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L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication

L’uso abituale dei navigatori satellitari sembra disattivare alcune regioni del cervello che potrebbero altrimenti cercare dei percorsi alternativi migliori aumentando le abilità di ricerca nella persona che sta guidando.

L’utilizzo del navigatore satellitare nel terzo millennio è talmente comune che, talvolta, molti hanno la sensazione di non essere più in grado di orientarsi senza. Ebbene, potrebbe non essere solo una sensazione ma un dato di fatto, almeno secondo quanto suggerisce un esperimento pubblicato su Nature Communication.

Lo studio

La ricerca condotta su 24 volontari reclutati dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, ha evidenziato che quando si cerca un percorso stradale senza l’aiuto di un navigatore satellitare si attivano nel cervello alcune aree dell’ippocampo e della corteccia prefrontale che risultano come “spente” quando invece si usa il navigatore.

“Quando abbiamo a disposizione la tecnologia che ci dice da che parte andare alcune parti del cervello sembrano non rispondere alla rete stradale” – afferma Hugo Spiers del dipartimento di psicologia sperimentale dell’University College di Londra autore principale dell’esperimento. In questo senso, si può dire che il nostro cervello ha ‘spento’ il suo interesse per le strade intorno a noi”.

I ricercatori hanno aggiunto che l’uso costante di dispositivi elettronici nel lungo termine, potrebbe rendere gli utenti meno abili ad imparare nuovi percorsi in una rete stradale cittadina senza l’aiuto del navigatore. Come estensione della ricerca, gli scienziati hanno anche analizzato le reti stradali delle principali città di tutto il mondo cercando di visualizzare dei percorsi più o meno facili. E hanno visto che Londra, con la sua complessa rete di piccole strade, sembra ripercuotersi principalmente sull’attività dell’ippocampo.

Al contrario, per spostarsi in auto in città come Manhattan e New York, dove il layout della mappa di navigazione della città richiede spostamenti a destra o a sinistra, o diritti avanti e indietro, gli sforzi del cervello per imparare percorsi alternativi possono essere inferiori.

Ovvero lo studio dimostra anche come la complessità della rete stradale di una città abbia un possibile impatto sullo sviluppo delle abilità relative ad alcune funzioni cerebrali.


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Centocinquanta ore di lezioni frontali e sul campo per capire, sin dalla terza Liceo scientifico, se si sia o meno “tagliati” per affrontare la Facoltà di Medicina e la professione del medico. E’ questo lo spirito del progetto condiviso, con un Accordo Quadro firmato ieri, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri.

La sperimentazione didattica (che coinvolgerà venti licei scientifici distribuiti su tutto il territorio nazionale e individuati tramite un bando del Miur, oltre agli Ordini provinciali delle relative aree geografiche) nasce sulla scia di un progetto pilota già messo in atto da sette anni (sotto il coordinamento del dirigente scolastico Giuseppina Vinci e del presidente Omceo Pasquale Veneziano), con ottimi risultati in termini di gradimento e di efficacia, dal Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Reggio Calabria, che sarà la scuola capofila.

Ma in cosa consisterà, nei dettagli, il percorso? Una volta individuati i venti istituti, essi inseriranno nei loro piani di studio la nuova disciplina opzionale “Biologia con curvatura biomedica”, da svilupparsi in orario aggiuntivo e che contribuirà alla media dei voti e all’acquisizione dei crediti formativi. Gli studenti delle classi terze che manifesteranno interesse verranno inseriti nel percorso, che sarà triennale. Il monte di 50 ore annue sarà suddiviso in quaranta ore di lezioni frontali (per metà tenute dai docenti di scienze e metà da professionisti individuati dagli Ordini dei Medici e Odontoiatri) e in dieci ore “sul campo”, presso strutture sanitarie, ospedali, laboratori di analisi.

Una Cabina di Regia nazionale, della quale faranno parte anche la professoressa Vinci e Pasquale Veneziano,  eserciterà la funzione di indirizzo e di coordinamento.

“Come Area Strategica della Formazione della Fnomceo abbiamo verificato la qualità e l’efficacia scientifica del progetto calabrese quale metodo di orientamento per l’accesso alla Facoltà di Medicina – spiega Roberto Stella, che di tale Area è coordinatore -. Per ogni anno scolastico in cui è stata fatta la sperimentazione, circa la metà dei ragazzi che si erano iscritti al percorso lo hanno abbandonato, in prevalenza all’inizio del triennio di formazione. La motivazione principale è stata che hanno verificato di non avere le adeguate inclinazioni o motivazioni. E questo ha risparmiato loro anni di fatiche e di studio su una strada che non era, evidentemente, quella in cui avrebbero potuto esprimersi al meglio. Inoltre, coloro che hanno portato a termine il percorso hanno superato più facilmente i test di accesso”.


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Per la prima volta il numero delle persone morte nel corso di un anno a causa di un tumore diminuisce invece di aumentare: nel 2013 i decessi sono stati 1134 in meno rispetto all’anno precedente.

Un successo merito di una maggiore prevenzione e più adesione alle campagne di screening così come al maggiore utilizzo di terapie sempre più precise e mirate.

A fare il punto è l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) con un convegno ospitato presso il Ministero della Salute.

Nonostante il numero di nuove diagnosi sia in continuo aumento, migliorano le aspettative di vita dei malati di cancro. Nel 2013, in base ai dati Istat, le morti registrate sono state 176.217 rispetto alle 177.351 del 2012. «In diciassette anni, dal 1990 al 2007, i cittadini che hanno sconfitto il cancro nel nostro Paese sono aumentati del 18% (uomini) e del 10% (donne)”, afferma Carmine Pinto, presidente AIOM. Merito anche dell’oncologia di precisione, che individua le singolarità genetiche dei diversi tumori. “Oggi – prosegue l’esperto – sappiamo che la malattia si sviluppa e progredisce diversamente in ogni persona. Perché il paziente possa ricevere una terapia di precisione è necessaria una diagnosi con test specifici» da eseguire in “laboratori di qualità”. Così si possono mettere a punto trattamenti a bersaglio molecolare che agiscono su specifiche alterazioni a carico del DNA della cellula tumorale.

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Eseguita con successo da Cardiochirurghi del Gemelli di Roma, rarissima operazione a cuore aperto in una paziente quasi centenaria, che aveva sviluppato una grave malattia della valvola aortica. L’anziana donna ha fatto ritorno a casa e sta bene.

Un intervento a cuore aperto e salvavita a una valvola cardiaca effettuato con successo su una paziente quasi centenaria.  L’eccezionale e rara operazione è stata eseguita presso il Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma dall’equipe della UOC di Cardiochirurgia diretta da Massimo Massetti, Ordinario di cardiochirurgia all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

La paziente, nata nel 1920 e molto attiva, aveva sviluppato una grave malattia della valvola aortica (stenosi valvolare aortica serrata) che l’aveva ridotta a uno stato di grave sofferenza con affanno e mancanza del respiro dopo minimi sforzi. L’anziana signora, motivata a farsi curare, è stata assistita dall’equipe di Filippo Crea, ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica  e direttore del Polo di Scienze cardiovascolari e toraciche, nel Percorso Clinico delle Valvulopatie (Heart Valve Clinic) del Policlinico Universitario A. Gemelli.

Questo percorso clinico, tra i pochi esistenti in Europa, è costituito da numerosi specialisti con competenze specifiche nelle patologie delle valvole cardiache. Cardiologi Clinici e Interventisti, Aritmologi, Cardioanestesisti, Fisiatri insieme ai Cardiochirurghi, hanno approfondito la diagnosi, decidendo durante le quotidiane riunioni dell’Heart Team del Gemelli, la terapia più idonea all’anziana paziente resa particolarmente fragile dalla malattia. Dopo un’adeguata preparazione, il delicato intervento chirurgico è stato eseguito con una tecnica originale micro-invasiva che comporta un’incisione di 2 cm sul torace utilizzando le tecnologie più innovative tra le quali la modernissima sala operatoria ibrida di cui è dotato il Polo di Scienze cardiovascolari del Policlinico.

La paziente quasi centenaria ha superato brillantemente l’intervento e l’immediato post-operatorio grazie anche alle cure dei cardio-rianimatori del Gemelli diretti da Franco Cavaliere e dopo una settimana di degenza e un periodo di riabilitazione, è tornata a casa in piena autonomia.

“Questo approccio – spiega Massetti – è stato realizzato sulla paziente come un sarto confeziona un abito su misura e il limite dell’età è stato superato grazie alla grande collaborazione di tutti gli specialisti che hanno messo in sinergia le proprie competenze per realizzare questo intervento chirurgico salvavita”.

“L’invecchiamento della popolazione italiana – commenta Antonio Rebuzzi, Direttore dell’Unità Intensiva Cardiologica del Policlinico – richiede continue sfide che i medici possono affrontare non solo introducendo nuove terapie, ma anche modificando la gestione centrata sul paziente all’interno dell’ospedale. La creazione di percorsi clinici specifici per ogni patologia cardiaca insieme a una ristrutturazione dei reparti, degli ambulatori e delle sale operatorie, costituiscono un reale progresso nella diagnosi e cura delle malattie cardiache”.

L’Area Cardiovascolare del Policlinico A. Gemelli rappresenta sempre più un polo di riferimento per numerosi pazienti provenienti da tutta l’Italia e i dati relativi all’attività svolta durante l’anno 2016 dimostrano questa eccellenza con oltre 250 interventi di chirurgia valvolare eseguiti con successo.


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Con oltre 5 milioni di contagi, 219 casi gravi e almeno 53 anziani deceduti, è ufficialmente finita l’epidemia influenzale in Italia, ma il virus continua a circolare, insieme a quelli similinfluenzali e ai raffreddori primaverili. E’ quanto emerge dal nuovo bollettino di sorveglianza delle sindromi influenzali Influnet coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss). «Il numero di casi – spiega all’ANSA Gianni Rezza, capo Dipartimento malattie infettive dell’Iss – ci dice che è stata una stagione ad attività medio alta. La vera particolarità è che ha avuto un picco elevato e precoce di casi a fine dicembre mentre in genere era osservato fra gennaio e febbraio. Dopo di che c’è stata una diminuzione drastica e un declino continuo. Ci aspettavamo un numero maggiore di contagi che non c’è stato». Sebbene in quasi tutte le Regioni italiane è terminato il periodo epidemico, in Piemonte, Val D’Aosta, nella Provincia di Trento e in Basilicata il livello di incidenza è ancora alto e la scorsa settimana sono stati 104mila gli italiani allettati da virus influenzali. Inoltre, prosegue Rezza, «in questo periodo circolano molto virus parainfluenzali, che danno sintomi più lievi, ma anche raffreddori dovuti a adenovirus, coronavirus e rinovirus».

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I casi complessivi del 2016 sono stati 844, mentre dall’inizio del nuovo anno ad oggi sono stati già segnalati più di 700 casi. La maggior parte dei casi sono stati segnalati da sole quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Lombardia e Toscana. Secondo il ministero il fenomeno è in gran parte conseguente al numero crescente di genitori che rifiutano la vaccinazione.

Il Ministero della Salute lancia l’allarme morbillo. Nei primi due mesi e mezzo dell’anno abbiamo infatti quasi raggiunto la quota complessiva dei casi registrati nel 2016 quando in tutto si ebbero 844 casi di morbillo. Da gennaio ad oggi il morbillo ha invece già colpito 700 persone con un incremento, rispetto allo stesso periodo del 2016, di oltre il 230%.

La maggior parte dei casi sono stati segnalati da sole quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Lombardia e Toscana. Più della la metà dei casi rientra nella fascia di età 15-39 anni. Sono stati notificati anche diversi casi a trasmissione in ambito sanitario e in operatori sanitari.

“Il morbillo – sottolinea il Ministero – continua a circolare nel nostro Paese a causa della presenza di sacche di popolazione suscettibile, non vaccinata o che non ha completato il ciclo vaccinale a 2 dosi. Ciò è in gran parte dovuto al numero crescente di genitori che rifiutano la vaccinazione, nonostante le evidenze scientifiche consolidate e nonostante i provvedimenti di alcune regioni che tendono a migliorare le coperture, anche interagendo con le famiglie e i genitori”.

“Nonostante il Piano di eliminazione del morbillo sia partito nel 2005 – sottolinea il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin –  e la vaccinazione contro il morbillo sia tra quelle fortemente raccomandate e gratuite, nel 2015 la copertura vaccinale contro il morbillo nei bambini a 24 mesi (coorte 2013) è stata dell’85,3% (con il valore più basso pari al 68% registrato nella PA di Bolzano e quello più alto in Lombardia con il 92,3%), ancora lontana dal 95% che è il valore soglia necessario ad arrestare la circolazione del virus nella popolazione”.

“È ora indispensabile – precisa –  intervenire rapidamente con un impegno e una maggiore responsabilità a tutti i livelli, da parte di tutte le istituzioni e degli operatori sanitari, per rendere questa vaccinazione fruibile, aumentandone l’accettazione e la richiesta da parte della popolazione. Analogamente le amministrazioni regionali e delle aziende sanitarie, così come pediatri e medici di medicina generale devono promuovere una campagna di ulteriore responsabilizzazione da parte dei genitori e delle persone non immuni di tutte le età affinché non rinuncino a questa fondamentale opportunità di prevenire una malattia che può essere anche letale”.

“Il Ministero – conclude –  attiverà ogni possibile procedura per garantire la piena realizzazione degli obiettivi del recente Piano nazionale di prevenzione vaccinale e per riguadagnare rapidamente le coperture vaccinali che si sono abbassate pericolosamente nel corso degli ultimi anni”.


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Il 17 marzo è la Giornata Mondiale del Sonno. L’obesità già nel bambino e poi nell’adulto e una serie di malattie croniche che insorgono nell’età adulta come l’insulino-resistenza, il diabete mellito di tipo 2 e i disturbi cardiovascolari, sono alcune delle patologie che si rischiano quando fin da bambini si dorme troppo poco

L’obesità già nel bambino e poi nell’adulto e una serie di malattie croniche che insorgono nell’età adulta come l’insulino-resistenza, il diabete mellito di tipo 2 e i disturbi cardiovascolari, sono alcune delle patologie che si rischiano quando fin da bambini si dorme troppo poco.

La Giornata Mondiale del Sonno (che viene convenzionalmente fissata ogni anno il venerdì prima dell’equinozio di primavera) ha il compito di porre in  luce l’importanza del dormire in modo corretto per la salute dell’individuo.

La Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) ha effettuato un’indagine sulle abitudini nell’età compresa tra 1 e 14 anni. I risultati di questo progetto, chiamato “Ci piace sognare”, hanno evidenziano che solo il 68,4 per cento dei bambini dorme in modo adeguato.

“Una riduzione sistematica e prolungata del sonno, oltre alle classiche conseguenze come sbalzi di umore, irritabilità e difficoltà di concentrazione – sottolinea Paolo Brambilla, Coordinatore Gruppo di lavoro della Sipps “Obesità e stili di vita” – sembra essere associata allo sviluppo di patologie croniche: non solo obesità e insulino-resistenza, ma anche diabete mellito di tipo 2, disturbi cardiovascolari. L’analisi degli studi pediatrici mostra poi come per ogni ora di sonno in più il rischio di sovrappeso e obesità risulti ridotto in media del 9%. Studi epidemiologici suggeriscono infatti che soggetti, sia adulti che bambini, tendono ad avere un maggiore indice di massa corporea (Bmi), una maggiore percentuale di grasso corporeo e una maggiore circonferenza della vita nei confronti di chi rispetta le ore di sonno raccomandate. Anche la regolarità, e non solo la durata media, del sonno sarebbe importante a fini preventivi”.

Nell’associazione tra diminuzione delle ore di sonno e aumentato rischio di obesità si innescano diversi meccanismi: aumento dell’appetito, dovuto ad un’alterazione dei neuropeptidi coinvolti nella regolazione dell’appetito stesso; aumento del tempo disponibile per assumere alimenti ricchi di calorie durante la giornata; stanchezza e riduzione dell’attività fisica.

I pediatri consigliano alcune linee guida variabili a seconda dell’età: i bambini fino a 12 mesi hanno bisogno di dormire 14-18 ore durante il giorno e la notte; i bambini dopo l’anno e per tutta l’età prescolare hanno bisogno di dormire 12-14 ore distribuite nelle 24 ore; i bambini che frequentano la scuola primaria hanno bisogno di dormire 10-12 ore al giorno.

Oltre alla durata, conta anche la qualità del sonno, e qui l’indagine ha mostrato che solo il 47% dei bambini di età compresa tra 1 e 2 anni si addormenta nel proprio letto. Questa percentuale sale progressivamente con l’età, arrivando all’87% a 10-13 anni. I bambini che si addormentano nel lettone (ben il 39% a 1-2 anni) si riducono con il crescere dell’età, ma sono comunque ancora il 26% a 5-6 anni e il 20% a 7-9 anni. Un 10% circa di bambini ad ogni età si addormenta in un’altra stanza (ad esempio sul divano in salotto). Inoltre il 13,1% dei bambini cambia letto durante la notte (dal proprio a quello dei genitori).

“Il sonno – spiega Elvira Verduci, componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps) – è un processo fondamentale nella vita di ogni individuo e in età pediatrica contribuisce alla salute e alla crescita del bimbo. E’ recente l’ipotesi di una possibile associazione tra ridotta durata del sonno ed obesità. I cambiamenti dello stile di vita, con impegni legati soprattutto agli orari di lavoro, hanno reso comune l’abitudine di dormire meno”.

“Importante compito del pediatra e dei genitori –  conclude Giuseppe Di Mauro, Presidente Sipps – è quindi quello di educare fin dai primi anni di vita non solo a corrette scelte alimentari ma anche a corretti stili di vita quali un’adeguata attività fisica ed un’abitudine regolare al sonno sia in termini di qualità che di quantità. Le indicazioni riguardo una corretta igiene del sonno sono solo un aspetto di quello che è un più ampio discorso su un corretto stile di vita: considerare nella valutazione anamnestica di un bambino anche la tipologia di sonno è fondamentale nell’inquadramento generale del piccolo”.


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Si tratta di una bambina di due anni e mezzo, nata con un solo rene, il sinistro, perché il destro non si è mai sviluppato. Purtroppo anche il rene sinistro presentava un’anomalia congenita all’uretere, il condotto che unisce e trasporta l’urina dal  rene alla vescica. Ora l’urina passa regolarmente dal rene alla vescica attraverso l’appendice. L’intervento rivoluzionario è stato effettuato presso l’Urologia pediatrica dell’ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute

Per la prima volta è stato sostituito l’uretere con l’appendice ad una piccola bimba nata con un rene solo, per di più affetto da una grave e rarissima anomalia congenita. Ora l’urina passa regolarmente dal rene alla vescica attraverso l’appendice. L’intervento rivoluzionario è stato effettuato presso l’Urologia pediatrica dell’ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute di Torino.

Si tratta di una bambina di due anni e mezzo, nata con un solo rene, il sinistro, perché il destro non si è mai sviluppato. Purtroppo anche il rene sinistro presentava un’anomalia congenita all’uretere, il condotto che unisce e trasporta l’urina dal  rene alla vescica. Per questo motivo la bambina è stata sottoposta ripetutamente in un altro ospedale italiano ad interventi per correggere questa anomalia.  Gli interventi non hanno avuto successo e l’uretere è andato incontro ad un processo di atresia completa, cioè si è ridotto ad un sottile cordone fibroso.

Quando la bambina è giunta all’ospedale Infantile Regina Margherita di Torino, il suo unico rene era drenato da un tubo che portava l’urina all’esterno del corpo e da cui dipendeva la sopravvivenza della bambina. Una ostruzione del tubo o, peggio ancora, una sua accidentale dislocazione o rimozione, avrebbero avuto come conseguenza immediata lo sviluppo di una insufficienza renale acuta.

Il problema era quindi di sostituire l’uretere mancante. Ma in questo caso l’uretere mancante era a sinistra, rendendo più difficile pensare di sostituirlo con un viscere localizzato sul lato destro. I precedenti tentativi di sostituzione dell’uretere sinistro con l’appendice non sono più di due o tre al mondo e si tratta, comunque, di casi di sostituzione parziale.

Nel corso dell’intervento, effettuato da Emilio Merlini (Direttore di Urologia Pediatrica della dell’ospedale Regina Margherita di Torino), è stato possibile isolare l’appendice insieme ad un piccolo tratto di parete dell’intestino cieco e trasportarla dal lato destro, facendola passare al di sotto del mesentere del colon discendente sino al lato sinistro della bambina. L’appendice, fortunatamente, era lunga e dritta, per cui si è riusciti a collegarla al bacinetto del rene da un lato ed ad attaccarla alla vescica, in basso, coprendo la distanza tra il rene e la vescica e sostituendo, così, tutto l’uretere mancante. Il postoperatorio è stato privo di complicanze ed il controllo radiografico predimissioni ha consentito di visualizzare un normale passaggio dell’urina dal rene alla vescica.

La bambina è ritornata a casa, dove si sta riabituando ad una vita normale, senza l’incubo di essere collegata al tubo esterno che ne garantiva la sopravvivenza.


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Il glaucoma nel mondo colpisce oltre 60 milioni di persone, di cui 1 milione in Italia, ed è causa del 12% di tutti i casi di cecità.

Dal 12 al 18 marzo si celebra la settimana mondiale dedicata a questa patologia, già descritta nelle opere di Omero ed Ippocrate, che provoca danni progressivi al nervo ottico, e si stima crescerà nei prossimi anni.

La forma più comune di glaucoma, spesso associata all’aumento della pressione all’interno dell’occhio, può svilupparsi senza sintomi e provocare la perdita permanente della vista. I pazienti si accorgono solo tardivamente ma, se diagnosticata in tempo, la malattia può essere controllata e se ne può rallentare la progressione. Oltre all’aumento della pressione oculare, ci sono altri fattori di rischio, come l’età, la razza, la familiarità, la patologia cardiovascolare e l’uso indiscriminato di colliri cortisonici.

«Circa un milione di Italiani è affetto da glaucoma, ma molti di loro non sanno di averla», spiega Luca Mario Rossetti, direttore della Clinica Oculistica dell’Università degli Studi di Milano all’Ospedale San Paolo. Questo accade perché «la patologia è asintomatica, quindi la diagnosi è quasi sempre tardiva.

Basterebbero 15 minuti per una visita completa che consenta di controllare la pressione dell’occhio e l’aspetto del nervo ottico».

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Molto social sul web, poco social nella vita quotidiana. La triste equazione emerge da uno studio recentemente pubblicato dall’American Journal of Preventive Medicine. Chi è molto attivo sui social media vive il contrappasso di non avere il senso di appartenenza a una comunità.

Brian Primack, direttore del Center for Research on Media, Technology and Health presso l’Università di Pittsburgh, ha condotto uno studio per valutare quanto il tempo trascorso dagli utenti dei servizi come Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, Reddit, Vite e LinkedIn potesse condizionare un eventuale isolamento sociale.

Il team di Primack ha registrato come rispetto alle persone che trascorrono non più di mezz’ora sui social media ogni giorno, coloro che dedicano almeno due ore al giorno ai social media riferiscano l’esperienza della sensazione di isolamento in una percentuale quantificabile intorno al 50%. “Questi risultati dovrebbero essere considerati come un ammonimento”- ha detto Primack – considerando che l’isolamento sociale è associato ad un peggioramento generale dello stato di salute con possibilità di esacerbazione di alcuni sintomi di malattie diverse e con rischi di riduzione della sopravvivenza”.

I ricercatori hanno esaminato 1.787 adulti di età compresa tra 19 e 32 anni nel 2014 e il loro uso delle 11 piattaforme di social media più popolari al momento: Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Snapchat, Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine e LinkedIn. Circa la metà dei partecipanti erano uomini e l’altra metà donne, selezionati sulla base dei dati demografici degli Stati Uniti. Più della metà sono stati impegnati in relazioni interpersonali. Circa il 26% dei partecipanti ha detto che trascorreva più di due ore al giorno sui social media, e circa il 23% ha detto di aver visitato i social almeno 58 volte nel corso della settimana. I visitatori più assidui, avevano circa il triplo delle probabilità di percepire isolamento sociale rispetto a coloro che si collegavano i ai social media meno di nove volte a settimana.

Le conclusioni
Lo studio non prova direttamente che i social media provochino l’isolamento, ed è possibile che, nello studio, le persone che già sentivano meno in contatto con altre nella vita reale abbiano speso più tempo sui social. E’ difficile definire esattamente le motivazioni di questi risultati e diverse sono le spiegazioni plausibili. Una è rappresentata dal fatto che le persone che trascorrono molto tempo sui social media non abbiano poi molto tempo da trascorrere per socializzare nella vita reale. E’ anche possibile che i partecipanti allo studio non avessero una precisa percezione del tempo trascorso sui media e le loro percezioni potrebbero essere diverse da quelle delle persone anziane. In conclusione Primack spera che i risultati dello studio possano aiutare tutti i frequentatori dei social media a considerare il tempo speso in maniera più critica e consapevole così da poterne trarre dei reali benefici.

Fonte: Am J Prev Med 2017 
Lisa Rapaport


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