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Non solo attenzione al sale. Per far scendere la pressione anche i livello di potassio devono essere adeguati e consumare cibi che ne sono ricchi, come avocado, spinaci, patate dolci, fagioli, banane e persino caffè può aiutare.

E’ quanto emerge da una ricerca della Keck School of Medicine della University of Southern California, pubblicata su American Journal of Physiology – Endocrinology and Metabolism.

Per arrivare a questo risultato sono stati revisionati studi precedenti che avevano come focus gli effetti del potassio e del sodio nella dieta sull’ipertensione. «Diminuire l’apporto di sodio è un modo ben consolidato per abbassare la pressione sanguigna»- evidenzia Alicia A. McDonough, autrice della ricerca – «ma l’evidenza suggerisce che aumentando il potassio nella dieta si può avere un effetto altrettanto importante sull’ipertensione».

«Nella tipica dieta occidentale – aggiunge – l’apporto di sodio è alto e l’assunzione di potassio è bassa. Questo aumenta notevolmente la probabilità di sviluppare pressione alta». Secondo la studiosa quando il potassio è basso, per bilanciare si utilizza la ritenzione di sodio per trattenerlo, che è come seguire una dieta ad alto contenuto di sale.

ANSA


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C’è chi le chiama le diete ‘yo-yo’, intendendo con questo termine colloquiale quell’abitudine assai frequente di alternare periodi di regime alimentare a contenuto calorico estremamente ridotto, se non di digiuno vero e proprio, a periodi di bagordi come se non ci fosse un domani. Una battaglia metabolica che si combatte sul corpo, con drammatiche escursioni di peso corporeo.

E che non sia solo una questione estetica, ma un rischio serio per la salute lo dimostra uno studio pubblicato oggi sul New England Journal of Medicine che è andato a valutare l’effetto delle escursioni del peso sulla mortalità e sugli eventi cardiovascolari nei pazienti con malattia cardiovascolare già in atto.

Lo studio, che ha arruolato 9.509 partecipanti, è stato disegnato per valutare safety ed efficacia dell’atorvastatina e aveva come endpoint primario un composito di coronaropatia, infarto miocardico non fatale, arresto cardiaco rianimato, rivascolarizzazione e angina. Endpoint secondari erano la comparsa di qualunque evento cardiovascolare (coronaropatia, evento cerebrovascolare, arteriopatia periferica, scompenso cardiaco), la mortalità, l’infarto del miocardio e l’ictus.

Dopo gli opportuni adeguamenti per i vari fattori di rischio cardiovascolari noti , da questa nuova sotto-analisi pubblicata oggi, emerge che, in parallelo all’aumento della variabilità del peso corporeo, si assiste ad un aumento del rischio di eventi coronarici, cardio-vascolari e di mortalità.

In particolare tra i soggetti appartenenti al gruppo con la maggior variabilità del peso corporeo, il rischio di un evento coronarico aumentava del 64%, quello di un evento cardiovascolare dell’85%, quello di mortalità del  124%, quello di infarto del 117% e infine quello di ictus del 136%.

Tra i soggetti coronaropatici dunque le fluttuazioni del peso corporeo si associano ad una maggior mortalità e ad un maggior tasso di eventi cardiovascolari, indipendentemente dalla presenza o meno degli altri tradizionali fattori di rischio cardiovascolari.

La perdita di peso – concludono gli autori – è di certo un importante intervento sullo stile di vita, visto che l’obesità nei soggetti senza patologie cardiovascolari rappresenta un importante fattore di rischio per insulino-resistenza, diabete, ipertensione, dislipidemia e coronaropatia, mentre una importante perdita di peso come quella indotta dalla chirurgia bariatrica abbatte drammaticamente il rischio cardiovascolare.

Tuttavia, nei soggetti con patologia cardiovascolare già stabilita, fare su e giù col peso, come dimostrato in questo studio, può dare grossi problemi: non solo aumenta il rischio di eventi cardiovascolari, ma addirittura si associa in maniera forte e indipendente alla comparsa di diabete mellito.

Di certo questo studio attesta la presenza di un’associazione, che non significa causalità naturalmente e questo è un suo limite, insieme ad altri metodologici. Resta il fatto che rappresenta un importante campanello d’allarme da non sottovalutare ma da approfondire in futuro.


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Nonostante gli sforzi nel mondo c’è ancora quasi un miliardo di fumatori, e una morte su dieci è imputabile a questa causa.

Lo afferma uno studio pubblicato da Lancet, secondo cui metà dei 6,4 milioni di morti l’anno si trovano in quattro paesi, Russia, Usa, Cina e India.

Lo studio si basa sui numeri del Global Burden of Disease, un rapporto internazionale che ha vagliato i dati dal 1990 al 2015. La percentuale di fumatori è calata, sottolineano gli autori, ed è passata da un uomo su tre a uno su quattro e da una donna su 12 a una su 20, ma per effetto della crescita della popolazione mondiale il numero assoluto di fumatori è aumentato da 870 milioni a quasi un miliardo. «Gli sforzi fatti negli ultimi anni hanno portato a qualche progresso – sottolinea Emmanuela Gakidou dell’ Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME), tra gli autori dello studio – ma molto di più deve essere fatto.

La crescita del numero assoluto di fumatori continua a superare il declino nei tassi, e questo indica che dobbiamo prevenire che più persone inizino e incoraggiare chi fuma a smettere».

I tre paesi con la maggior percentuale di fumatori maschi nel 2015 erano Cina, con 254 milioni, India con 91 milioni e Indonesia con 50 milioni. Per le fumatrici al top ci sono invece gli Usa, 17 milioni, la Cina e l’India con circa 14 milioni. Fra i paesi virtuosi il rapporto indica il Brasile, che ha ridotto i fumatori con un mix di aumento delle tasse, adozione di pacchetti con indicazioni sui rischi e campagne di educazione.

«Il fumo – sottolinea l’esperta – è la seconda causa di morte e disabilità grave nel mondo».

ANSA


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Se i neuroni che formano l’area tegmentale ventrale, una delle principali zone del cervello in cui viene prodotta la dopamina, muoiono, ci si ammala di Alzheimer.

A rivelarlo uno studio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma in collaborazione con Irccs Santa Lucia e Cnr.

La dopamina è un neurotrasmettitore indispensabile per il buon funzionamento dell’ippocampo, struttura cerebrale da cui dipende la memoria. Scoperto anche il legame tra l’assenza di dopamina e le disfunzioni dell’area neuronale coinvolta nei disturbi della gratificazione e dell’umore. La depressione, quindi, non sarebbe conseguenza della patologia, ma un potenziale segnale della sua insorgenza.

La morte dell’area del cervello che produce la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per alcuni importanti meccanismi di comunicazione tra i neuroni, sarebbe la causa dell’Alzheimer.  Questa patologia, solo in Italia, colpisce circa mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età. La sorprendente scoperta arriva da un’équipe di ricercatori coordinati dal professor Marcello D’Amelio, associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Lo studio, appena pubblicato sulla rivista Nature Communications e al quale hanno collaborato altri scienziati dei laboratori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, della Fondazione IRCCS Santa Lucia e del CNR di Roma, getta una luce nuova su questa grave patologia.

“Abbiamo effettuato un’accurata analisi morfologica del cervello – ha spiega Marcello D’Amelio – e abbiamo scoperto che quando vengono a mancare i neuroni dell’area tegmentale ventrale, che producono la dopamina, il mancato apporto di questo neurotrasmettitore provoca il conseguente malfunzionamento dell’ippocampo, anche se tutte le cellule di quest’ultimo restano intatte”.

Senza la dopamina si perde la memoria
Negli ultimi 20 anni i ricercatori si sono focalizzati sull’area da cui dipendono i meccanismi del ricordo, ritenendo che fosse la progressiva degenerazione delle cellule dell’ippocampo a causare l’Alzheimer. Le analisi sperimentali, tuttavia, non hanno mai fatto registrare al suo interno significativi processi di morte cellulare. Nessun ricercatore aveva finora pensato che potessero essere coinvolte altre aree del cervello nell’insorgenza della patologia. “L’area tegmentale ventrale – ha continuato il professore – non era mai stata approfondita nello studio della malattia di Alzheimer, perché si tratta una parte profonda del sistema nervoso centrale, particolarmente difficile da indagare a livello neuro-radiologico”.

I protagonisti della ricerca sono riusciti a chiarire i dettagli molecolari alla base della mancata comunicazione fra cellule nervose che, nel tempo, porta alla perdita di memoria. I ricercatori si sono resi conto che – come in un effetto domino – la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria. Lo studio ha evidenziato, già nelle primissime fasi della malattia, la morte progressiva dei soli neuroni dell’area tegmentale ventrale e non di quelli dell’ippocampo. Questo meccanismo è risultato perfettamente coerente con le descrizioni cliniche della patologia di Alzheimer fatte dai neurologi.

La sperimentazione in laboratorio 
Un’ulteriore conferma della scoperta è stata possibile somministrando in laboratorio, su modelli animali, due diverse terapie: una con L-Dopa, un amminoacido precursore della dopamina; l’altra basata su un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, dopo aver iniettato il rimedio si è registrato il recupero completo della memoria, in tempi relativamente rapidi.

L’assenza di dopamina influisce anche sul buon umore
“Abbiamo verificato – ha chiarito D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui, con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione patologica dell’umore”. Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione.

La depressione è un campanello di allarme
Secondo gli autori della ricerca, i cambiamenti nel tono dell’umore non sarebbero – come si credeva fino ad oggi – una conseguenza della comparsa dell’Alzheimer, ma potrebbero rappresentare piuttosto una sorta di campanello d’allarme dietro il quale si nasconde l’inizio subdolo della patologia. “Perdita di memoria e depressione – ha sottolineato D’Amelio – sono due facce della stessa medaglia”.

Alzheimer e Parkinson: obiettivo comune per la cura
Le prospettive che questo studio schiude sono molteplici. “Il prossimo passo – ha aggiunto il docente che ha coordinato tutta la sperimentazione – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria. Infine, poiché anche il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni”.

I dati sperimentali hanno chiarito anche perché i farmaci cosiddetti “inibitori della degradazione della dopamina” – la cui validità terapeutica è stata nel tempo molto discussa – si rivelino utili solo per alcuni pazienti: funzionano unicamente nelle fasi iniziali della malattia, quando ancora sopravvive un buon numero di neuroni dell’area tegmentale ventrale. Con la morte di tutte le cellule di quest’area, la dopamina smette del tutto di essere prodotta e il farmaco, ovviamente, non è più efficace. “L’altra sostanza somministrata in laboratorio nel corso della sperimentazione, chiamata L-Dopa –  ha specificato Annalisa Nobili, prima firma dello studio – non può essere data ai pazienti se non nelle ultime fasi della malattia perché, come emerso anche nei casi di Parkinson, provoca fenomeni di particolare tossicità che possono aggravare le loro condizioni”.

Pur essendo, dunque, ancora lontana la validazione di una cura efficace per l’Alzheimer, i risultati della ricerca condotta dal professor D’Amelio e dagli altri partner scientifici aggiungono un tassello decisivo nella comprensione dei meccanismi da cui prende avvio questo temibile morbo. Accorciando, si spera, i tempi che separano la Scienza dal giorno in cui sarà finalmente possibile fermarlo.


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I bambini che piangono di più? Sono italiani, inglesi e canadesi. E anche gli olandesi non scherzano. I piccoli con gli occhi più asciutti abitano in Danimarca, Germania e Giappone. Questa originale classifica emerge da una ricerca britannica pubblicata dal Journal of Pediatrics

Un gruppo di ricercatori britannici ha condotto una metanalisi di studi che comprendono 8.700 bambini in Paesi quali Germania, Danimarca, Giappone, Canada, Italia, Paesi Bassi e Gran Bretagna.

La ricerca
I più alti livelli di colic (così è definito un pianto che duri più di tre ore al giorno, per almeno tre giorni alla settimana) sono stati registrati tra i bambini britannici, canadesi e italiani, mentre quelli più bassi sono stati riscontrati nei bambini danesi e tedeschi. Lo studio ha rilevato che in media i bambini si agitano o piangono per circa due ore al giorno nelle prime due settimane di vita.

Nelle settimane successive si agitano e piangono un po’ di più, fino ad un picco di circa due ore e 15 minuti al giorno a sei settimane di vita. Il. pianto si riduce poi a una media di un’ora e 10 minuti al giorno, quando i neonati raggiungono le 12 settimane di vita. Ma ci sono ampie variazioni, con alcuni bambini che piangono appena 30 minuti al giorno e altri più di cinque ore.

“I bambini sono già molto diversi tra loro per quanto riguarda il pianto nelle prime settimane di vita – dice Dieter Wolker, che ha condotto lo studio presso l’Università di Warwick – Possiamo imparare molto osservando le culture in cui si piange meno cercando di capire se questo può essere dovuto ai genitori, alla genetica o ad altri fattori relativi a esperienze avvenute durante la gravidanza”.

Kate Kelland

Fonte: J Pediatr 2017


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Un uomo di 53 anni, tetraplegico in seguito ad un incidente, è stato sottoposto ad impianto di elettrodi cerebrali nell’area motoria e di sensori stimolanti i muscoli in diverse aree di braccio e avambraccio. Il sistema, collegato attraverso un computer esterno dotato di uno speciale algoritmo, ha consentito all’uomo di ‘pensare’ il movimento e di agirlo; prima con un training di realtà virtuale, poi realmente, permettendogli di mangiare e bere da solo

Un uomo tetraplegico è tornato a mangiare e bere da solo grazie ad una innovativa neuroprotesi che ricollega il suo cervello ai suoi muscoli. Questo è reso possibile da uno strumento che decodifica i segnali nervosi per poi trasmetterli a speciali sensori posizionati sul braccio.

Grazie a questa protesi intelligente, un uomo tetraplegico, si legge in un articolo pubblicato su Lancet, quest’uomo è riuscito a recuperare i movimenti del braccio e della mano, tanto da consentirgli di mangiare e di bere da solo.

Sebbene ancora in fase preliminare (la neuroprotesi è stata testata per ora solo su un individuo), questo studio rappresenta un eccezionale passo in avanti in questo campo. Le ricerche si sono concentrate finora sul come riparare il danno nervoso nei soggetti paralizzati per una lesione spinale; questa tecnologia, utilizzata per ora solo in fase sperimentale negli USA, tenta invece di by-passare il problema, fornendo un collegamento cervello-muscoli attraverso questo device.

“Siamo ancora in uno stadio preliminare – ha commentato Bolu Ajiboye, Case Western Reserve University, USA – ma riteniamo che questa neuro-protesi possa offrire ai soggetti paralizzati la possibilità di riacquisire la funzionalità delle braccia e delle mani, consentendo loro in questo modo di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana. Finora siamo riusciti ad aiutare un uomo tetraplegico a raggiungere e afferrare un oggetto, attività che gli consentono di mangiare e di bere da solo. Riteniamo tuttavia che affinando questa tecnologia si possa arrivare a consentire un controllo dei movimenti più fine ed accurato che consentirebbe di svolgere un range di azioni molto più vasto, trasformando in questo modo la vita di queste persone”.

L’uomo che ha sperimentato per primo al mondo questa neuroprotesi ha 53 anni ed è tetraplegico da 8 anni. L’impianto della neuroprotesi comporta un intervento chirurgico per impiantare dei sensori a livello cerebrale, in corrispondenza dell’area motoria responsabile del movimento delle mani; è stata creata quindi un’interfaccia cervello-computer che ha ‘imparato’ a quali movimenti corrispondevano i segnali che il suo cervello inviava. Per completare questo primo stadio ci sono voluti 4 mesi e per l’addestramento del paziente è stato utilizzato un braccio di realtà virtuale.

Successivamente il paziente è stato sottoposto all’impianto di 36 elettrodi per stimolare i muscoli del braccio e dell’avambraccio, che sono stati accesi 17 giorni dopo la procedura. I ricercatori americani sono dunque passati a stimolare questi muscoli 8 ore a settimana per un totale di 18 settimane, al fine di migliorare forza e tono muscolare e di ridurre l’affaticamento muscolare.

Per ultimo è stata collegata l’interfaccia cervello-computer agli elettrodi stimolatori del braccio utilizzando un algoritmo matematico in grado di tradurre i segnali cerebrali in comandi per gli elettrodi sul braccio. Gli elettrodi così stimolati hanno prodotto delle contrazioni muscolari e il paziente grazie a questo ha potuto completare intuitivamente i movimenti che pensava di compiere.

“Riesco a muovere il braccio – ha affermato il paziente – senza dovermi concentrare troppo intensamente, Mi basta pensare ‘vai’ e quello si muove”.

A distanza di 12 mesi dall’impianto della neuro protesi, al paziente è stato chiesto di tentare di compiere dei gesti di routine quotidiana, quali bere una tazza di caffè e mangiare da solo. Prima ha osservato il suo braccio compiere queste azioni sotto controllo del computer; quindi è stato il suo turno di pensare di compiere lo stesso movimento, di modo che il sistema potesse riconoscere i segnali cerebrali corrispondenti. I due sistemi, uomo e computer, sono stati quindi collegati e il paziente è riuscito a bere una tazza di caffè da solo e a mangiare con una posata. 11 tentativi su 12 sono andati a buon fine e gli ci sono voluti ogni volta 20-40 secondi per completare l’operazione.

“Il nostro sistema – afferma Ajiboye – si basa su questa tecnologia ad elettrodi stimolanti , già disponibile e continuerà a perfezionarsi con lo sviluppo di nuove interfacce cervello-computer wireless e completamente impiantate. Questo porterà a migliorare le performance della neuro-protesi facendo guadagnare in velocità, precisione e controllo”.

“Si tratta di uno studio importantissimo – sottolinea in un editoriale pubblicato sullo stesso numero Steve Perlmutter, University of Washington, USA – è infatti il primo report di una persona che riesce ad eseguire dei movimenti funzionali, coinvolgenti diverse articolazioni di un arto paralizzato, grazie ad una neuro-protesi motoria. Certo, i movimenti sono ancora rozzi e rallentati e richiedono un continuo feedback visivo; è stato inoltre necessario dotare il paziente di un device motorizzato per assistere i movimenti della spalla. Ciò significa che questo studio rappresenta una prova di principio di cosa sia possibile fare, piuttosto che un significativo passo avanti nel campo delle neuro-protesi. Ma è comunque una dimostrazione molto interessate che rende più luminosa la speranza che in futuro una neuroprotesi possa vincere la paralisi”.


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Mangiare noccioline associandole ai pasti? Può essere un toccasana per la salute del cuore. Rende infatti più elastiche le arterie proteggendo contro lo sviluppo di malattie cardiovascolari. La quantità consigliata sono 85 grammi e devono essere non salate.

A evidenziarlo uno studio della Pennsylvania State University, pubblicato su Journal of Nutrition. «In genere, ogni volta che si mangia qualcosa, le arterie diventano un po’ più rigide durante il periodo post-pasto – spiega Penny Kris-Etherton, autrice principale della ricerca – ma abbiamo dimostrato che se si associano le arachidi ciò può aiutare a prevenire la risposta di irrigidimento». «Dopo un pasto, i trigliceridi aumentano e questo diminuisce tipicamente la dilatazione delle arterie, ma le arachidi impediscono proprio un importante aumento dei trigliceridi stessi», aggiunge.

Lo studio ha preso in esame 15 adulti sovrappeso o obesi considerati sani. I partecipanti hanno consumato arachidi non salate all’interno di un pasto nella forma di un frullato. A un gruppo di controllo è stato assegnato invece un shake simile per qualità e quantità, ma senza arachidi.

I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue per misurare lipidi, lipoproteine e livelli di insulina dopo 30, 60, 120 e 240 minuti, mentre una macchina ad ultrasuoni è stata utilizzata per misurare il flusso sanguigno.

Secondo i risultati c’è stata una riduzione del 32 per cento nei livelli di trigliceridi in chi aveva consumato arachidi rispetto al gruppo di controllo.

ANSA


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Mangiare sano potrebbe aumentare per l’uomo le chance di concepire: l’alimentazione corretta è infatti associata a migliore qualità dello sperma, specie per quegli uomini che partono già con qualche problema di fertilità o con una qualità del seme non perfettamente nella norma.

Lo rivela uno studio su 129 maschi “in attesa” di un bebè pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, condotto presso la University Medical Centre di Rotterdam in Olanda.

Gli esperti hanno analizzato lo sperma dei partecipanti (concentrazione e conta degli spermatozoi, motilità) e con dei questionari ad hoc la loro dieta prima del concepimento. E’ emerso che coloro che seguivano una dieta sana (ricca di cereali integrali, legumi, frutta, olio d’oliva, povera di zuccheri e carboidrati raffinati) presentavano uno sperma migliore. Ciò è risultato vero in particolar modo per coloro che hanno avuto qualche difficoltà in più a concepire; rispetto a maschi con dieta poco corretta, presentavano sperma migliore.

Lo studio suggerisce che anche gli stili di vita e in particolare i comportamenti alimentari sono un fronte possibile di intervento per coppie che hanno problemi di concepimento, un problema in aumento in Europa e legato, spesso, proprio al maschio.

ANSA


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Due ore e mezza a settimana di esercizio fisico. Questa la “ricetta” per sperimentare un minor declino della qualità di vita e della mobilità quando si ha il Parkinson. A identificarla una ricerca condotta da un team guidato dalla Northwestern University di Chicago, pubblicata sulla rivista Journal of Parkinson’s Disease.

Gli studiosi hanno preso in esame i dati della National Parkinson Foundation Quality Improvement Initiative, uno studio internazionale e multicentrico che ha coinvolto 21 realtà tra Usa, Israele e Paesi Bassi. Oltre 3.400 partecipanti hanno fornito dati in più di due anni, con informazioni raccolte nel corso di almeno tre visite.

La mobilità è stata misurata con un test apposito, cronometrando i partecipanti man mano che si alzavano da una sedia, percorrevano tre metri, giravano e tornavano a sedersi. Come spiega Miriam R. Rafferty, prima autrice dello studio, «dai risultati è emerso che le persone con malattia di Parkinson che mantenevano 150 minuti di esercizio a settimana avevano un declino inferiore in termini di qualità di vita e mobilità nel corso di due anni rispetto a chi non faceva esercizio o ne faceva meno. Ciò è risultato valido sia per chi già si esercitava, che per chi ha iniziato a farlo all’inizio dello studio».

Un dato che ha sorpreso gli studiosi è che i benefici maggiori riguardavano le persone in stato avanzato di malattia. Non ci sono indicazioni specifiche sul tipo di esercizio migliore, si può scegliere il proprio preferito, l’importante è che la “dose” sia 150 minuti a settimana.

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Utilizzando delle cellule staminali rese “immortali”, e dunque riutilizzabili, è possibile produrre sangue in laboratorio in una quantità sufficiente per le trasfusioni.

Lo ha dimostrato uno studio coordinato dall’università di Bristol pubblicato dalla rivista Nature Communications, secondo cui il sangue ottenuto in questo modo potrebbe essere usato per chi ha gruppi estremamente rari.

Il “sangue artificiale”, spiegano gli autori, può già essere prodotto a partire da staminali che però nel processo muoiono, rendendo impossibile ottenere quantità elevate. I ricercatori hanno sviluppato un processo che a partire da staminali adulte ottiene cellule eritroidi, quelle che fanno da precursore ai globuli rossi, capaci di replicarsi, e quindi “immortali”. Nei test di laboratorio sono stati ottenuti “litri” di globuli rossi, spiega l’autore principale alla Bbc, mentre i test di sicurezza su eventuali trasfusioni con questo “sangue artificiale” inizieranno entro l’anno, con l’obiettivo di usarli per le persone, di solito immigrati, che hanno caratteristiche del sangue come la presenza o l’assenza di proteine che rendono impossibili le trasfusioni.

«Il primo uso terapeutico di globuli rossi prodotti in questo modo» spiega David Anstee «sarà probabilmente per pazienti con gruppi sanguigni rari, per cui la donazione tradizionale può essere una fonte difficile».

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