia, cosicché un’eventuale modifica del trattamento costringerebbe a gettare via le confezioni ancora inutilizzate».

L’intervento di Federfarma ha anticipato con puntualità i contenuti del servizio trasmesso poche ore dopo, firmato da una “vecchia” conoscenza dei farmacisti, la Iena Nadia Toffa. L’inviata, infatti, affronta il tema con una tesi predefinita già evidente fin dalle prime battute: l’esperienza dell’Asl di Imperia, anche questa ben nota ai titolari di farmacia, dimostrerebbe che se tutte le Regioni facessero la diretta con le stesse modalità, il Ssn risparmierebbe un miliardo di euro sulla spesa farmaceutica. Ma alla base, come scritto da Federfarma, c’è un raffronto tra costi della diretta e della dpc che non ha alcuna legittimità metodologica. Come mettere a confronto mele con pere, avrebbe detto la maestra dell’alunna Toffa. «Un recente studio realizzato dal centro di ricerca Antares per Assofarm» scrive ancora la presidente Racca, stima che il costo di una confezione erogata direttamente nelle strutture pubbliche della Regione Emilia Romagna ammonta mediamente a 4 euro a confezione, più altri tre euro che l’assistito paga per recarsi nei punti di dispensazione». L’assessore Venturi, un paio di mesi fa, aveva detto che il costo per l’Asl si ferma a 1,90 euro.

«Per confrontare i costi della distribuzione diretta e di quella per conto» conclude la lettera di Federfarma «è attivo il Tavolo sulla Farmaceutica, convocato dai ministeri dello Sviluppo economico e della Salute, che dovrà stilare un documento condiviso dai partecipanti (Regioni, Aifa, ministero della Salute, ministero dello Sviluppo economico, filiera del farmaco e farmacisti ospedalieri). L’obiettivo è individuare un modello di distribuzione dei farmaci che sia equo, compatibile con le risorse disponibili e che permetta ai cittadini di accedere al farmaco con le stesse modalità sull’intero territorio nazionale». Non c’è altrettanta trasparenza, invece, « sui consumi e sulla spesa dei farmaci erogati nelle strutture pubbliche». Lo dimostra il fatto che la “manovrina” approvata martedì dal Consiglio dei Ministri autorizza l’Aifa a monitorare la spesa farmaceutica delle Regioni per diretta e ospedali con le fatture elettroniche emesse dall’industria nei confronti del Ssn.

Dalle Iene giunge ancora una volta un servizio fazioso e parziale che dà conto delle posizioni di una sola campana. Federfarma continuerà a denunciare le falsità della trasmissione con ulteriori interventi.


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Dopo la sentenza della Corte D’Appello di Roma che ha confermato la condanna per il ministero della Salute al pagamento di centinaia di risarcimenti per emotrafusioni infette, arrivano le precisazioni del Centro Nazionale Sangue. “Da oltre 10 anni non ci sono state più segnalazioni di infezioni da Hiv o epatite, oggi si eseguono test che garantiscono la massima sicurezza. Le sentenze della magistratura si riferiscono a trasfusioni avvenute negli anni ‘80 e ‘90”.

Sono trascorsi più di dieci anni dall’ultima segnalazione di infezione da HIV ed epatite a seguito di trasfusione. Il livello di sicurezza garantito oggi è altissimo: su ogni donazione di sangue vengono effettuati i test, anche molecolari, per la ricerca di Hiv ed epatite C e B. Le buone notizie giungono dal Centro Nazionale Sangue, organo tecnico del Ministero della Salute e Autorità Competente con funzioni di coordinamento e controllo tecnico-scientifico del sistema trasfusionale nazionale.Precisazioni che arrivano all’indomani della sentenza della Corte D’Appello di Roma sugli indennizzi che il ministero della Salute dovrà corrispondere a coloro che hanno ricevuto trasfusioni con sangue infetto.

Il Centro Nazionale Sangue sottolinea che, proprio grazie a questi controlli per la sicurezza, nel 2015, ad esempio, sono state trovate e bloccate 1709 positività. Ricorda anche che le donazioni in Italia sono volontarie, periodiche, anonime e non remunerate.

“In virtù dei suddetti interventi, il rischio residuo di contrarre un’infezione a seguito di una trasfusione di sangue è prossimo allo zero, come ampiamente dimostrato dal sistema di sorveglianza nazionale coordinato dal Centro Nazionale Sangue – ha affermato Giancarlo Maria Liumbruno, Direttore generale del Centro -. A fronte di più di 3 milioni di emocomponenti trasfusi ogni anno (8.349 emocomponenti trasfusi ogni giorno), da oltre dieci anni in Italia non sono state segnalate infezioni post-trasfusionali da HIV, virus dell’epatite B e virus dell’epatite C. Le sentenze della magistratura che vengono riportate periodicamente dai media si riferiscono a trasfusioni avvenute negli anni ‘80 e ‘90, quando il sistema di vigilanza e le stesse conoscenze scientifiche erano molto diverse”.

Il coordinatore pro tempore Civis (Coordinamento interassociativo volontariato italiano sangue), Vincenzo Saturni, ha sottolineato anche che “questi dati confermano gli importanti passi avanti compiuti dall’Italia in tema di qualità e sicurezza, allineandoci agli standard dei Paesi più evoluti in ambito sanitario/trasfusionale. Il volontariato del sangue, inoltre, è impegnato ogni giorno nella fondamentale promozione di stili di vita sani tra i donatori volontari e associati, al fine di rendere ancora più elevati i livelli di sicurezza per gli emocomponenti e i farmaci plasmaderivati. Grazie anche a quest’azione siamo arrivati all’84% di donatori periodici e associati, fattore – ha concluso – che ci posiziona ai primissimi posti nel mondo e che rappresenta un ulteriore indicatore di qualità e sicurezza”.


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