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Troppe docce, poca idratazione e abuso di pomate con il cortisone: sono tra gli errori più diffusi commessi da chi soffre di dermatite atopica, soprattutto in forma grave. Una malattia per cui però presto saranno disponibili nuovi farmaci, come segnala Ketty Peris, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Dermatologia del Policlinico Gemelli di Roma, sul sito internet Prevenzione-Salute.it.

La malattia si manifesta con eruzioni cutanee e prurito, che diviene insopportabile, tanto da provocarsi graffi e lacerazioni, per poi passare al dolore. Le cause che la scatenano non sono però state ancora ben comprese. Chi ne soffre commette spesso errori nel trattamento, come «sottoporsi a frequenti docce – commenta Peris – Ci si lava in maniera eccessiva, senza considerare che l’acqua secca molto la pelle, e quindi può avere un effetto negativo. Dopo ogni doccia sarebbe bene idratarsi in maniera adeguata». Alcuni pazienti, aggiunge il medico, non usano una giusta quantità di crema o spesso usano prodotti dannosi, non di qualità. E anche un uso eccessivo di creme può essere un errore. Ci sono molti farmaci nuovi in arrivo che si somministreranno sotto cute, conclude, ”che saranno presto in commercio».

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Settantacinque anni fa, con il primo paziente salvato dalla penicillina, iniziava l'”era degli antibiotici”. A ricevere il farmaco il 14 marzo del 1942 fu Anne Miller, un’infermiera del Connecticut. La donna si presentò all’ospedale di New Haven con una febbre altissima da diversi giorni per un’infezione da streptococco.

Pur essendo stata scoperta nel 1928 da Fleming, la penicillina era stata usata solo in test su uomini e animali soprattutto in Gran Bretagna, dando risultati non soddisfacenti.

I medici che curavano Miller, dopo aver provato con trasfusioni di sangue e interventi chirurgici, riuscirono a ottenerne un cucchiaio dal governo, metà della scorta presente negli Usa in quel momento, e videro un miglioramento netto già nella notte.

«Pur avendo tutti questi anni di attività la penicillina si usa ancora per alcune malattie – sottolinea Massimo Andreoni, docente di Malattie Infettive dell’università di Tor Vergata di Roma -, anche se con il tempo i germi hanno “imparato” come difendersi. In realtà già all’epoca era chiaro che ciò si sarebbe verificato e sarebbe stato necessario studiare nuove armi».

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Cicoria, carciofi, aglio crudo, porri e cipolle. Questi alcuni cibi che possono essere “amici” del sonno e che smorzano gli effetti dello stress.

Questi alimenti contengono infatti i prebiotici (da non confondere con i più noti probiotici) che fanno da “cibo” per i batteri buoni dell’intestino e favoriscono un buon riposo e una migliore reazione alle situazioni stressanti.

A evidenziarlo uno studio della University of Colorado a Boulder, pubblicato sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience. La ricerca è stata svolta su dei topi in laboratorio. I ratti, di tre settimane, sono stati nutriti con cibi semplici o ricchi di prebiotici. I ricercatori hanno poi monitorato la temperatura corporea, i batteri intestinali e i cicli sonno-veglia, con un esame apposito, l’elettroencefalografia.

Dai risultati è emerso che i topi alimentati con una dieta a base di prebiotici trascorrevano più tempo nella fase Rem del sonno, quella considerata più ristoratrice. Anche sottoposti a stress, i topi nutriti con prebiotici continuavano a mantenere questo beneficio, oltre a conservare un microbiota sano, cioè una composizione equilibrata dei batteri a livello intestinale, e normali fluttuazioni nella temperatura corporea.

Secondo l’autrice principale dello studio, Monika Fleshner, è prematuro raccomandare supplementi di prebiotici come aiuto per un buon sonno, ma nulla vieta di assumere questi elementi dai cibi. Non fa male e anzi può essere un aiuto.

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Salgono a due milioni le dichiarazioni di volontà registrate nel Sistema informativo trapianti e rilasciate dai cittadini attraverso le Asl, l’Aido e i Comuni.

Sono quest’ultimi ad aver avuto un ruolo fondamentale nell’incentivare gli italiani ad esprimersi sulla donazione e a rilasciare il proprio volere: negli oltre 1.600 Comuni che hanno attivato la procedura di registrazione della dichiarazione di volontà in occasione del rinnovo della carta d’identità sono state, infatti, più di 500mila le persone che hanno scelto di dire la propria sulla donazione. E nell’88% dei casi si è trattato di un “sì”.

Dei due milioni di manifestazioni di volontà custodite nel Sistema Informativo Trapianti il 26% è stato trasmesso dagli uffici anagrafe dei Comuni mentre la maggior parte delle dichiarazioni (66%) proviene dagli atti olografi rilasciati all’Aido, la principale associazione di settore che da decenni lavora al fianco delle istituzioni per sensibilizzare i cittadini sui temi della donazione e del trapianto. L’8% delle espressioni di volontà è stato rilasciato presso le Asl.

Ma la mappa dei Comuni che hanno avviato questo servizio è ancora a macchia di leopardo. “Nel 21% delle amministrazioni comunali di tutta Italia – ha affermato Alessandro Nanni Costa, Direttore del Centro Nazionale Trapianti – è possibile fare una scelta importante quando si rinnova il documento di identità. Il nostro auspicio è di arrivare presto ad una copertura nazionale, anche grazie all’introduzione della Carta d’Identità Elettronica già adottata in via sperimentale da circa 200 Comuni, tra cui Firenze e Napoli”.

I dati raccolti sono più che incoraggianti, ha aggiunto, e dicono che questo meccanismo funziona perché “mette in circolo una comunicazione costante e diretta con i cittadini. E per Costa ci sono “margini di miglioramento notevoli soprattutto nell’incrementare il rapporto esistente tra carte d’identità emesse e dichiarazioni rese, oggi fermo al 10-15%”.

Le Regioni e le città più virtuose
La Provincia Autonoma di Bolzano, l’Umbria, la Toscana e l’Emilia Romagna sono le Regioni che presentano il numero più elevato di Comuni che hanno attivato questa procedura. Tra i Comuni con oltre 50mila abitanti e che hanno raccolto almeno 5mila dichiarazioni di volontà, Terni, Cesena e Genova sono le città con il maggior numero di consensi alla donazione (rispettivamente: 98.8%, 98.5% e 96.9%).


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Tv accesa e pasti non preparati a casa. Un binomio da evitare se si vuole mantenere la linea.

Gli adulti che non guardano la tv durante i pasti e mangiano cibo per lo più cucinato in casa, hanno molte meno probabilità di altri di essere obesi. La conferma arriva da un recente studio condotto negli USA. Già diversi studi avevano messo in evidenza come il consumo dei pasti in famiglia siano correlati a un rischio minore di obesità. I 12.000 partecipanti a quest’ultimo studio, tutti residenti in Ohio, hanno fatto registrare l’importanza di un altro aspetto nella riduzione rischio di obesità, a prescindere dalla consumazione o meno del pasto in famiglia: la televisione spenta.

Il team di ricerca ha analizzato i dati di 12.842 adulti che avevano consumato almeno un pasto in famiglia la settimana precedente lo studio. Circa un terzo aveva un indice di massa corporea di 30 o più. I partecipanti hanno poi risposto a domande sulle loro abitudini: quanto spesso consumassero i pasti a casa con la propria famiglia, quanto spesso guardassero la tv durante i pasti e se i pasti stessi fossero stati preparati in casa. Nel complesso, il 52% degli intervistati aveva mangiato pasti in famiglia per sei o sette giorni alla settimana, il 35% lo aveva fatto un giorno sì e uno no e il 13% solo uno o due giorni.

Circa un terzo degli adulti aveva guardato la tv durante la maggior parte dei pasti in famiglia, mentre un altro 36% non lo aveva fatto. Per il 62% degli adulti tutti i pasti consumati in famiglia erano cucinati in casa. I ricercatori hanno rilevato che il numero di pasti consumati con la loro famiglia non era correlato alla probabilità di essere obesi.

Gli adulti che cucinavano e consumavano in casa tutti i loro pasti avevano tuttavia il 26% di probabilità in meno di essere obesi rispetto a chi faceva diversamente.

Le persone che guardavano la televisione durante i pasti presentavano una probabilità inferiore del 37%  di essere obesi rispetto a quelli che guardavano sempre la TV.


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Il 3 marzo si è celebrata la giornata dedicata all’udito, una ricorrenza nazionale che si svolge in contemporanea con World Hearing Day. L’obiettivo è di sensibilizzare tutti i cittadini alla prevenzione, in un’epoca in cui l’uso dei dispositivi elettronici di ultima generazione e l’esposizione a suoni di elevato volume mette tutti a rischio, anche i più piccoli. Secondo l’Oms i disturbi dell’udito hanno un costo complessivo valutabile in 750 miliardi di dollari.

Utilizzare smartphones o lettori MP3, frequentare discoteche, bar, pub o eventi sportivi può esporre a frequenze sonore così alte da danneggiare l’udito. Può accadere a chiunque, giovani o vecchi che siano. Anche in questo caso non c’è miglior cura della prevenzione. Ed è per sensibilizzare tutti i cittadini su questa tematica che il 3 marzo si è svolta la Giornata dell’udito, organizzata dall’associazione Nonno Ascoltami!, con il patrocinio del Ministero della Salute.

L’evento, moderato da Luciano Onder, responsabile TG5 Salute, si svolge in occasione del World Hearing Day, indetto dall’Organizzazione mondiale della sanità, rappresentato per l’occasione da Shelly Chadha, direttore del dipartimento prevenzione dell’Oms. Organizzati diversi momenti di discussione e confronto tra i referenti scientifici presenti, tra questi il “Focus sui problemi di udito”, a cura del costituito comitato scientifico, per approfondire le tematiche legate all’epidemiologia dell’ipoacusia in Italia. Poi, spazio anche la campagna di prevenzione “L’udito è uno strumento prezioso”, realizzata in collaborazione con il Comitato Nazionale Italiano Musica – Cidim e basata sui problemi dell’udito e sugli stili di vita che possono concorrere all’insorgenza dell’ipoacusia nei più giovani.

Le stime dell’Oms
La perdita dell’udito non curata, secondo le stime 2016 dell’Oms, ha un costo globale di 750 miliardi di dollari. Soprattutto ogni anno i costi per i sistemi sanitari, oltre a quelli per i dispositivi acustici, vanno dai 67 ai 107 miliardi di dollari. Mentre la perdita di produttività, a causa della disoccupazione e dal pensionamento anticipato arriva a 105 mld di dollari. I costi sociali derivanti dalla situazione di isolamento di quanti sono colpiti da sordità a causa delle difficoltà di comunicazione e dallo stigma arrivano a 573 miliardi. Mentre quelli per l’assistenza scolastica ai bambini con perdita di udito, di età compresa tra i 5 e i 14 anni, sono stimati in 3,9 miliardi di dollari.

L’Oms raccomanda quindi di investire risorse adeguate per azioni di prevenzione e di cura e inserire nei programmi sanitari azioni di cura per l’integrità dell’udito e dell’orecchio, la formazione professionale, implementare programmi di prevenzione e aumentare la consapevolezza del problema  tra tutti i settori della società.

Infine l’Oms ricorda che sono efficaci tutte le azioni contro i rumori forti e quelle per la diagnosi, il trattamento dell’otite media; le azioni di screening nei neonati, nei bambini in età scolare e negli adulti sopra i 50 anni. Ed anche fornire trattamenti riabilitativi, supporti per l’uso continuo di apparecchi acustici e  migliorare l’accesso agli impianti cocleari.


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Fino al 20% delle persone fa o ha fatto uso di “rimedi naturali” (prodotti erboristici e affini) per la salute del cuore (per combattere ad esempio l’ipertensione o il colesterolo alto), ma sono ancora pochi i dati di efficacia e sicurezza sull’uso della fitoterapia.

E’ emerso da una ricerca svolta presso l’Università Cattolica di Roma: presi in esame tantissimi dati in merito a 42 sostanze erboristiche in uso per le malattie cardiovascolari. Il rischio di queste cure fai-da-te è anche che chi ne fa uso può arrivare a sospendere le cure tradizionali senza avvertire il proprio medico, spiegano Graziano Onder del Centro di Medicina per l’Invecchiamento, mettendo a repentaglio la propria salute.

Al momento attuale i dati circa l’efficacia di queste terapie sono estremamente limitati e non supportano il loro uso nella pratica clinica. Inoltre molte di esse possono causare eventi avversi anche gravi e interagire con i farmaci tradizionali.

La ricerca ha preso in considerazione 42 fitoterapici con potenziale indicazione per il trattamento di ipertensione, scompenso cardiaco, cardiopatia ischemica, colesterolo e trigliceridi, e malattie vascolari. Tra i fitoterapici esaminati, l’olio di semi di lino, il cardo mariano, i semi d’uva, il tè verde, il biancospino, l’aglio e la soia potrebbero avere un’azione benefica sui livelli di pressione arteriosa e di lipidi nel sangue e sul controllo glicemico ma mancano studi clinici ampi e definitivi. Per altre erbe quali astragalo, ginseng e ginkgo biloba sono ancora meno i dati disponibili su presunti benefici in termini di riduzione del rischio cardiovascolare.

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I batteri che compongono la flora intestinale possono alterare sia la funzionalità dell’intestino, sia la ‘mente’ di un individuo, esponendolo a sindrome dell’intestino irritabile – la malattia gastrointestinale più diffusa al mondo – e anche a comportamenti ansiosi. Infatti questi batteri risultano “contagiosi”: se trapiantati nella pancia di topolini sani, trasmettono loro ansia e disturbi del colon.

E’ quanto suggerisce uno studio pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine e condotto dall’italiana Giada De Palma, presso la McMaster University a Hamilton.

Il colon irritabile è una malattia caratterizzata da dolore addominale, problemi intestinali che passano da diarrea a costipazione. Per provare la complicità dei batteri intestinali nel causare questa malattia tanto diffusa quanto misteriosa, l’italiana ha prelevato campioni di flora intestinale di pazienti e soggetti malati, trapiantandoli nella pancia di topolini. Il trapianto dei batteri intestinali dei pazienti ha determinato la comparsa della sindrome dell’intestino irritabile negli animali, con comparsa anche di disturbi d’ansia, esattamente come nei pazienti. Quando invece i topolini sono stati trapiantati con flora intestinale di soggetti sani, la malattia non è comparsa.

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Sono tra le 7mila e le 8mila le malattie rare secondo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità. L’80% ha origine genetica, mentre il 20% è dovuto ad altri fattori, come quelli ambientali. Il 30% di queste malattie è senza diagnosi, “senza nome”.

Anche per questo si è scelto di investire sulla ricerca, in un lavoro di network con specialisti di quattro continenti: è il network internazionale per le malattie senza diagnosi, coordinato dallo statunitense NiH (National Institute of Health) e dall’italiano Iss (Istituto Superiore di Sanità).

A evidenziarlo, durante il Rare Disease Day 2017, organizzato oggi a Roma in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare che si celebra il 28 febbraio, è Domenica Taruscio, direttrice del Centro nazionale delle malattie rare dell’Iss. «Investire sulla prevenzione, anche in considerazione del fatto che non tutte queste malattie hanno origine genetica, è importante. Una prevenzione primaria riguarda ad esempio l’assunzione di acido folico prima della gravidanza», spiega ancora Taruscio.

«Duecentomila sono invece gli iscritti al registro malattie rare – aggiunge -. Sono dati destinati ad aumentare mano a mano che il sistema registrazione va a regime».

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L’Alzheimer potrebbe essere favorito da troppo zucchero nel sangue: infatti uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports mostra che l’eccesso di zucchero (iperglicemia) disattiva nel cervello un enzima protettivo importante per difendere le cellule nervose da danni e proteine tossiche.

Secondo quanto riferito dall’autore dello studio Jean van den Elsen dell’Università di Bath (GB), la disattivazione di questo enzima – chiamato MF – potrebbe rappresentare un momento critico nelle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, una specie di molla che dà il via alla malattia.

Non è la prima volta che si lega la demenza senile a problemi come il diabete o l’obesità; talora alcuni scienziati hanno addirittura soprannominato l’Alzheimer “diabete del cervello”, proprio a voler evidenziare una connessione. Nello studio britannico gli esperti hanno visto che, in effetti, a lungo andare l’eccesso di zucchero nel sangue porta a reazioni tossiche nel cervello (“glicazione”) che disattivano l’enzima protettivo, MF, impedendogli di svolgere il proprio lavoro.

ANSA


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