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Come scegliere le uova bio osservando il guscio, come evitare il pane lievitato con l’aiuto dei fosfati. Spesso il cibo nasconde insidie per la salute e l’unico modo per difenderci è leggere bene l’etichetta, vera e propria carta d’identità di quello che arriva sulle nostre tavole.

A offrire una guida per orientarsi tra gli scaffali dei supermercati è il libro di Enrico Cinotti “E’ facile fare la spesa, se sai leggere l’etichetta”, pubblicato da Newton Compton.

Questi alcuni dei principali additivi che sarebbe meglio evitare, ma a volte nascosti dietro misteriose sigle.

Esaltatori di sapidità: il più noto è il glutammato di sodio (E621) aggiunto nei cibi spesso per mascherarne i difetti di qualità. Sono fonte di possibili allergie, tra le quali la cosiddetta “sindrome da ristorante cinese”, caratterizzata da mal di testa, vampata e affaticamento.

Coloranti: usati per rendere i cibi attraenti, alcuni sono innoqui come curcumina e carotene o cocciniglia, ma altri no. Come il rosso allura (E129) accusato di provocare disturbi sul comportamento dei più piccoli (può essere presente nelle carni e nei crostacei), e il biossido di titanio (E171) e l’alluminio (E173), usato nei dolci.

Conservanti: aiutano ad evitare la proliferazione dei microrganismi ma è bene non abusarne. È il caso del nitrato di potassio (E252), del nitrito di potassio (E249) e del nitrito di sodio (E250). Aggiunti spesso nelle carni, fresche e insaccate, per evitare lo sviluppo del botulino e evitare che diventino grigie, una volta ingeriti, si trasformano in N-nitrosammine, sostanze cancerogene. Molti insaccati, come i prosciutti dop, li vietano.

Aromi: spesso sono l’ultimo ingrediente della lista. Ne esistono quasi 3.000 a disposizione dell’industria” ma l’unica informazione in etichetta riguarda se quelli presenti siano aromi di sintesi (identificati semplicemente con la dicitura “aromi”), oppure naturali.

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L’agopuntura è efficace nel prevenire e ridurre gli attacchi di emicrania: lo rivela uno studio condotto presso l’Università di Chengdu di medicina tradizionale cinese.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine ed ha preso in esame i risultati clinici di una serie di sperimentazioni in cui si confrontava l’efficacia dell’agopuntura (in 5 punti specifici del capo e del corpo), con l’azione di un trattamento placebo (aghi posizionati su punti non efficaci, insomma un’agopuntura finta).

Ebbene il trattamento – ripetuto per 20 settimane – è in grado di ridurre la frequenza degli attacchi in media da 4,8 a 3 al mese in chi soffre di emicrania cronica. L’agopuntura si è dunque rivelata un’arma efficace contro l’emicrania che non sempre può essere risolta con farmaci, che comunque hanno una serie di effetti collaterali importanti.

L’agopuntura si era già dimostrata efficace per un altro tipo di mal di testa, la cefalea tensiva, in un lavoro recente sull’European Journal of Integrative Medicine.

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L’intervento è avvenuto all’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino e si è reso possibile grazie all’uso della chirurgia robotica. Una tecnica che è risultata “fondamentale in questa particolare situazione con un rene in posizione anomala a stretto contatto con l’utero e con una vascolarizzazione complessa”, hanno spiegato i sanitari.

Tutto inizia con la decisione di una paziente di 45 anni delle Molinette di Torino, portatrice di rene ectopico pelvico, una rara anomalia congenita che può portare a dolore cronico ingravescente ed infezioni necessitanti l’intervento chirurgico di rimozione, di rimuovere l’organo. Una volta proceduto all’intervento di rimozione del rene, comunque ben funzionante ma destinato allo scarto, l’equipe ha lasciato aperta una piccola possibilità di trapiantarlo in un’altra persona in dialisi che avesse delle caratteristiche tali da poter tentare l’intervento.

Questa soluzione era sperata da tutti e per prima anche dalla signora, sottolinea una nota delle Molinette, che voleva così dare in questo gesto generoso un senso a tutte le sue precedenti sofferenze. Nella reportistica mondiale è la prima volta che viene utilizzata la chirurgia robotica a fronte di una situazione anatomica vascolare estremamente più complessa.

La sequenza di interventi si è consumata lunedì in una staffetta chirurgica, dove solo al termine del primo intervento e della valutazione “su banco” del rene si è potuto pensare di utilizzarlo per un trapianto.

La nefrectomia è stata eseguita con tecnica robotica dal professor Paolo Gontero (Direttore dell’Urologia universitaria dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino), insieme al dottor Alessandro Greco ed agli anestesisti Alessandra Davi ed Elisabetta Cerutti.

Come spiega Paolo Gontero “la chirurgia robotica è stata fondamentale in questa particolare situazione di un rene in posizione anomala a stretto contatto con l’utero e con una vascolarizzazione complessa. L’aiuto del robot ha permesso l’accuratezza chirurgica necessaria in un intervento così delicato. Il robot Da Vinci di ultima generazione in dotazione presso la Città della Salute viene correntemente utilizzato in campo urologico per interventi oncologici su prostata, rene e vescica”.

Il dottor Maurizio Merlo (Direttore della Chirurgia Vascolare ospedaliera delle Molinette), che insieme al dottor Aldo Verri ed agli anestesisti Antonella Marzullo e Luisella Panealbo (dell’équipe dottor Pier Paolo Donadio) ha eseguito la ricostruzione vascolare del rene ed effettuato la fase vascolare del trapianto, sottolinea come “si sia trattato di un rene con una complessità di arterie mai presentata prima d’ora per un trapianto nella trentennale tradizione della Chirurgia Vascolare ospedaliera delle Molinette, abituata ad operare su tutti i distretti vascolari anche in condizioni sia di estrema urgenza che di difficoltà. Tale esperienza maturata in decenni di attività ha consentito di risolvere anche questa situazione permettendo il trapianto di questo rene”.

La fase successiva è poi stata eseguita dai dottori Omid Sedigh ed Andrea Bosio, urologi, che hanno ricostruito la complessa via urinaria del rene, anch’essa anomala, insieme a quella del ricevente.

Il trapianto è tecnicamente riuscito ed il paziente di 51 anni, sganciato dalla dialisi, è in costante miglioramento, ricoverato presso la terapia semi-intensiva della Nefrologia universitaria e seguito dall’équipe nefrologica diretta dal professor Luigi Biancone.

Ci tiene a sottolineare Biancone, responsabile del programma di trapianto renale delle Molinette, come ”due situazioni di sofferenza e di calvario sono state trasformate entrambe in lieto fine, grazie alla generosità della signora ed all’esperienza pluridisciplinare del trapianto renale di  Torino che si è dimostrata ancora una volta vincente”.


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Sono sei i pazienti della Regione Lazio trapiantati da un’equipe multidisciplinare del Policlinico Gemelli che hanno ricevuto un rene da donatore vivente grazie ad una tecnica “made in Japan” che consiste nel ‘ripulire’ il sangue del paziente che riceve l’organo dagli anticorpi contro il gruppo sanguigno del donatore evitando il rigetto.

Grazie a una tecnica all’avanguardia, ‘made’ in Japan, e utilizzata a oggi solo in pochi centri in Italia, sono già sei i pazienti laziali che hanno ricevuto un rene da un donatore vivente con gruppo sanguigno incompatibile. L’incompatibilità del gruppo sanguigno (da sempre considerata una barriera alla possibilità di effettuare un trapianto di rene) viene bypassata ‘ripulendo’ il sangue del paziente che riceve l’organo così da eliminare gli anticorpi contro il sangue del donatore.

Gli interventi sono stati effettuati dall’equipe chirurgica della sezione Trapianti di Rene dell’Unità Operativa Trapianti di Rene, diretta dal Franco Citterio, mentre il prelievo del rene è stato effettuato con procedura laparoscopica dal Jacopo Romagnoli.

Determinante per il successo di questo tipo di trapianto è stata la stretta collaborazione con l’Unità Operativa Complessa di Emotrasfusione diretta da Gina Zini e con il laboratorio di Istocompatibilità del Centro Regionale Trapianti diretto di Antonina Piazza.

Trapianto di rene
Nel Lazio lo scorso anno sono stati eseguiti con ottimi risultati 42 trapianti da donatore vivente, il 15,4 % di questo tipo di trapianti effettuati in Italia.La tecnica consiste nel filtrare il sangue dei pazienti riceventi (prima del trapianto) in speciali filtri di ‘plasmaferesi’ per rimuovere gli anticorpi antigruppo presenti.

Sono stati i chirurghi giapponesi i primi al mondo a effettuare trapianti con incompatibilità del gruppo sanguigno, mettendo a punto la tecnica. Da qualche anno alcuni centri italiani del Nord-Italia hanno iniziato a seguire l’esempio giapponese e americano, effettuando con successo il trapianto tra coppie donatore – ricevente con gruppo sanguigno AB0 incompatibile.

Ora questa procedura è possibile anche nel Lazio presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma. I primi sei pazienti trapiantati presso l’Unità Operativa trapianti di rene del Policlinico Gemelli stanno bene e presentano un’ottima funzione renale.

“Questa positiva esperienza – ha detto Citterio – consente di superare uno degli ostacoli al trapianto di rene da donatore vivente e permetterà anche nel Lazio di poter curare meglio i nostri pazienti con insufficienza renale cronica. Per l’anno in corso ci sono già quattro pazienti in studio”.


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La dieta mediterranea, arricchita di olio d’oliva, è un toccasana per il cuore. Aggiungendo a questo regime alimentare il prezioso condimento (ne bastano quattro cucchiai al giorno) migliorano infatti gli effetti protettivi per il cuore del colesterolo “buono” (Hdl), cosa che riduce il rischio di malattie cardiache e ictus.

È quanto emerge da una ricerca dell’Hospital del Mar Medical Research Institute, a Barcellona, pubblicata su Circulation.

Gli studiosi hanno preso in esame 296 persone a rischio di malattie cardiovascolari. L’età media era di 66 anni ed è stata assegnata loro da seguire per un anno una dieta a scelta tra tre diverse. La prima era una dieta mediterranea arricchita da quattro cucchiai al giorno di olio di oliva, la seconda una dieta mediterranea integrata giornalmente con una manciata di noci e la terza una dieta “di controllo” con quantità ridotta di carne rossa, latte e formaggi ad alto contenuto di grassi, alimenti trasformati e dolci.

Dai risultati è emerso che nessuna delle diete aumentava i livelli di colesterolo buono (Hdl) ma entrambe quelle mediterranee ne hanno migliorato le funzioni. I progressi sono stati migliori in coloro che avevano seguito la dieta con olio extravergine di oliva. In particolare, a migliorare era l’effetto di contrasto alla formazione di placche nelle arterie e la capacità vasodilatatoria, con vasi sanguigni più “rilassati”.

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Il Ministero della Salute ha pubblicato i dati relativi alla copertura nazionale e regionale per la vaccinazione Hpv nella popolazione femminile. La rilevazione si riferisce all’anno 2015 e mostra un decremento, anche se lieve, di questa particolare vaccinazione. Il calo risulta più drastico se si paragonano i dati relativi alle bambine che oggi hanno raggiunto l’età prevista per questa vaccinazione e quelli delle nate vent’anni fa.

Calano le adolescenti che si vaccinano contro il papilloma virus. Nel giro di 12 mesi, tra il 2014 e il 2015, il decremento è stato quasi dell’1%. Settanta giovani su cento hanno usufruito di questo tipo di vaccinazione, una percentuale molto al di sotto della soglia del 95%, prevista dal Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale. Il divario aumenta ulteriormente se si analizzano soltanto i dati relativi alla prima dose e non al ciclo completo.

Nel 2014, il 75,2% delle ragazze aveva fatto almeno la prima dose del vaccino Hpv, l’anno successivo la percentuale è calata al 73,1%. La vera diminuzione di copertura vaccinale può essere osservata andando più indietro con il tempo, paragonando i dati attuali con quelli di coloro che sono venuti alla luce quasi due decenni fa: tra le ragazze nate tra il 1997 e il 2001 circa 8 su 10 hanno infatti fatto ricorso alla vaccinazione Hpv. I dati sono stati raccolti attraverso la scheda di rilevazione delle coperture vaccinali inviata annualmente dal Ministero della Salute alle Regioni

Chi ha diritto al vaccino gratuito
Dal 2007, questo vaccino è gratuito per le bambine fino al dodicesimo anno di vita (undici anni compiuti), in tutte le Regioni italiane. In alcune Regioni è stato deciso di estendere la copertura gratuita anche in altre fasce di età. Le Regioni Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, invece, offrono il vaccino a tutti coloro, a prescindere dal sesso e dall’età, che risultino Hiv positivi. Via libera per i maschietti, sempre fino a dodici anni, in Sicilia, Puglia, Liguria, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Attualmente, a seconda dei luoghi, può variare l’anno di nascita da cui si individuano gli aventi diritto. Ad esempio, in diverse realtà, questo beneficio spetta ai bambini nati dal 2004 in poi, ma non è una regola generale.

Questa possibilità, grazie al nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 2017-2019 e i nuovi LEA – di cui è attesa la pubblicazione in Gazzetta ufficiale – potrebbero essere estesi anche a tutti i bambini di sesso maschile, di qualunque regione italiana, fino al dodicesimo anno di vita. La piena operatività di questa decisione è prevista nel corso del prossimo anno.


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L’uso di sostanze come estasy e speed accelera i processi di invecchiamento del cuore. Questo fenomeno sarebbe alla base dell’elevata incidenza di patologie cardiovascolari nelle persone che ne sono dipendenti.

Secondo quanto suggeriscono i risultati di un nuovo studio pubblicato da Heart Asia, gli adulti di mezza età che fanno uso di anfetamine come speed o ecstasy, a scopo ricreativo, possono sviluppare precocemente dei problemi cardiaci come quelli normalmente associati all’invecchiamento.

“Queste sostanze sono già state correlate a infarto, ictus, danni della parete arteriosa, anomalie del ritmo cardiaco e morte cardiaca improvvisa”, dice l’autore principale dello studio, Stuart Reece, della University of Western Australia a Crawley. “E’ plausibile dunque pensare che tutti questi diversi aspetti siano collegati da un’accelerazione dei sottostanti effetti dell’invecchiamento”.

Lo studio
Per questo studio, i ricercatori hanno misurato il flusso di sangue attraverso un’arteria principale nella parte superiore del braccio e dell’avambraccio in 713 persone tra i 30 e i 40 anni, selezionati tra i degenti di una clinica per abuso di sostanze. I pazienti sono stati divisi in quattro gruppi: non fumatori, fumatori, consumatori di anfetamine e di metadone. I ricercatori hanno utilizzato un sistema di monitoraggio della pressione arteriosa attraverso il posizionamento di un bracciale in ogni partecipante, per calcolare l’età vascolare biologica e hanno abbinato il grado di indurimento delle arterie con l’età cronologica, il sesso e l’altezza.

Quasi tutti i 55 consumatori di anfetamine inclusi nello studio avevano usato questi stimolanti durante la settimana precedente all’osservazione, e circa la metà lo avevano fatto nel giorno precedente alle misurazioni della pressione con il bracciale. Come hanno segnalato i ricercatori, si è visto che anche dopo aver considerato diversi fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, come il peso, i livelli di colesterolo e l’infiammazione, l’abuso di anfetamine era ancora associato in modo indipendente con un avanzamento dell’età cardiovascolare.

E l’invecchiamento accelerato, osservato con le anfetamine, sembrava essere ancora più pronunciato di quanto si verifica con l’uso del tabacco, ed era equivalente a circa un aumento del 25% rispetto all’età cronologica. In altre parole – concludono i ricercatori – ad un età media di 40 anni, si aggiungeva un avanzamento dell’invecchiamento di 10 anni.

Fonte: Heart Asia 2017


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Uno studio condotto sui topi ha mostrato che, grazie a un vettore di virus sintetici, è possibile introdurre nell’orecchio geni in grado di “riparare” l’udito. Sulla base di queste evidenze, un secondo team di ricerca ha ripetuto con successo l’esperimento.

La terapia genica può restituire l’udito. Al momento il successo è stato registrato nel modello animale, in particolare nei topi, ma i ricercatori sono convinti di poter applicare la scoperta anche sull’uomo. L’esperimento è stato condotto dal team guidato da Likas Landegger, della Harvard Medical School di Boston.

Un lavoro precedente di questo stesso gruppo di ricerca aveva dimostrato che la terapia genica era in grado di restituire un udito di base a topi geneticamente sordi. per il nuovo studio è stato messo a punto un vettore di virus sintetici adeno-associati Anc80L65, che va a colpire sia le cellule ciliate interne ed esterne che si trovano nella coclea. L’iniezione del vettore in questa parte dell’orecchio era ben tollerata e la funzione uditiva non rimaneva danneggiata “Anc80L65 è un vettore affidabile per il rilascio genico nell’orecchio interno – afferma Landegger – e i dati raccolti mostrano una conservazione dell’udito e della funzione vestibolare nei topi coinvolti”.

Sulla base di queste evidenze, un altro team di ricerca, guidato da Gwenaelle Geleoc del Boston Children’s Hospital, ha utilizzato Anc80L65 per rilasciare una versione corretta del gene per la sindrome di Usher di tipo 1C (Ush1c c.216G>A) nell’orecchio interno dei topi nati laboratorio con una versione difettosa del gene. Le cellule ciliate interne ed esterne nella coclea hanno iniziato a produrre livelli normali di armonina – una proteina che media la trasduzione nelle cellule ciliate – e hanno formato fasci normali che rispondevano alle onde sonore. Inoltre, i topi sordi trattati immediatamente dopo la nascita tornavano a sentire, come dimostrato dalle risposte a rumori forti in una gabbia che fa sobbalzare. Ulteriori test hanno mostrato che tali animali erano anche in grado di reagire a suoni deboli; 19 dei 25 topi sono riusciti a udire suoni al di sotto degli 80 decibel e pochi hanno captato suoni da 25 a 30 decibel, come i topi normali. In più, la terapia ha ridato equilibrio alle cavie con disfunzione vestibolare.

Fonte: Nature Biotechnology 2017


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Uno studio neozelandese apre un fronte in parte inedito nel campo della depressione in gravidanza, dimostrando che a soffrirne è anche un numero significativo di maschi, sia durante che nel post-partum. Una situazione che può passare inosservata se non ricercata proattivamente e che può avere pesanti ripercussioni sullo sviluppo cognitivo e psico-sociale del figli

La gravidanza è un periodo assai delicato nella vita di una donna che può sfociare nella depressione post-partum, ancora troppo spesso non riconosciuta e dunque non adeguatamente gestita. Ma adesso uno studio pubblicato da ricercatori neozelandesi su JAMA Psychiatry, attira l’attenzione sui rischi che una gravidanza può comportare anche per l’altro partner.

L’équipe di ricerca guidata da Lisa Underwood dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda) ha già pubblicato numerosi studi sulla depressione delle madri, ma questa è la prima volta che affronta il problema da questo diverso angolo.

Lo studio appena pubblicato ha ricercato la presenza di sintomi della depressione prima della gravidanza e nel post-partum in un gruppo di 3.523 maschi, di età media 33 anni, che hanno effettuato un’intervista con i ricercatori neozelandesi mentre la compagna si trovava al terzo trimestre di gravidanza, ripetendola poi a distanza di 9 mesi dalla nascita del bambino.

La ricerca ha portato ad appurare che il 2,3% dei padri presentavano sintomi depressivi importanti in epoca pre-concepimento e che il 4,3% presentava una sintomatologia depressiva di rilievo a 9 mesi dalla nascita.

Nel corso della gravidanza, la presenza di gravi sintomi di depressione tra i maschi era correlata con lo stress e con una condizione di salute precaria; nel post-partum la depressione dei padri era invece correlata con lo stress patito durante la gravidanza , con l’eventuale rottura della relazione con la madre, con la presenza di problemi di salute, con il fatto di essere disoccupato o di avere una storia di depressione alle spalle.

“E’ solo di recente – sottolineano gli autori dello studio – che l’influenza dei padri sui figli è stata riconosciuta vitale per lo sviluppo adattativo psico-sociale e cognitivo. Visto che la depressione paterna può avere un effetto diretto o indiretto sulla prole è importante individuarne la presenza e trattarne i sintomi da subito; e ovviamente il primo passo da fare è quello di aumentare la consapevolezza del problema tra i padri.”


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La vitamina D protegge contro raffreddori e influenza.

Lo dimostra in via definitiva un ampio studio di portata globale diretto da scienziati della Queen Mary University di Londra (QMUL) e pubblicato sul British Medical Journal.

Gli effetti protettivi indotti da un’integrazione di vitamina D sono risultati tanto maggiori quanto più un individuo è carente di questa vitamina (fino a dimezzare il rischio di infezioni delle vie respiratorie), ma gli effetti – anche se più modesti – si vedono pure su individui non carenti di vitamina D (-10% di rischio infezioni).

Complessivamente gli autori del lavoro hanno stimato che l’efficacia protettiva della vitamina D contro infezioni respiratorie acute è pari a quella del vaccino anti-influenzale. La ricerca è stata condotta attraverso l’analisi di dati relativi a circa 11.000 persone che hanno preso parte in 25 trial clinici condotti in 14 paesi (inclusa l’Italia). È emerso che effettivamente l’integrazione di questa vitamina – che il corpo riesce a produrre in autonomia solo quando ci si espone al sole – protegge da infezioni delle vie respiratorie, probabilmente stimolando la produzione di antimicrobici nei polmoni.

Lo studio è coerente col fatto che le infezioni respiratorie sono tipiche dei mesi freddi quando siamo meno esposti alla luce solare.

ANSA


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