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Il piccolo paziente, affetto da broncomalacia, è tornato a respirare autonomamente. Il suo bronco era schiacciato tra l’arteria polmonare sinistra e l’aorta toracica discendente. “I dispositivi 3D realizzati con materiale riassorbibile, destinati a scomparire e ad assolvere la loro funzione in maniera poco traumatica, rappresentano la nuova frontiera della chirurgia delle vie aree in età pediatrica” spiega il cardiochirurgo che l’ha operato, Adriano Carotti.

Un “bronco” riassorbibile stampato in 3D per restituire il respiro a un bambino di 5 anni. È stato impiantato all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, con un intervento sperimentale, su un paziente affetto da broncomalacia, un cedimento della parete bronchiale che impediva il normale flusso di aria nel polmone sinistro. È la prima operazione di questo genere in Europa.

Il dispositivo, realizzato grazie a un lavoro d’équipe durato oltre 6 mesi, ha consentito al bambino di respirare autonomamente. Il “bronco” 3D è stato interamente progettato al Bambino Gesù con sofisticate tecniche di imaging e bioingegneria. È stato stampato con materiale bio-riassorbibile che verrà progressivamente eliminato dall’organismo dopo aver accompagnato la crescita dell’apparato respiratorio del bambino e restituito al bronco la sua funzionalità. A poco meno di un mese dall’intervento, il bimbo è potuto tornare a casa.

“Il “bronco” 3D – spiega l’ospedale pediatrico in una nota – nasce da un progetto del Bambino Gesù basato su uno studio dell’Università del Michigan, negli Stati Uniti, dove sono stati eseguiti i primi 15 impianti del genere. Il dispositivo personalizzato è stato disegnato sull’anatomia del piccolo paziente partendo dalle immagini bidimensionali (TAC) realizzate nel Dipartimento di Diagnostica per Immagini dal dott. Aurelio Secinaro e poi rielaborate con sofisticate tecniche di bioingegneria dal dott. Luca Borro dell’Unità di Innovazione e Percorsi Clinici. Il modello tridimensionale, una “gabbietta” cilindrica che riproduce la struttura del bronco, è stato stampato con policaprolattone e idrossiapatite, composto bio-riassorbibile che viene eliminato dall’organismo nell’arco di circa 2 anni.”

La stampa 3D è stata affidata, nell’ambito di un progetto di ricerca, al centro di stampa 3D Prosilas che ha reperito e adattato il materiale alle proprie tecnologie. Prima dell’impianto, il “bronco” è stato sottoposto a processi di sterilizzazione a bassa temperatura per non alterarne struttura e caratteristiche. Per i test di resistenza meccanica l’Ospedale si è avvalso della collaborazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

Con l’autorizzazione all’uso compassionevole del dispositivo sperimentale concessa dal Ministero della Salute, il team di chirurghi ha potuto procedere con l’operazione. L’intero procedimento, dalla progettazione all’intervento, ha richiesto oltre 6 mesi di intenso lavoro di squadra.

Il delicato intervento sul paziente di 5 anni, durato 8 ore, è stato eseguito il 14 ottobre 2019 dal dott. Adriano Carotti, responsabile dell’Unità di Funzione di Cardiochirurgia Complessa con Tecniche Innovative, in collaborazione con i chirurghi delle vie aeree del Laryngo-Tracheal Team, diretto dal dott. Sergio Bottero.

Il bronco del bambino era schiacciato tra l’arteria polmonare sinistra e l’aorta toracica discendente. Questa compressione, di lunga data, aveva generato il restringimento del condotto respiratorio e il cedimento degli anelli di cartilagine che sostengono la parete del bronco. A causa delle difficoltà respiratorie, nelle ore notturne il piccolo aveva bisogno del supporto dei macchinari per la ventilazione non invasiva.

Nel corso dell’intervento, eseguito in circolazione extracorporea, i cardiochirurghi hanno spostato le arterie polmonari che causavano lo schiacciamento bronchiale, quindi hanno eseguito l’impianto. Il dispositivo è stato posizionato all’esterno del bronco malato ancorando il tessuto indebolito alla gabbietta 3D con delle suture. I chirurghi delle vie aeree hanno effettuato il monitoraggio pre, intra e post operatorio. A poco meno di un mese di distanza dall’operazione il bambino è tornato a casa con la sua famiglia. Ora è in grado di respirare normalmente.

“La malacia dei bronchi, ovvero la perdita della funzione di supporto da parte degli anelli di cartilagine che compongono le vie aeree, è una lesione relativamente rara che produce una limitazione del normale flusso gassoso attraverso la via aerea e può condurre all’insufficienza respiratoria”, spiega ancora la nota. “La cartilagine indebolita, infatti, tende a collassare principalmente durante la fase espiratoria, di cui ne prolunga la durata. Inoltre, tende ad impedire l’espettorazione, provocando l’intrappolamento delle secrezioni e favorendo le infezioni polmonari”.

La broncomalacia è legata a diverse cause: può avere un’origine genetica; può associarsi a determinate forme di prematurità; può manifestarsi in seguito a traumi e infiammazioni croniche o essere causata dalla compressione esercitata da vasi sanguigni anomali. La maggior parte dei casi di compressione vascolare si risolve con la rimozione della causa (ad esempio riposizionando i vasi sanguigni responsabili). Nelle situazioni più complesse, quando la compressione di lunga durata produce “cedimento” della parete bronchiale, eliminare la causa della broncomalacia non è sufficiente ed è necessario ricorrere anche all’impianto di una struttura di sostegno.

“I dispositivi 3D realizzati con materiale riassorbibile, destinati a scomparire e ad assolvere la loro funzione in maniera poco traumatica, rappresentano la nuova frontiera della chirurgia delle vie aree in età pediatrica” spiega il cardiochirurgo Adriano Carotti. ”Presto potranno sostituire completamente gli stent di silicone, facilmente dislocabili, e gli stent metallici che, una volta inglobati nella parete della via aerea, non sono più rimovibili e possono interferire con la crescita dell’apparato respiratorio del bambino. Il “bronco” 3D impiantato sul nostro piccolo paziente, invece, scomparirà dall’organismo nel giro di un paio d’anni. È ragionevole pensare che, nel frattempo, avrà indotto la generazione di una reazione fibrosa peribronchiale che in qualche modo “sostituirà” la funzione della cartilagine rovinata: il bronco sarà così in grado di sostenersi da solo e avrà la possibilità di svilupparsi e di continuare a crescere”.


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Lavare i denti di frequente riduce il rischio di fibrillazione atriale e di insufficienza cardiaca.

Lo suggerisce uno studio condotto presso l’Università di Seul e pubblicato sull’European Journal of Preventive Cardiology.

L’indagine ha coinvolto quasi 162 mila persone di 40-79 anni, il cui stato di salute è stato monitorato per un tempo medio di 10 anni e mezzo. Gli epidemiologi hanno raccolto informazioni sugli stili di vita e le abitudini in quanto all’igiene orale del campione.

Diversi studi hanno associato il rischio di malattie cardiovascolari con problemi del cavo orale, in particolare la parodontite, malattia gengivale che, se non curata, può portare a perdita di denti. E proprio la perdita dei denti, spiega il Presidente eletto della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia Luca Landi, «è correlata a patologie cardiovascolari, cosa che è in linea con tutte le evidenze che vedono nella perdita dei denti un decadimento delle condizioni di salute e di benessere delle persone».

L’idea di fondo è che l’infiammazione e i patogeni presenti nel cavo orale – e in particolare i batteri che si annidano nella tasca gengivale – possano trasmettersi al resto del corpo attraverso il circolo sanguigno. Nello studio si è visto che l’igiene orale può avere un impatto su questa situazione, infatti, è emerso che per chi si lavava i denti tre o più volte al dì il rischio di ammalarsi di fibrillazione atriale era ridotto del 10% mentre quello di ammalarsi di insufficienza cardiaca era diminuito del 12%. In futuro, concludono gli epidemiologi, con studi di intervento si dovrà confermare il reale impatto dell’igiene orale sul rischio cardiaco.

«L’igiene orale professionale insieme con quella domiciliare quotidiana – sottolinea Landi – sono elementi fondamentali da considerare in un sistema integrato di prevenzione e cura che possa determinare una riduzione del rischio di patologie cardiovascolari. Quindi una visita annuale e una o più sedute di igiene orale professionale sono fondamentali a patto che siano seguite da un corretto regime di igiene domiciliare».

«Aumentare la consapevolezza sulle correlazioni tra salute orale e malattie sistemiche – conclude Landi – è alla base di qualunque programma di prevenzione che possa incidere sulla salute e sul benessere delle persone e rappresenta uno degli impegni che la SIdP ha fatto propri».

ANSA


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Un adolescente su quattro va letteralmente nel panico se gli viene negato lo smartphone.

A dimostrare come il telefonino sia in grado di creare oramai a tutti gli effetti una dipendenza, è uno studio pubblicato sulla rivista BMC Psychiatry. Dalla ricerca emerge anche che l’uso problematico di questi dispositivi va di pari passo con un maggior rischio di ansia e depressione.

I ricercatori del King’s College di Londra hanno esaminato 41 precedenti ricerche in materia, a cui hanno partecipato un totale di 41.000 giovanissimi. Ne è emerso il 23% degli adolescenti aveva un comportamento coerente con una dipendenza, come l’ansia per non essere in grado di usare il telefono, non essere in grado di moderare il tempo trascorso davanti allo smartphone e usare i cellulari così tanto da limitare il tempo dedicato ad altre attività.

Tale comportamento di dipendenza sembra inoltre collegato ad altri problemi di salute, afferma lo studio, come stress, depressione, mancanza di sonno e risultati scolastici ridotti. «Non sappiamo se è lo stesso smartphone che può creare dipendenza o le app che le persone utilizzano», afferma uno degli autori del rapporto, Nicola Kalk, ricercatore presso l’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze del King’s College di Londra. «Quel che è certo – prosegue – è che non possiamo eliminarli dalle nostre vite. Quindi è necessario sensibilizzare l’opinione pubblica sul corretto uso e i possibili rischi di questi dispositivi nei bambini e nei giovani».

ANSA


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I funghi erano stati raccolti dal marito. Dopo averli mangiati, entrambi hanno iniziato a sentirsi male. La donna, in grave condizioni, è stata trasferita da Chivasso all’ospedale Molinette con una necrosi epatica acuta, sviluppando poi una insufficienza epatica acuta. Il trapianto, necessario entro 48 ore, reso possibile grazie alla catena trapiantologica nazionale.

Salvata con un trapianto di fegato in super urgenza nazionale una donna che aveva mangiato Amanita, presso l’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino. A raccontare la vicenda è l’ufficio stampa della Città della Salute in una nota.

“Una coppia della provincia di Torino aveva mangiato funghi, che erano stati appena raccolti dal marito. Peccato che tra questi ci fosse anche la terribile e mortale Amanita Phalloides. Nella notte di venerdì i due hanno cominciato a stare male e sono stati trasportati al Pronto soccorso dell’ospedale di Chivasso. La donna di 57 anni però continuava a peggiorare sensibilmente tanto da essere stata trasferita prima in Rianimazione e poi nella giornata di domenica nella Terapia Intensiva epatologica dell’ospedale Molinette con una necrosi epatica acuta”.

Dopo tutti gli accertamenti e gli approfondimenti è stata trasferita nella Rianimazione 2 ospedaliera, ma soprattutto è stata inserita in lista d’attesa trapianto in super urgenza nazionale per insufficienza epatica acuta. “Da quel momento avrebbe avuto massimo 48 ore di vita se non fosse arrivato un fegato compatibile da trapiantare. Grazie al Coordinamento regionale trapianti piemontese, la notte stessa si è reso reperibile un fegato proveniente da un uomo deceduto in un’altra regione italiana”.

Nella giornata successiva, con una corsa contro il tempo, è stato effettuato un lungo e complicato trapianto di fegato, durato circa 8 ore, effettuato dal professor Renato Romagnoli (direttore del Centro trapianti di fegato) in collaborazione con il dottor Francesco Lupo.

L’intervento è tecnicamente riuscito ed ora la paziente è in fase di recupero ricoverata in Terapia intensiva. Nel frattempo il marito è ricoverato presso l’ospedale di Chivasso con lieve danno epatico ed un danno renale acuto.


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I ragazzi che fumano cannabis vanno incontro a un rischio aumentato del 30% di essere ricoverato per un grave attacco cardiaco.

Adolescenti e giovani che fanno uso di cocaina, anfetamine e cannabis hanno maggiori probabilità di essere ricoverati per attacco cardiaco all’inizio dell’età adulta rispetto alle controparti che non usano queste sostanze. È quanto emerge da uno studio condotto negli USA e pubblicato dal Journal of Adolescent Health 2019.

Dal 2010 al 2014 i ricercatori del Griffin Memorial Hospital di Norman, Oklahoma – guidati da Rikinkumar Patel – hanno esaminato i dati relativi a 1.694 pazienti tra i 15 e i 22 anni ricoverati per attacchi cardiaci e a quasi 9,4 milioni di soggetti della stessa età ricoverati per altri motivi.

Nel complesso, il rischio di ricovero per un attacco cardiaco era di 3,9 volte superiore per chi faceva uso di cocaina, 2,3 volte superiore per i consumatori di anfetamine e del 30% superiore per gli utilizzatori di cannabis rispetto a chi non faceva uso di queste droghe.

Molte persone ritengono che la cannabis abbia un basso rischio clinico, “nonostante crescenti evidenze di significativi effetti collaterali derivanti da disturbi legati al consumo di cannabis (dipendenza/abuso)”, scrivono gli autori dello studio sul Journal of Adolescent Health.

“Il nostro studio dimostra una maggiore prevalenza e una significativa percentuale di attacco cardiaco acuto nei giovani che fanno uso di cannabis, insieme alle potenziali implicazioni economiche per la gravità della malattia, la durata prolungata della degenza e il maggior uso di modalità di trattamento”, affermano i ricercatori.

Gli effetti a breve termine della cannabis comprendono cambiamenti d’umore, movimenti corporei compromessi e difficoltà di pensiero, risoluzione dei problemi e memoria. Nel tempo, la sostanza può anche determinare problemi di respirazione, aumento della frequenza cardiaca e diversi disturbi dell’umore.

I dati dello studio

Nello studio, circa il 15% dei giovani ricoverati per attacchi cardiaci faceva uso di cannabis, il 2,5% di anfetamine, il 6% di cocaina, il 2,6% di oppiacei e il 28,4% di tabacco.

La maggior parte dei pazienti con abitudini d’uso di sostanze legate al loro attacco cardiaco avevano tra i 19 e i 22 anni, erano di sesso maschile e caucasici.

Ad usare anfetamina erano in maggioranza soggetti con un basso reddito, mentre quelli con un reddito più elevato si facevano di cocaina.

Gli utilizzatori di cannabis hanno fatto registrare un numero maggiore di esiti infausti dopo un attacco cardiaco rispetto a chi faceva uso di altre sostanze. Quasi il 15% degli utilizzatori di cannabis stava molto male quando sono stati ricoverati per attacco cardiaco, una percentuale maggiore rispetto a quella osservata con gli utilizzatori di cocaina o anfetamina.

Le spese ospedaliere medie per gli utilizzatori di cannabis vittime di attacchi cardiaci ammontavano a 53.608 dollari, rispetto ai 49.979 per i consumatori di cocaina e ai 43.720 per chi faceva uso di l’anfetamina.

Nel complesso, il 2,7% dei pazienti con attacco cardiaco sono deceduti in ospedale, mentre il 2% di chi abusava di cannabis e ha avuto attacchi cardiaci è morto durante la degenza. Non si sono registrati decessi tra gli utilizzatori di cocaina o anfetamina vittime di un attacco cardiaco.

Fonte: Journal of Adolescent Health 2019


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C’è un gesto semplice che può essere fatto ogni giorno per mantenere il cervello giovane e contrastare le varie forme di demenza: utilizzare l’olio extravergine di oliva nella dieta.

L’olio evo, come viene anche denominato, è un superfood, ricco di antiossidanti che proteggono le cellule e noto per i suoi molteplici benefici per la salute, incluso quello di aiutare a frenare l’insorgere di malattie legate all’invecchiamento, in particolare quelle cardiovascolari.

Già altre ricerche della Lewis Katz School of Medicine della Temple University hanno mostrato che preserva la memoria e può proteggere dall’Alzheimer e ora un nuovo studio sempre dello stesso Ateneo evidenzia che al lungo elenco di benefici può essere aggiunto un altro gruppo di malattie legate all’invecchiamento: le tauopatie, che sono caratterizzate dal graduale accumulo di una forma anormale di una proteina chiamata tau nel cervello.

Questo processo porta a un declino della funzione mentale o della demenza. I risultati sono i primi a suggerire che l’olio extravergine di oliva può difendere da un tipo specifico di declino mentale legato alla tauopatia noto come demenza frontotemporale.

«L’olio evo fa parte della dieta umana da molto tempo- spiega uno dei ricercatori, Domenico Praticò – e ha molti benefici per la salute, per ragioni che non comprendiamo ancora del tutto. La consapevolezza che può proteggere da diverse forme di demenza ci offre l’opportunità di conoscere meglio i meccanismi attraverso i quali agisce per sostenere la salute del cervello».

Un modello murino è stato sottoposto a una dieta integrata con olio extravergine in giovane età, paragonabile a circa 30 o 40 anni nell’uomo. Sei mesi dopo, quando i topi avevano l’equivalente dell’età di 60 anni nell’uomo, gli animali inclini alla tauopatia hanno sperimentato una riduzione del 60% dei depositi di tau dannosi. I topi che hanno seguito una dieta con olio extravergine hanno ottenuto risultati migliori in termini di memoria e test di apprendimento.

ANSA


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«Da Bach ai Led Zeppelin, ascoltare la musica preferita produce felicità e benessere in grado di allungare la vita in salute. La musica infatti si dimostra un prodigio: nei disturbi dell’umore, disagio psichico, depressione è efficace come i farmaci ansiolitici e antidepressivi». I ricercatori della Comunità mondiale della longevità (Cmdl) promuovono a pieni voti la musicoterapia, soprattutto nell’approccio medico riabilitativo.

La nuova frontiera della neuroscienza ispirata all’arte dei suoni è stata oggetto di un convegno a Cagliari organizzato dalla stessa Comunità che studia i centenari insieme all’Istituto europeo di ricerca Ierfop e alla Società italiana di medici fisica riabilitativa (Simfer), guidata da Mauro Piria.

«Accoppiata al canto la musica è un toccasana nei deficit di lettura e apprendimento – spiega Roberto Pili, presidente della Cmdl – ma è nelle malattie neurodegenerative tipiche dell’invecchiamento, quali demenza e Parkinson, che dà il meglio di sé. La pratica musicale, specie se iniziata in giovane età , aumenta la cosiddetta ‘riserva cognitiva’, quel tesoretto di capacità e funzionalità cerebrale che in età anziana contrasta lo sviluppo della demenza».

«Stupefacenti – osserva il ricercatore – i risultati della musicoterapia nel Parkinson e nelle paresi. Abbinare il movimento di questi malati a un brano musicale molto ritmato porta infatti a miglioramenti immediati». «L’ascolto attivo della musica migliora lo stato mentale e fisico, predispone all’empatia e alla socializzazione, elementi che esaltano la qualità della vita, la fortificano, la allungano – argomenta ancora Roberto Pili – è un’esperienza formativa che investe e allena tutto il cervello, cabina di regia della vita, cervello che risponde attivando i centri della gratificazione, empatia, socialità, vera chiave di felicità e benessere, stati d’animo in grado di allungare l’aspettativa di vita di almeno 10 anni».

ANSA


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I contraccettivi ormonali possono avere come effetto collaterale depressione e comportamenti suicidari: lo precisa l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) in una nota informativa.

Nella lettera inviata ai medici, spiega che si è deciso di aggiornare le informazioni sul prodotto con questa nuova avvertenza, dopo una valutazione sulla sicurezza fatta in Europa sul rischio di comportamento suicidario e suicidio associati a depressione, nelle pazienti che usano contraccettivi ormonali.

L’umore depresso e la depressione sono effetti indesiderati noti associati ai contraccettivi ormonali. La depressione può essere grave ed è un fattore di rischio per l’insorgenza di comportamento suicidario e suicidio.

Le pazienti devono quindi essere informate e contattare il proprio medico se notano cambiamenti d’umore e sintomi depressivi, anche se si presentano poco dopo l’inizio del trattamento. L’avvertenza vale per tutti i contraccettivi ormonali in vendita in farmacia, cioè pillola, cerotto, anello vaginale, spirale e impianto per uso sottocutaneo.

ANSA


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Soffrire a 18 anni di ansia è strettamente legato all’abuso di alcol qualche anno dopo.

A dirlo è uno studio dell’Università di Bristol pubblicato sulla rivista scientifica Drug and Alcohol Dependence. La ricerca (di tipo osservazionale) è iniziata negli anni Novanta e rafforza tutte quelle prove che già identificavano una relazione tra lo stato d’ansia e la successiva dipendenza da alcol.

Utilizzando i dati di un questionario e di un colloquio clinico che ha coinvolto più di 2000 ragazzi, gli studiosi inglesi hanno scoperto che il disturbo d’ansia generalizzato all’età di 18 anni è collegato al bere più di frequente intorno ai 21 anni.

«La relazione tra il disturbo d’ansia generalizzato e il bere dannoso all’età di 18 anni persiste nella prima età adulta – ha detto Maddy Dyer, ricercatrice che ha partecipato all’analisi – Aiutare gli adolescenti a sviluppare strategie positive per far fronte all’ansia, invece di far loro bere alcolici, può ridurre il rischio». Secondo gli studiosi inglesi saranno necessarie ulteriori analisi per capire meglio le connessioni tra l’alcol e la salute mentale per cercare di individuare eventuali soluzioni nella lotta contro la dipendenza da alcol.

ANSA


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