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Una camminata di 40 minuti con regolarità e a passo medio-veloce è alleata del benessere del cuore in menopausa.

Questa abitudine è infatti associata a una riduzione del 25% circa del rischio di insufficienza cardiaca (o scompenso cardiaco), una condizione in cui il cuore diventa troppo debole per pompare abbastanza sangue da soddisfare i bisogni del corpo. Il beneficio sembra essere indipendentemente dal peso corporeo o dall’esercizio svolto oltre alle camminate.

A evidenziarlo è uno studio condotto da Somwail Rasla, cardiologo al Saint Vincent Hospital che ha svolto durante la sua permanenza alla Brown University. La ricerca sarà presentata all’American College of Cardiology’s 67th Annual Scientific Session e ha analizzato le camminate a piedi e gli esiti in termini di salute relativi a 89.000 donne in un periodo di oltre 10 anni.

I dati sono tratti dalla Women’s Health Initiative, un ampio studio sulla salute delle donne, che ha raccolto informazioni sulle abitudini e la salute salute dal 1991 al 2005 di partecipanti che avevano tutte tra i 50 e i 79 anni al momento dell’inizio della ricerca. Gli studiosi hanno anche valutato il dispendio energetico complessivo delle donne mentre camminavano, tramite un calcolo noto come Metabolic Equivalent of Task (MET).

E’ emerso che quelle che facevano totalizzare i risultati migliori avevano il 25% in meno di probabilità di sviluppare insufficienza cardiaca rispetto a coloro che invece si collocavano al livello più basso. Frequenza, durata e velocità della camminata contribuivano in egual misura a questo beneficio complessivo. Le donne che camminavano almeno due volte alla settimana avevano un rischio di scompenso cardiaco inferiore del 20-25% rispetto a coloro che lo facevano meno frequentemente. Chi camminava per 40 minuti o più aveva un rischio inferiore del 21-25% rispetto a chi invece faceva passeggiate più brevi e anche il ritmo della camminata faceva la differenza.

ANSA


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Troppo zucchero fa male anche a chi è sano. Consumandone molto si ha un rischio aumentato di sviluppare problemi cardiovascolari.

È quanto emerge da uno studio dell’Università del Surrey, nel Regno Unito, pubblicato su Clinical Science. Gli studiosi hanno preso in esame due gruppi di uomini con molti o pochi grassi a livello del fegato, rispettivamente 11 e 14 persone. Per 12 settimane i partecipanti allo studio hanno seguito un’alimentazione a bassi o alti livelli di zucchero. Il primo regime alimentare conteneva non più di 140 calorie giornaliere in valore di zucchero – una quantità vicina all’assunzione raccomandata – mentre l’altro conteneva ben 650 calorie sempre in valore di zucchero.

Al termine dell’esperimento, gli uomini che avevano consumato molti zuccheri e con un elevato livello di grasso epatico – una condizione nota come steatosi epatica non alcolica o fegato grasso (NAFLD) – hanno mostrato cambiamenti nel metabolismo dei grassi associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, di infarto e ictus.

Ma i risultati hanno anche rivelato che quando il gruppo di uomini sani con un basso livello di grasso al fegato ha consumato una grande quantità di zucchero, il grasso epatico è aumentato e il loro metabolismo è diventato simile a quello degli uomini con steatosi epatica.

ANSA


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Dal fumo alla dieta. Uno studio pubblicato dal Journal American College Cardiology ha valutato il rapporto tra il conseguimento di sette obiettivi di salute cardiovascolare e l’effettiva riduzione dei rischi, nonché dell’allungamento della vita. È emerso che il raggiungimento anche di un solo obiettivo è efficace a qualsiasi età.

Sono sette gli obiettivi di salute cardiovascolare individuati dall’American Heart Association, il cui raggiungimento – totale o parziale – sarebbe associato a una vita più lunga e a minori eventi cardiovascolari, indipendentemente dall’età. Infatti in un gruppo di pazienti anziani partecipanti allo studio “i vantaggi di una salute cardiovascolare ideale nel ridurre la mortalità e gli eventi vascolari (infarto, ictus) è stato paragonabile a quello che si osserva nelle fasce di popolazione più giovane – ha detto Bamba Gaye, dell’Università Paris Descartes, autrice principale dello studio – Questa è una buona notizia, in quanto suggerisce che non è mai troppo tardi per impedire lo sviluppo di fattori di rischio per la malattia cardiovascolare”.

Lo studio
Gaye e colleghi hanno preso in esame oltre 7 mila persone per vedere come il conseguimento dei sette obiettivi ideali o ‘Life’s Simple 7’, avrebbe potuto influenzare il rischio di morte o di avere un ictus o un attacco cardiaco nel corso dello studio.

I sette obiettivi includevano:
– Indice di massa corporea (BMI) inferiore al valore del sovrappeso
– Svolgimento di un’attività fisica vigorosa per 75 minuti a settimana o di una moderata attività fisica, almeno per 150 minuti a settimana
– Non fumare o aver smesso almeno da 12 mesi
– Seguire una dieta sana che includa verdure e frutta fresca ogni giorno, pesce due volte o più a settimana e meno di 450 calorie a settimana di zuccheri
– Avere una pressione sanguigna sotto i 120/80, senza farmaci
– Mantenere un livello di colesterolo normale, senza farmaci
– Mantenere un normale livello di zuccheri nel sangue, senza farmaci

Dei 7371 partecipanti , la cui età media era di 74 anni, solo un individuo è riuscito a raggiungere i sette goals e solo il 5% dei partecipanti ne ha raggiunti almeno 5. I risultati sono stati pubblicati dai ricercatori sul Journal of the American College of Cardiology. Per tutti gli obiettivi, ad eccezione dell’attività fisica e del colesterolo totale, le donne avevano maggiori probabilità rispetto agli uomini di essere ad un livello ideale.

Gli altri risultati
Il gruppo di ricerca ha seguito i soggetti arruolati nello studio per monitorare la loro salute; metà dei partecipanti è stata seguita per più di nove anni. Rispetto ai soggetti che non raggiungevano più di due obiettivi, per quelli che hanno raggiunto tre o quattro target il rischio di morte durante lo studio si era ridotto del 16% mentre il raggiungimento di cinque-sette target aveva ridotto il rischio del 29%.

Infatti, il rischio di morte è diminuito del 10% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. Ugualmente, il rischio di malattie cardiache coronariche e ictus si è ridotto del 22% per ogni obiettivo raggiunto al livello ideale. “Il goal ideale sarebbe quello di non avere alcun fattore di rischio per malattia cardiovascolare – ha osservato Gaye – Tuttavia, il nostro studio dimostra anche un beneficio per gradi sulla base del numero di fattori di rischio portati a livello ottimale. Quindi un approccio forse più realistico potrebbe essere quello di consigliare ai soggetti anziani di avere almeno un fattore di rischio a livello ottimale e di raggiungere progressivamente livelli ottimali degli altri fattori di rischio”.

“L’obiettivo di un invecchiamento di successo non è l’immortalità, ma il tempo trascorso con malattia e disabilità – ha scritto in un editoriale sullo studio, Karen P. Alexander della School of Medicine della Duke University di Durham – Questo studio ci ricorda che i fattori di rischio e le modifiche dello stile di vita non hanno data di scadenza e continuano a produrre benefici per una vecchiaia sana, ben oltre i 70 anni. Gli anziani dovrebbero concentrarsi non tanto sul perfetto raggiungimento del ‘Life’s Simple 7’ quanto piuttosto sul percorso di lavoro necessario per raggiungere questi obiettivi”.

Fonte: Journal American College Cardiology


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C’è chi le chiama le diete ‘yo-yo’, intendendo con questo termine colloquiale quell’abitudine assai frequente di alternare periodi di regime alimentare a contenuto calorico estremamente ridotto, se non di digiuno vero e proprio, a periodi di bagordi come se non ci fosse un domani. Una battaglia metabolica che si combatte sul corpo, con drammatiche escursioni di peso corporeo.

E che non sia solo una questione estetica, ma un rischio serio per la salute lo dimostra uno studio pubblicato oggi sul New England Journal of Medicine che è andato a valutare l’effetto delle escursioni del peso sulla mortalità e sugli eventi cardiovascolari nei pazienti con malattia cardiovascolare già in atto.

Lo studio, che ha arruolato 9.509 partecipanti, è stato disegnato per valutare safety ed efficacia dell’atorvastatina e aveva come endpoint primario un composito di coronaropatia, infarto miocardico non fatale, arresto cardiaco rianimato, rivascolarizzazione e angina. Endpoint secondari erano la comparsa di qualunque evento cardiovascolare (coronaropatia, evento cerebrovascolare, arteriopatia periferica, scompenso cardiaco), la mortalità, l’infarto del miocardio e l’ictus.

Dopo gli opportuni adeguamenti per i vari fattori di rischio cardiovascolari noti , da questa nuova sotto-analisi pubblicata oggi, emerge che, in parallelo all’aumento della variabilità del peso corporeo, si assiste ad un aumento del rischio di eventi coronarici, cardio-vascolari e di mortalità.

In particolare tra i soggetti appartenenti al gruppo con la maggior variabilità del peso corporeo, il rischio di un evento coronarico aumentava del 64%, quello di un evento cardiovascolare dell’85%, quello di mortalità del  124%, quello di infarto del 117% e infine quello di ictus del 136%.

Tra i soggetti coronaropatici dunque le fluttuazioni del peso corporeo si associano ad una maggior mortalità e ad un maggior tasso di eventi cardiovascolari, indipendentemente dalla presenza o meno degli altri tradizionali fattori di rischio cardiovascolari.

La perdita di peso – concludono gli autori – è di certo un importante intervento sullo stile di vita, visto che l’obesità nei soggetti senza patologie cardiovascolari rappresenta un importante fattore di rischio per insulino-resistenza, diabete, ipertensione, dislipidemia e coronaropatia, mentre una importante perdita di peso come quella indotta dalla chirurgia bariatrica abbatte drammaticamente il rischio cardiovascolare.

Tuttavia, nei soggetti con patologia cardiovascolare già stabilita, fare su e giù col peso, come dimostrato in questo studio, può dare grossi problemi: non solo aumenta il rischio di eventi cardiovascolari, ma addirittura si associa in maniera forte e indipendente alla comparsa di diabete mellito.

Di certo questo studio attesta la presenza di un’associazione, che non significa causalità naturalmente e questo è un suo limite, insieme ad altri metodologici. Resta il fatto che rappresenta un importante campanello d’allarme da non sottovalutare ma da approfondire in futuro.


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