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È quanto emerge da uno studio di piccole dimensioni, condotto nel Regno Unito e pubblicato da BMC Psychiatry. Dei 54 partecipanti allo studio, 25 hanno considerato i loro animali domestici come facenti parte della loro rete sociale. E circa il 60% degli animali è stato collocato nel cerchio più vicino al proprietario, e il 20% li ha posti nel secondo cerchio.

Secondo quanto suggerisce uno studio di piccole dimensioni, condotto nel Regno Unito e pubblicato da BMC Psychiatry, gli animali domestici da compagnia, potrebbero svolgere un ruolo attivo nel trattamento a lungo termine dei problemi di salute mentale dei loro proprietari.

Helen Brooks e colleghi, della University of Manchester, hanno intervistato 54 persone che avevano già ricevuto una diagnosi di problemi di salute mentale a lungo termine, e hanno dedicato particolare attenzione all’esperienza quotidiana del vivere giorno per giorno con una malattia mentale. I ricercatori hanno, in pratica, chiesto ai partecipanti di valutare il rapporto, il valore e il significato degli animali domestici nella loro vita. Allo scopo i partecipanti allo studio hanno ricevuto un diagramma con tre cerchi concentrici attorno ad una piazza che rappresentava il proprietario dell’animale. È stato chiesto loro di scrivere i nomi di persone, luoghi e cose che hanno dato loro un sostegno. Ebbene, dei 54 partecipanti, 25 hanno considerato i loro animali domestici come facenti parte della loro rete sociale. E circa il 60% degli animali è stato collocato nel cerchio più vicino al proprietario, e il 20% li ha posti nel secondo cerchio.

Helen Brooks ha in primo luogo sottolineato che diversi animali, in questo studio, sono stati visti come il supporto sociale più importante e centrale nella vita dei proprietari, fornendo spesso rapporti sicuri e altrimenti non disponibili con altri esseri umani. In proposito uno dei partecipanti parlando del suo cane ha detto di potersi fidare di lui più che delle persone. E un altro partecipante, riferendosi al suo gatto, lo ha reputato in grado di percepire da solo, senza bisogno di chiamarlo, quando avesse bisogno di compagnia. In definitiva gli autori ritengono che i loro risultati siano molto indicativi su quanto un animale domestico possa essere d’aiuto al suo proprietario, specie se malato di mente, anche fornendo una presenza fisica costante. Altri ricercatori hanno valorizzato lo studio precisando come in Australia e negli Stati Uniti l’impiego di animali domestici bisognosi di cure, se per esempio affidati ad anziani soli, a loro volta bisognosi di attenzione e compagnia, abbaia già portato a buoni risultati.

Fonte: BMC Psychiatry 2016


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I ricercatori della Harvard University di Boston hanno verificato il rischio di obesità in relazione al tempo trascorso sia davanti allo schermo della TV che a schermi più piccoli su un campione rappresentativo a livello nazionale di 24.800 bambini e ragazzi dai 9 ai 12 anni. Dai risultati è emerso che l’abitudine di trascorrere almeno 5 ore al giorno alla TV ha aumentato del 78% le probabilità di obesità.

Non è una novità il fatto che trascorrere troppo tempo davanti alla TV possa costituire un fattore di rischio notevole per l’insorgenza di obesità, specie per bambini e ragazzi che, proprio durante le ore trascorse davanti allo schermo, sono propensi a consumare maggiori quantità di cibo spazzatura e di bevande gasate e zuccherate.

Partendo da queste premesse Erica Kenney, che si occupa di salute pubblica presso la Harvard University di Boston, ha voluto verificare il rischio di obesità in relazione al tempo trascorso sia davanti allo schermo della TV che a schermi più piccoli come quelli di pc, tablet, smartphone e console. Kenney e colleghi hanno esaminato i dati di diverse indagini raccolti nel 2013 e nel 2015 relativi ad un campione rappresentativo a livello nazionale di 24.800 bambini e ragazzi dai 9 ai 12 anni.

Per prima cosa i ricercatori hanno evidenziato che il 17% dei ragazzi ha affermato di aver guardato la TV durante la settimana, e il 7,8% hanno dichiarato di aver trascorso davanti alla TV più di 5 ore al giorno. Inoltre, circa 1 su 5 ha detto di aver trascorso almeno cinque ore al giorno durante la settimana davanti a schermi più piccoli. L’indagine richiedeva anche di riportare il proprio peso e l’altezza e i consumi di bevande gasate e zuccherate: più del 25% e circa dei ragazzi e il 20% delle ragazze ha riferito di consumare almeno una bevanda gasata tipo “soda” o altre bevande zuccherate, ogni giorno. E ancora, circa due terzi dei ragazzi e tre quarti delle ragazze partecipanti, hanno dichiarato di non fare attività fisica quotidiana.

E’ emerso complessivamente che il 14% dei ragazzi partecipanti erano obesi. Dopo un aggiustamento per età, sesso, razza ed etnia e di nuovo per l’utilizzo di piccoli schermi, la visione della TV è stato associata a probabilità significativamente più elevate di consumare una o più bevande zuccherate e ad un aumento del rischio di obesità. Contemporaneamente, un tempo maggiore trascorso davanti a schermi più piccoli era indipendentemente legato a maggiori probabilità di dormire meno del dovuto, di bere bevande zuccherate e di maggiore sedentarietà.

Le evidenze
I ricercatori hanno precisato che – nel confronto con i ragazzi che non stavano troppo a lungo davanti al televisore – in questo studio l’abitudine di trascorrere almeno 5 ore al giorno alla TV ha aumentato del 78% le probabilità di obesità. Per quanto riguardava, invece, l’uso quotidiano protratto di altri schermi, si è visto che era legato a un rischio di obesità maggiore del 43%. Kenne, ha sottolineato quanto lo scenario sia cambiato ultimamente, data la grande diffusione più recente dei dispositivi elettronici con schermi più piccoli di quello televisivo.

Fonte: J Pediatr 2016


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Per i bimbi che hanno un’infezione all’orecchio è fondamentale completare la terapia antibiotica per tutti i giorni prescritti perché “tagliarla” non porta benefici ma aumenta il rischio di una guarigione non completa.

Lo afferma un test clinico della University of Pittsburgh School of Medicine pubblicato dal New England Journal of Medicine. Lo studio è stato condotto su 520 bambini tra nove e 23 mesi di età con otite acuta media, a metà dei quali è stato assegnato il normale ciclo di amoxicillina e clavulanato da dieci giorni. Gli altri hanno ricevuto il farmaco per 5 giorni, e un placebo per i restanti.

Il rischio di fallimento della terapia è risultato del 34% nei bimbi con cura breve, più del doppio che nell’altro gruppo (16%). Una analisi dei batteri presenti nel naso ha rivelato la stessa percentuale di batteri resistenti nei due gruppi, e anche le segnalazioni di effetti avversi, dalla diarrea all’arrossamento da pannolino sono state le stesse.

La ricerca ha anche mostrato che un bambino su due che ha del fluido residuo nelle orecchie dopo il trattamento ha poi un ritorno dell’infezione, una percentuale molto superiore a quella nei bambini che hanno l’orecchio “pulito”. «Date le preoccupazioni sull’utilizzo eccessivo degli antibiotici e sulla resistenza abbiamo condotto il test per verificare se la riduzione della durata del trattamento potesse dare benefici – spiega Alejandro Hoberman, l’autore principale -, ma il risultato mostra chiaramente che una durata minore non offre nessun vantaggio».

ANSA


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Pubblicati gli ultimi dati del sistema di monitoraggio dell’Iss che stimano un numero di casi pari a 886.000 dall’inizio del monitoraggio. Brusco aumento del numero di casi alimentato soprattutto dalle classi di età pediatrica. L’anno scorso, nello stesso periodo, erano stati calcolati solo 482.400 casi.

Nella cinquantesima settimana del 2016 (quella dal 12 al 18 dicembre), i casi stimati di sindrome influenzale, rapportati all’intera popolazione italiana, sono circa 258.000, per un totale di circa 886.000 casi a partire dall’inizio della sorveglianza InfluNet di quest’anno (17 ottobre 2016). Rispetto allo scorso anno si rileva una brusca impennata di casi, passati dai 482.400 dello stesso periodo del 2015 agli 886.000 di quest’anno. In pratica quasi il doppio.

La curva epidemica delle sindromi influenzali inizia così la sua ascesa dopo aver superato, nella 49° settimana, il valore soglia di 2,44 casi per mille assistiti che determina l’inizio del periodo epidemico.

Il livello di incidenza in Italia è pari a 4,25 casi per mille assistiti. La fascia di età maggiormente colpita è quella dei bambini al di sotto dei cinque anni in cui si osserva un’incidenza pari a circa 10,41 casi per mille assistiti e quella tra 5 e 14 anni pari a 6,44.

Piemonte, P.A. di Trento, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Lazio e Campania le Regioni le Regioni maggiormente colpite.

Il valore dell’incidenza sulla popolazione generale è, come abbiamo visto, pari a 4,25 casi per mille assistiti. Nella fascia di età 0-4 anni l’incidenza è pari a 10,41 casi per mille assistiti, nella fascia di età 5-14 anni a 6,44 nella fascia 15-64 anni a 4,11 e tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni a 1,82 casi per mille assistiti.

Le soglie indicate per la stagione in corso per l’Italia sono così definite: 2,44 casi per mille assistiti (livello basale), 6,54 (intensità bassa), 11,94 (intensità media), 15,58 (intensità alta), oltre 15,58 (intensità molto alta).

Confronto casi stimati influenza 2015/2016 (dalla 42ª alla 50ª settimana)


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Passi incessantemente dalla tua pagina Facebook a Twitter per poi andare ad aggiornare Instagram o altri social cui sei iscritto? Il rischio è di sviluppare depressione e ansia.

Una ricerca Usa mostra che i giovani attivi su tanti social (fino a 11 diversi), indipendentemente dal tempo trascorso complessivamente su di essi, hanno un rischio più che triplo di ansia e depressione rispetto a coetanei per nulla attivi o che usano al massimo due sole piattaforme.

Lo rivela una ricerca condotta da esperti della University of Pittsburgh Center for Research on Media, Technology and Health (CRMTH). L’analisi è stata pubblicata sulla rivista Computers in Human Behavior ed ha coinvolto un campione di quasi 1800 giovani che sono stati monitorati per vedere se presentassero ‘segni’ di depressione e ansia e a che livello. A tutto il campione è stato anche chiesto di riferire quali e quanti tra questi social erano soliti usare: Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Snapchat, Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine e LinkedIn.

“Il legame trovato tra uso di molti social e rischio ansia e depressione è così forte che i clinici dovrebbero tenerne conto e chiedere ai propri pazienti depressi e ansiosi che uso fanno dei social per poi dare adeguato supporto e counseling per aiutare i pazienti stessi a limitarne l’uso”, dichiara l’autore del lavoro Brian Primack.

ANSA


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Rispetto al 2015, evidenziata una riduzione dello 0,8% degli incidenti con lesioni a persone, del 4,7% delle vittime e dello 0,5% delle persone ferite. – 15% decessi in autostrada. Per uso del cellulare alla guida e per eccesso di velocità le multe sono cresciute rispettivamente del 25% e del 22%. Ma tutto ciò non basta: obiettivi Ue 2020 ancora lontani.

Incidenti stradali con lesioni in calo nel 2016. Numeri in discesa anche per i decessi e per i feriti. Il tutto in un anno che ha segnato una ripresa della mobilità con la ripresa della vendita di mezzi di trasporto. Questa la prima fotografia preliminare dell’Istat sugli incidenti stradali nei primi sei mesi dell’anno.

“Si stima che nel primo semestre dell’anno in corso – scrive l’Istat – gli incidenti stradali con lesioni a persone avvenuti in Italia siano 83.549. Il numero di morti entro il trentesimo giorno è 1.466, mentre i feriti ammontano a 118.349. Rispetto ai dati consolidati dello stesso periodo del 2015, le stime preliminari evidenziano una riduzione dello 0,8% degli incidenti con lesioni a persone, del 4,7% delle vittime e dello 0,5% delle persone ferite”.

In 15 anni dimezzato il numero dei decessi. Nei primi sei mesi dell’anno il numero di morti scende del 25,6% rispetto al primo semestre 2010 e del 55,4% nel confronto con lo stesso periodo del 2001.

Ma obiettivi Ue 2020 ancora lontani. “Nonostante il netto calo della mortalità rispetto al periodo gennaio-giugno 2015, il livello resta elevato e non in linea con quanto previsto dall’obiettivo europeo per il 2020 (dimezzamento del numero di vittime registrate nel 2010).

Scende numero morti per incidenti in autostrada. In base ai dati forniti dalla Polizia Stradale, nel primo semestre 2016 il numero di vittime sulle autostrade si riduce di circa il 15% rispetto allo stesso periodo del 2015. Per le strade urbane ed extraurbane la diminuzione è invece compresa tra il 2 e il 5%.

Il 2016 si presenta come un anno di ripresa della mobilità. Dai dati preliminari disponibili, le prime iscrizioni di veicoli nel periodo gennaio-giugno 2016 sono aumentate del 19% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente mentre le percorrenze medie autostradali registrano una crescita del 3,7%.

Boom multe per guida al cellulare ed eccesso di velocità. Nei primi sei mesi dell’anno le contravvenzioni elevate dalla Polizia Stradale per uso del cellulare alla guida e per eccesso di velocità sono cresciute rispettivamente del 25% e del 22%.


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Solo dalla Finlandia, patria incontrastata della sauna poteva provenire uno studio di questo tipo. Che è tuttavia serissimo, condotto su un vasto numero di soggetti e per un arco temporale lunghissimo. Un gruppo di ricercatori dell’Università della Finlandia Orientale, dopo aver dimostrato che la sauna protegge il cuore dall’infarto e fa vivere più a lungo, torna a pubblicare su Age and Ageing dati che dimostrano come la sauna eserciti un importante effetto protettivo anche sul cervello. Chi fa di frequente la sauna insomma fa meno infarti ed ha un rischio di sviluppare una forma di demenza inferiore del 66% rispetto ai non entusiasti della cabina di legno con i carboni bollenti.

Fare di frequente la sauna protegge dal rischio di demenza. Lo ha stabilito uno studio realizzato dall’Università della Finlandia Orientale.

E a dimostrazione che non si tratti di un ‘promo’ per questa pratica così amata dai finlandesi, ma di uno studio scientifico in piena regola (pubblicato su Age and Ageing) lo dimostra anche la durata delfollow-up, che ha superato i 20 anni. In questo lungo lasso temporale, i maschi habitué della sauna (da 4 a 7 volte a settimana) hanno presentato un rischio di demenza ridotto di ben il 66% rispetto a chi in sauna si affaccia appena una volta a settimana.

Questa osservazione è stata fatta nell’ambito del Kuopio Ischaemic Heart Disease Risk Factor Study (KIHD), uno studio di popolazione prospettico che ha coinvolto oltre duemila uomini di mezz’età residenti nella parte orientale della Finlandia. In base alle loro abitudini di sauna i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: i ‘patiti’ (4-7 saune a settimana), i ‘tiepidi’ (1 sauna a settimana) e gli ‘intermedi’ (2-3 saune a settimana).

Andando a tirare le somme del rischio di demenza alla fine dei 20 anni di follow-up ne scaturisce che gli aficionados della sauna presentano un rischio di demenza inferiore del 66% rispetto ai ‘tiepidi’ e un rischio di Alzheimer inferiore del 65%.

Ma la sauna non fa bene solo al cervello; in passato l’analisi dei dati dello studio KIHD ha rivelato che chi fa molte saune presenta anche un ridotto rischio di morte cardiaca improvvisa, di mortalità in generale, di coronaropatie e di altri eventi cardiaci.

Secondo gli autori dello studio la sauna avrebbe insomma un effetto protettivo sia sul cuore che sulla memoria grazie a dei meccanismi condivisi ma ancora in gran parte inesplorati. “Di certo – riflette il coordinatore dello studio, il Professor Jari Laukkanen – la salute cardiovascolare ha importanti ripercussioni sul cervello. E anche il senso di benessere e di relax che la sauna regala possono giocare un ruolo in questo senso.”


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I bambini che in età prescolare vanno a letto e si svegliano tardi hanno maggiori probabilità di soffrire di disturbi del sonno rispetto ai loro coetanei mattinieri. È quanto emerge da uno studio condotto a Singapore pubblicato su Sleep Medicine.

I bambini che in età prescolare vanno a letto e si svegliano tardi hanno maggiori probabilità di soffrire di disturbi del sonno rispetto ai loro coetanei mattinieri. È quanto emerge da uno studio condotto a Singapore pubblicato su Sleep Medicine.“I problemi di sonno possono iniziare nella prima infanzia e spesso persistono durante lo sviluppo. Sono stati associati a conseguenze negative sulla salute che riguardano il comportamento, gli aspetti cognitivi ed emozionali”, spiega l’autore senior della pubblicazione, Birit Broekman, ricercatrice all’Istitute for Clinical Sciences, Agency for Science, Technology and Research di Singapore.

“Si sa ancora poco su come il cronotipo possa contribuire ai problemi di sonno nei bambini molto piccoli, che non vanno ancora a scuola. Questo studio dimostra che anche in età prescolare i bambini con cronotipi notturni possono avere problemi di sonno”, evidenzia Broekman.

Lo studio

I ricercatori hanno studiato alcune famiglie a Singapore, concentrandosi su 244 bambini tutti intorno ai 4 anni e mezzo. Le madri hanno compilato questionari che hanno permesso ai ricercatori di classificare, sulla base dei cronotipi, i bambini in mattinieri, intermedi o notturni. Inoltre, le madri hanno riportato i problemi relativi all’addormentamento dei figli, come porre resistenza per andare a letto, impiegare molto tempo per addormentarsi, sonnambulismo, disturbi respiratori durante il sonno.

I ricercatori hanno utilizzato anche i monitor per tracciare i ritmi sonno-veglia di 117 bambini nel corso di quattro giorni, per validare i diari del sonno tenuti dalle loro madri.

Sulla base delle domande sul cronotipo, 25 bambini sono stati giudicati mattinieri, 151 intermedi e 64 notturni. L’ora di andare a letto in settimana per i mattinieri era in media attorno alle 10 di sera e la sveglia era puntata alle 7:30 del mattino. Gli intermedi tendevano invece ad andare a letto verso le 22:45 per svegliarsi attorno alle 7:40. I notturni andavano a dormire verso le 11 e si svegliavano dopo le 8:30. Dopo l’aggiustamento per etnia e altri fattori familiari, i ricercatori hanno scoperto che i bambini con cronotipi notturni avevano più problemi di sonno rispetto ai bambini mattinieri o intermedi.

“Queste evidenze suggeriscono che il cronotipo potrebbe essere un fattore che contribuisce ai disturbi del sonno nella prima infanzia”, riflette Broekman. “Tutto ciò potrebbe potenzialmente avere un impatto negativo sul comportamento durante il giorno e lo sviluppo cognitivo, aspetto che resta da testare”.

Fonte: Sleep Med 2016


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I datori di lavoro devono, per legge, assumere dei disabili e per questo ottengono agevolazioni fiscali. Il dipendente assente dal lavoro per malattia, qualora questa sia correlata ad una invalidità riconosciuta pari o superiore al 67 percento, è esonerato dalla reperibilità alle visite mediche di controllo domiciliare, come stabilito dal Decreto Ministeriale del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’11 gennaio 2016

Secondo la Legge 118/1971 si considerano mutilati e invalidi civili i cittadini affetti da minorazione congenita e/o acquisita (comprendenti) gli esiti permanenti delle infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo, o se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età.

Al fine di tutelare i diritti costituzionali del cittadino invalido, è stata imposta ai datori di lavoro l’assunzione di lavoratori disabili, in cambio di agevolazioni fiscali per un periodo determinato. Il lavoratore avviato deve essere adibito a mansioni compatibili con le sue condizioni di salute. La verifica della compatibilità può essere richiesta sia dal dipendente che dal datore di lavoro, quando si verifichi un aggravamento della patologia o una modifica delle modalità lavorative.

Se la mansione risulta incompatibile, il datore di lavoro deve assegnarne un’altra di pari livello e, nel caso di impossibilità a reperirla, anche di divello inferiore ma con uguale retribuzione.

Il lavoratore al quale sia stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa superiore al cinquanta per cento può fruire ogni anno di un congedo non superiore a trenta giorni per cure, eventualmente anche in periodi frazionati. Perché gli venga accordato il permesso di astensione dal lavoro, deve presentare al proprio datore apposita domanda, accompagnata dalla richiesta del medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale o appartenente ad una struttura sanitaria pubblica, dalla quale risulti la necessità della cura in relazione all’infermità invalidante riconosciuta. E’ inoltre tenuto a documentare in maniera idonea di essere stato sottoposto ad uno o più cicli di cure. In quest’ultima circostanza, la giustificazione dell’assenza può essere presentata con un’attestazione cumulativa. Durante il periodo di congedo, non rientrante nel periodo di comporto, il dipendente ha diritto a percepire il trattamento economico delle assenze per malattia. (Decreto Legislativo 18 luglio 2011, n. 119, Art. 7)

Il dipendente assente dal lavoro per malattia, qualora questa sia correlata ad una invalidità riconosciuta pari o superiore al 67 percento, è esonerato dalla reperibilità alle visite mediche di controllo domiciliare, come stabilito dal Decreto Ministeriale del Lavoro e delle Politiche Sociali, 11 gennaio 2016. E’ utile sapere che l’Inps ha comunque facoltà di effettuare i controlli sulla correttezza della certificazione e sulla congruità della prognosi, pur nel rispetto dei diritti del lavoratore, mediante la richiesta di visita fiscale. Un’eventuale assenza del lavoratore invalido che si verifichi in tali circostanze, non determina alcuna sanzione amministrativa.

Maria Parisi
Associazione nazionale medici fiscali


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Il magnesio, uno degli elementi chiave della dieta mediterranea, sembra essere uno ‘scudo’ contro problemi di cuore (in particolare delle coronarie), ictus e diabete.

Un’alimentazione ricca di questo minerale, contenuto ad esempio nelle noci, in alcune verdure a foglia verde, nel pesce e nella carne, riduce infatti l’insorgenza di tali malattie.

È quanto emerge da una ricerca della Zhejiang University pubblicata sulla rivista Bmi Medicine. Gli studiosi hanno preso in esame i dati di 40 studi precedenti che hanno visto coinvolte in totale oltre un milione di persone in nove Paesi.

Dai risultati, che sono stati resi omogenei, è emerso che coloro che assumevano più magnesio tramite la dieta, si trovavano quindi in uno schema appositamente realizzato nella più alta categoria per consumo di questo minerale, avevano un rischio del 10% più basso di andare incontro a malattie delle coronarie, del 12% più basso di ictus e del 26% più basso di diabete di tipo 2. I risultati indicavano anche che 100 mg in più al giorno di magnesio nella dieta potrebbero ridurre il rischio di ictus del 7% e diabete di tipo 2 del 19%.

“Le linee guida per la salute attuali raccomandano un apporto di magnesio di circa 300mg al giorno per gli uomini e 270mg al giorno per le donne – spiega l’autore principale della ricerca Fudi Wang – nonostante ciò, la carenza di questo minerale è relativamente comune, colpisce tra il 2,5% e 15% della popolazione”.

ANSA


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